Morte di un Marinaio

di Francesco Rinaldi
Quarto classificato all'VIII Trofeo RiLL

Il cargo ha lasciato il porto di Viana do Castelo. Guardo le luci della Nostra Signora dell'Agonia che si allontanano lentamente. Mi metto in bocca una presa di tabacco. Sono le prime luci dell'alba. Stacco dal ponte e scendo sottocoperta. Faccio il primo turno in sala macchine.
La ferita all'addome mi fa un male cane. Quel bastardo di Braga mi ha preso di striscio con la sua arma da taglio. Un giorno o l'altro gliela faccio pagare.
Mi brucia anche il tatuaggio a croce con teschio che mi sono fatto nella stamberga dietro la Misericordia. Di solito preferisco fiori e puttane. Non questa volta. Alla prossima ci aggiungo due corvi.
Inizio il turno. Mi sputo sulle mani. Manovro le pulegge. I pensieri nella mia mente girano come una spirale. Normale quando passo una settimana sulla terra ferma. Un effetto che si smorza dopo un paio di giorni.
Il turno con le macchine trascorre rapidamente. Ho smontato a notte fonda. Sono salito sul ponte che ero ormai fradicio di alcool e sudore. La notte è fresca. La sento mentre striscia contro la mia faccia. Ho voglia di vomitare e vomito giù nel mare nero.

Fumo un sigaro sul ponte. Sono le prime luci dell'alba. Scendo in sala macchine. Una turbina difettosa mi fa sputare sangue. La maglietta puzza di olio lubrificante e di vino verde. Sputo sangue.
Mi risveglio sulla branda. Vado alla mensa a prendere qualcosa da mangiare.
Non parlo con gli altri marinai. Non ho niente da dire. Raccontano sempre le stesse cose. Cambiano i nomi delle città e dei bordelli ma le storie sono sempre le stesse. Preferisco buttar giù queste parole dal barile, macchiate di vinaccia e acide di bile.
Mi stendo sulla branda e butto giù qualche riga sul diario di viaggio. Quando finiscono le pagine lo lascio cadere tra i flutti. Sarebbe un peso inutile nella sacca. Mi piace viaggiare leggero.
Allaccio il giubbone. Tira un vento freddo. Poggiato con i gomiti sull'argano del montante. C'è il mare di fronte a me, è buio pesto, lo sento ma non lo vedo. Getto il mozzicone. La cinigia sfrigola contro la chiglia e si spegne nel nero.
Alzo i baveri del giubbone. Tira vento di ponente. Il cielo è pieno di stelle. Barcollo con la bottiglia in mano, mi poggio alla balaustra. Le onde si infrangono contro lo scafo, le vedo spumare. Sono i riflessi della luna. Un'altra notte in mezzo al mare.

Devo aver bevuto parecchio. I calamari mandavano un po' di petrolio. Mi è venuta l'acidità di stomaco. Sono ancora sulla branda. Guardo fuori dall'oblò. Il mare è calmo, il sole una mezza palla rossa tagliata dall'orizzonte. Ho un forte dolore alla cervicale. Ingoio quattro pastiglie. Passo dalla mensa e mi verso un mezzo litro di caffè nero. Ci sono i due carpentieri di Santo Amaro. Ridono come due bestie. Non ci guardiamo neanche in faccia. Esco.
Arrivo sul ponte. Il sole mi picchia sulla testa rasata. Le assi sono strisciate di sangue. Rivoli rossi scivolano verso la carena. Ce n'è abbastanza da tirarci fuori un sanguinaccio da dieci libbre. Devono aver squartato un maiale. Alzo il capo. Guardo sottochiglia. Mi sbaglio. Ci sono i cadaveri di tre uomini disposti sul fasciame. Sono imbrattati di sangue.
Li hanno sorpresi nel sonno e gli hanno aperto la pancia con il trinciapolli. Lavori su commissione. Le viscere se le sono portate via. Pagano bene i commercianti d'organi. Per quel poco che vale la pelle di un marinaio.
Uno degli sguatteri sta passando lo straccio. Alzo il capo verso il cielo. Gridano i gabbiani. Il sangue li attira, meglio pulire prima che imbrattino la cambusa con il loro guano. Sento il rumore di una schianto nell'acqua. Mi volto. Stanno gettando i cadaveri in pasto ai pescecani.
Arrivo in sala macchine, butto giù un sorso di caffè dalla tazza d'alluminio, lo sento speziato. Verifico i manometri della pressione. Devo aggiustare alcuni registri. Sforza una caldaia. Sento il pignone che cigola. Cerco di oliare l'ingranaggio ma la situazione non migliora.
Il mal di testa sta passando ma gli antidolorifici attaccano lo stomaco. Alzo la manica della maglietta. La croce si sta seccando. La pelle intorno al teschio è ancora un po' irritata. Sputo un fiotto di saliva acida sulle mani screpolate. Comincio ad aggiustare i bracci dei bilancieri. Le fitte allo stomaco vanno a peggiorare.
Finito il turno sono salito sul ponte. E' notte fonda. Cominciano a distinguersi in lontananza le luci di Ponta Delgada. Anche questo cargo ha finito il suo turno. E' arrivato all'ultimo viaggio, lo mandano all'alienazione di Vila Nova do Corvo. Butto giù un sorso profondo di vino verde. Ho gli occhi umidi di lacrime. Mi affeziono a queste maledette carcasse di metallo.
Gli uomini ritornano, cambiano la faccia ma hanno sempre lo stesso ghigno, li riconosco dalla sfilza di imbrogli che cercano di rifilare. Queste carcasse di ruggine no, quando prendono la strada del cimitero non ritornano più, restano per sempre impantanate nella melma della Madrugada.
Mi asciugo le lacrime con la manica del giubbone e butto giù un'altro sorso. Devo trovarmi un altro passaggio, farmi una passata alle taverne del porto, dove gli aguzzini cercano la ciurma per il loro cargo.
Tiro giù l'ultimo sorso e lancio la bottiglia dentro il nero del mare. Le luci di Ponta Delgada si stanno avvicinando.

Un paio di mozzi gettano le funi. Ho già raccolto la mia mercanzia. Mi butto la sacca sulla spalla ed ingaggio la passarella. Le suole dei miei scarponi raggiungono la pietra del molo. Allaccio i bottoni del giaccone. Mi volto e guardo il cargo per l'ultima volta.
Imbocco Rua da Pietade. Mi infilo nella prima taverna. Ordino un pacco da sei. Allontano il bicchiere. Preferisco sentire il metallo contro la bocca. Butto giù un sorso profondo. Non ho nessuna intenzione di sporcarmi gli occhi con luce del giorno. Mi attacco al collo della prima lattina.
Arriva la notte. Esco nel vicolo. Tutte le botteghe sono aperte. Vendono di tutto ma io non ho bisogno di niente, neanche delle due prostitute che ammiccano dal balcone.
Taglio la piazzetta. Ci sono i baracconi dei teatranti. Ogni volta che ritorno le cose sono cambiate. Saranno i mesi che passo in mezzo al mare, ma non ci trovo niente da ridere.
Tra la gente riconosco i due carpentieri di Santo Amaro. Hanno le tasche piene, si vede da come spalancano le fauci. Li lascio perdere.
C'è il nano che fa il saltimbanco, volto la testa e guardo gli spettatori che si divertono. Compro una lattina di birra fresca per tamponare l'arsura. Butto giù il primo sorso ed agito il capo. Poggio la lattina, infilo una moneta nella fessura e tiro una castagna al punching ball. Sale l'ago del dinamometro. Non male.
Lascio la piazzetta e mi dirigo verso il porto. C'è una canzone dei Setima Legiao che mi suona nella testa. Sputo sul selciato. Strana questa notte, porta uno strano sapore di nostalgia.
Raggiungo la fila delle taverne. Il sole è caduto dietro l'orizzonte, il mare sbatte contro gli argini di pietra. Accendo un trancio di sigaro e mi sbatto dentro la prima boite. Ordino una bottiglia di verde. Mi sciacquo la bocca e chiedo al barista di indicarmi la faccia di un aguzzino. Il barista non risponde.
Un tizio in fondo al bancone mi fa un gesto con il dito ad uncino. Mi accosto. Ha una faccia che mi ricorda qualcosa. Dice di andare al Canto del Marcio, l'ultima taverna in fondo al budello.
Cammino nel buio.
Mi segue una luna spezzata in fase calante.
Il Canto del Marcio è un buco di pietre alla fine della salita. Il varco d'ingresso è un pertugio ritagliato nel marcio di una luce d'arancio. Entro.
Il barista stappa un bottiglia di vino verde e me l'allunga sul bancone. Strano, conosce i miei gusti. Si toglie il mozzicone dall'angolo della bocca e mi indica il fondo del locale. C'è qualcuno seduto con i gomiti sul tavolaccio e le dita intrecciate ricoperte di anelli. L'ombra di una trave gli copre la faccia. Mi avvicino. Allunga il palmo di una mano. Gli siedo di fronte.
Parliamo di lavoro. Il passaggio che mi offre sembra buono. Gli faccio l'elenco delle mie referenze. Fa un cenno con il capo. Ha un sorriso acido viziato da un premolare rivestito in oro. Fuma una sigaretta sottile e sorseggia un liquore di maracuja. Passiamo ai soldi. La paga è accettabile. Non gli chiedo la destinazione. Cosa me ne fotte. Basta che ci sia un oceano di mezzo.
Mi allunga il ciclostile del contratto. Sistemo il mozzicone ad un lato della bocca, afferro il cartaceo e metto la mia firma in calce.
Ci stringiamo la mano. Mi indica le coordinate dell'ormeggio. Si parte domani all'alba. Butto giù l'ultimo sorso e lascio il tugurio.
Scendo la Calcada da Saudade a ritroso fino al molo. C'è movimento intorno alle baracche dei pescatori. Le luci dei lampioni illuminano la banchina. Sono appena rientrati un paio di pescherecci. Le ceste sono ricolme della solita accozzaglia di pescado e detriti. Ma le reti questa volta hanno tirato pesante. Tre cadaveri sono allineati sul selciato, sventrati e imbottiti d'acqua come dei pupazzi. Mi avvicino. Devono essere i marinai del mio ultimo cargo.
Cadaveri che non mi dicono niente. Gli hanno ridotto la faccia ad una poltiglia, si vedono le ossa del teschio.
Mi accosto al terzo cadavere. Riconosco gli scarponi. Tomaie graffiate in cuoio nero con le punte rinforzate in metallo. Mi inginocchio. Ha un tatuaggio sul petto. Il castello di Marvao è spaccato in due dalla ferita che ha reciso la carne, sullo sfondo la Serra de Sao Mamede dove si intravede un paese nascosto fra le montagne. Il posto dove sono nato.
Tiro la manica della maglietta. Inzuppata d'acqua si lacera come carta straccia. Sulla spalla trovo il teschio e la croce. Mancano i due corvi. Non mi hanno lasciato il tempo di metterceli.
Mi allontano un paio di metri. Accendo un sigaro e guardo il mio cadavere in prospettiva. Tira un vento acido che porta l'odore del pesce e degli uomini che stanno andando a male.
Mi butto la sacca sulla spalla e procedo lungo il molo. Cammino lentamente. Passo una dopo l'altra le imbarcazioni ormeggiate. Bastimenti, motonavi e bastarde. Marinai armeggiano con le gomene. Agito il capo. Preferisco il metallo di un mercantile.
Ritorna il vento fresco del mare. Mi riempio i polmoni. Raggiungo l'ormeggio e seguo le coordinate che mi ha dato l'aguzzino. Corrispondono. Trovo il mio nuovo cargo. E' in fase di carica. I braccianti stanno imbottendo la stiva. Apro il giubbone e tiro fuori dalla tasca il ciclostile del contratto. Guardo la destinazione. Un nome mai sentito. Io che credevo di avere una puttana in ogni porto.
Faccio per richiudere il giubbone. Deglutisco. La maglietta è inzuppata di sangue, recisa da un taglio ventrale. Mi hanno asportato le viscere. Richiudo il giubbone e mi avvicino all'attracco. Il padrone alza il mento. Gli mostro la carta. Fa un cenno col capo e mi indica il numero della branda. Butto la sacca sulla spalla ed ingaggio la passerella.
Un altro cargo, un altro viaggio.

Francesco Rinaldi è nato a Milano nel 1961.
Lasciata l'Italia verso la fine degli anni ottanta, ha vissuto in Portogallo, Cina e Ungheria.
Impiegato nel campo tecnico, è appassionato di letteratura, musica e sport. Attualmente risiede in Olanda, nella parte vecchia della cittadina di Leiden, dove sta lavorando ad alcuni romanzi, con l’obiettivo di farli pubblicare.
"Morte di un Marinaio" è il suo settimo racconto. Nel 2001 ha partecipato ad alcuni concorsi letterari, arrivando in finale al Premio Lovecraft ed ottenendo una segnalazione al Premio Alien.

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