La notte Balsamocarezza

di Bruna Graziani
Secondo classificato al XII Trofeo RiLL
[racconto presente nell'antologia Sognando Mondi Incantati, Nexus Editrice, 2006]

Il 13 maggio di quest’anno, alle sette del pomeriggio, ho aperto la porta di casa e mi sono trovata face to face con un elefante.
Ero reduce dalla furiosa lotta ingaggiata con la lattina dell’olio finita a coltellate. Dai due ampi fori era sgorgato un fiotto limpido e giallino destinato allo scalogno, che stavo sadicamente riducendo a fettine, sottili sottili, con guanti di gomma. Gli occhiali da sole mi proteggevano dalle esalazioni irritanti. È stato a quel punto che ho sentito il tonfo.
Non poteva essere il postino perché qui a Novèdici, il postino passa l’ultimo del mese, e per quell’evento mancavano ancora diciassette giorni. E poi il postino arriva il mattino, anche qui a Novèdici, e usa il campanello per annunciarsi o al limite la tromba del suo scooter, e poi l’avrei sentito arrivare, il suo motore si riconosce a un chilometro di distanza.
Non avevo proprio idea di chi potesse essere. In questo paese non viene mai nessuno di nuovo e noi del circondario ci annunciamo in un altro modo: con urla, grida, fischi personalizzati; ogni persona ha per soprannome una combinazione di note variamente modulate. A pensarci bene, così, a posteriori, se un umano comunica con richiami da foresta, perché mai un elefante non avrebbe potuto annunciarsi bussando alla porta?
Sono andata fuori interrogandomi mentre lo scalogno iniziava a sfriggere.
L’elefante stava seduto sul tappetino e lo copriva con il suo culone. Mi guardava con due occhi tondi e liquidi. Non era un elefante tanto grande e da quella posizione - mi trovavo a tre scalini più su rispetto a lui - avevamo lo sguardo alla stessa altezza. Sembrava fosse stato messo lì per darmi la possibilità di arricchire la mia conoscenza sull’argomento “occhi del mondo”.
Qualcuno me l’ha mandato ‘sto elefante, ho pensato con un brivido che mi correva lungo la schiena. L’anima in vita del Sommo Scrittore che invoco piangendo sotto le lenzuola pregandola di insegnarmi i suoi segreti? Forse Dio, che non si stanca mai di bussare alla mia porta sperando che prima o poi lo faccia entrare e magari gli offra da bere, in segno di riconciliazione, segno che mi è passata la luna per Certe Cazzate?
A far virare il mio umore riflessivo è stato l’odore di bruciato. “Spetta un attimo!” ho detto ad un occhio dell’elefante che mi osservava lacrimoso. Mi sono precipitata in cucina per abbassare la fiamma, sciando con le pantofole di panno sul marmo cerato. Ho tolto guanti di gomma ed occhiali da sole, poi sono ritornata fuori.
Mica ce li hai gli occhi proporzionati alla tua misura, gli ho detto. Beh, nemmeno gli occhi di Billy lo sono, continuavo a disquisire con piglio scientifico, lui ha due occhi così, gli ho detto all’elefante. Un tantino esagerati, non dico di no, sembrano due tuorli sporgenti in un cranio poco più grande di quello di un’anatra.
Ti chiederai chi è Billy, gli ho detto mentre filavo una sillaba dietro l’altra.
Billy è lo struzzo di mio zio Augusto. È un mio amico e ora mi riconosce, ma all’inizio era diffidente. Pensa che appena arrivato nel giardino di mio zio, quando vedeva qualcosa di animato, compresa una foglia, compresa me, cominciava a correre come un forsennato. Il collo gli oscillava come la pompa di una fontana e faceva certi versi preistorici che non ti dico, fino a quando lo zio non usciva urlando, vai a cuccia brutto tonto di un uccellaccio, un giorno o l’altro ti faccio in umido, non vedi che è Annarosa?
Pensa, ho continuato, Billy ha gli occhi talmente grandi che per inquadrare le cose ne usa uno alla volta, e a me, ora che mi posso avvicinare, ora che sono in confidenza con lui, mi fa fare pure qualche galoppata per il giardino, e sta perfettamente immobile quando mi specchio sulla sua iride. Potrei mettermi l’eye-liner senza sbavare da quanto fermo sta.
L’elefante stava lì immobile. I suoi occhi pieni di pupilla brillavano in mezzo ai rotoli di pelle grigia, simili a scampoli di un pneumatico. Non capivo se gradiva o meno quella conversazione. Forse no, oltretutto sembrava stessi facendo l’apoteosi degli occhi di qualcun altro.
Ma chi gliela va a spiegare ad un elefante l’innocenza di un sentimento come la buona fede: non avevo nessun’altra intenzione se non quella di confrontare organi morfologicamente diversi ma con funzione analoga: Billy era puro bulbo attorno a cui era costruito un piccolo cranio d’uccello. L’elefante invece aveva un cranio enorme, fatto di pezze di stoffa gommosa e spelacchiata. Gli occhi vi si intuivano appena, come chiodi fissati ad ognuno dei due lati della proboscide, in funzione della sua stabilità.
Un liquido vischioso gli colava dall’angolo interno della palpebra inferiore, come fosse resina.
Piangi? Gli ho detto cercando di carezzarlo. Temevo si scansasse, ma lui non si è mosso. Le mie dita si sono insinuate tra le sue pieghe ruvide. Erano umide e calde.
Nell’ottocento il guardiano degli elefanti indiani dello zoo di Londra raccontò a Charles Darwin di avere visto alcuni dei suoi animali piangere per il dolore. Ma io sapevo che quella era tutta una balla. Perché so che gli animali non piangono nello stesso modo in cui lo fanno gli uomini. Io sempre mi chiedo come mai l’uomo tende a ridurre il mondo che sta attorno a lui in base a quello che c’è dentro di lui. Le cose sono grandi, piccole, storte, esagerate, minuscole, approssimative, concrete. Ma grandi rispetto a che cosa? Brutte, cattive rispetto a cosa?
Questi, ed altri ragionamenti, li ho fatti a bassa voce, ovvio. Che vabbè che gli elefanti non piangono, ma quella sarebbe stata un’occasione fantastica sentendo le cazzate che sparano gli umani.
Forse un giorno lo faranno, ma non voglio essere io a spostare l’equilibrio del cosmo, io che non so nemmeno togliere una zanzara dal mio braccio, anzi, aspetto di vedere la sua pancia gonfiarsi del mio sangue rosso prima di prenderla delicatamente tra il pollice e l’indice e farla volare fuori della finestra. Poco ci manca che le dia i colpetti sul dorso per farle fare il ruttino. A casa mia le zanzare muoiono di vecchiaia.

Dunque dov’ero rimasta?
Sì, l’elefante.
Beh, gli ho detto, hai intenzione di startene qui a lungo senza darmi un segno? Il mio sesto senso non è così sviluppato da poter captare cosa frulla dentro il testone di un pachiderma. Non ci sono riuscita nemmeno con il mio moroso, figurati con un elefante. Rettifico: non ci sono riuscita nemmeno con un elefante, figurati con il mio moroso!
Lui ha sollevato piano la proboscide facendola gironzolare sopra i miei capelli, ma senza toccarmi. All’inizio mi sono spaventata, mi sono accucciata, come per evitare una pallonata. Ma quando ho visto come quel tubo rugoso si muoveva spostandomi l’aria attorno, in modo così leggero da sembrare una carezza, ho capito che forse stava cercando di dirmi qualcosa.
Erano le sette di sera e il crepuscolo cominciava a buttare ombra nell’aria per far su la notte. I merli l’aspettavano per le ciliegie. L’estro della vegetazione era così forte da fare rumore.
Ti va di entrare? Entra, gli ho detto.
Lui ha tentato di sollevarsi da quello che fino a pochi minuti prima era ancora uno zerbino.
Aspetta un attimo, gli ho detto.
Ho sceso con un salto i tre gradini che mi separavano da lui. Ho spezzato un ramo secco del cedro libanese che troneggia nel giardino di casa mia e, circumnavigandolo, sono andata dietro al bestione. Ho spostato la coda spelacchiata e ho fatto leva sul culone grigio e grinzoso. Una spinta io, una spinta lui ed ecco una tonnellata grigia di creatura fare l’ombra a un’altra, alta poco più di un metro e mezzo.
Oddio, lo scalogno! Ho urlato appena la zaffata che si era allungata dalla padella aveva raggiunto le mie narici, fuori, in cortile.
Aspetta qua, gli ho detto, vado a spegnere il fuoco. Ma non sederti per favore, sennò chi ti tira su ancora?
Ho spento il fuoco, lo scalogno era diventato un ghirigoro di anelli bruni sfrigolanti.
Lui era lì fuori in piedi, mastodontico e barcollante che mi guardava con due occhi così, pronto ad entrare.
Piano, cavolo! Fai piano, gli ho detto, mentre tentava di sfondare l’ingresso. Non aveva molto equilibrio, e neppure senso delle misure.
Se cadi qua distruggi tutto, gli ho detto. E più lo spingevo, più si insaccava nell’ingresso come una salsiccia dentro un budello troppo stretto. Uno, due e tre! Ed ecco l’elefante nel salotto di casa mia. Tutto intero (il salotto, non l’elefante).
L’elefante si chiama Ettore. Me l’ha detto lui, quando ha iniziato a prendere confidenza. È stata una notte che non potrò dimenticare. Ma la racconto dopo. Ti va un boccone? Ho azzardato io, mentre pensavo terrorizzata a quanti chili di pasta avrei dovuto cucinare per saziarlo almeno un po’. Gli ho detto tu stai comodo, lì, sopra il tappeto. Mi arrangio io a far da mangiare, al limite tu metti il sale, che io del sale non capisco mai la quantità giusta.
L’elefante ha sollevato il nasone a tubo, forse per dimostrarmi il suo assenso, ma ha frantumato tre dei cinque bicchieri in vetro soffiato del lampadario.
Mi ha guardato afflitto, sbattendo la proboscide sul pavimento, e poi sul soffitto, facendo fuori anche gli altri due bicchieri che aveva risparmiato al primo colpo.
La mia vicina di casa, quella del piano di sopra, sembrava tarantolata. È una che possiede uno strumento, un misuratore di decibel a bassa soglia. Agli eccessi acustici reagisce dando l’allarme: batte forte i piedi sul pavimento.
Ma come faccio io a dire ad un ospite cerca di muoverti con cautela, che qui mica siamo in mezzo alla giungla? Come faccio? Non faccio. I cocci giallini, verdini, arancione, bianchi e rosa del vetro soffiato gli brillavano tra i peli sottili e lunghi del dorso. Si è dato una scrollata che ha fracassato due sedie e storto la gamba al tavolo.
Ettore sembrava mortificato, a giudicare dall’atteggiamento.
Si è afflosciato al suolo e ha tentato di rimanere immobile, ma ogni piccolo spostamento aveva una conseguenza: ha sbreccato tre piastrelle, scheggiato lo stipite della porta.
Fa niente, ho detto io, cercando di rassicurarlo, fa niente, non ti preoccupare. Però ora rimani fermo lì, ok? Magari fammi un cenno con gli occhi e basta, ok? Guarda in su per dire sì, e in giù per dire no.
L’elefante capiva tutto. Ha rivoltato le pupille grigie verso il soffitto, senza muovere altro muscolo, e si è messo calmo ad aspettare lo spuntino.
Il sale lo metti tu? Gli ho chiesto.
Ettore ha messo in moto la sua proboscide, facendola strisciare sul pavimento, sembrava un enorme bruco equilibrista su un filo d’erba, poi è arrivato fino al pacco di sale e con una delicatezza unica è risalito tastando piano come fanno le mani dei ciechi, ha aspirato una certa quantità di sale con le narici, e poi l’ha soffiata dentro l’acqua che bolliva. Schsss! E così per cinque volte, tante erano le pentole che avevo messo sul fuoco.
Bravo! Gli ho detto fingendo di ignorare le schifezze che assieme al sale si erano mescolate ai nostri pasti.
Lui ha ritirato il naso facendolo camminare con le due appendici tattili dell’estremità e si è messo buono buono ad aspettare, soddisfatto.
Ti va bene al burro?
Ettore ha guardato in su.
Bene, veloce, pratico e sempre pronto all’uso, ho fatto io. Sapevo già che non avrei mangiato. Sull’acqua di tre pentole su cinque galleggiava una striscia di muco giallastro. Pensavo solo a come avrei fatto a buttare la mia parte, senza che lui se ne accorgesse, per non offenderlo.

A parte qualche inconveniente pratico, la mia convivenza con Ettore è andata più che bene.
Non pesava nemmeno sugli alimenti. Infatti, si era sparsa la voce della sua presenza, ormai era diventato uno del paese. “Etto” lo chiamavano. Ma solo i più intimi, i più affettuosi, quelli che mai si sarebbero permessi di alludere al suo peso. Così, quando qualcuno aveva il giardino con l’erba da tagliare, faceva una telefonata e lui partiva. In un’ora il giardino era perfetto e il proprietario soddisfatto del lavoro. Lui, soprattutto, sazio. La sua ricompensa erano rose, gigli, mazzi di margherite che mi metteva tra le braccia appena rincasava. Ma non prima di essere passato al fiume, essersi messo a mollo, e poi sfregato tutto con spighe di lavanda e infine aver masticato per mezz’ora un ciuffo di foglie di mentuccia.
Dormivamo insieme, nella stessa camera.
La cosa è iniziata per non farlo sentire troppo solo, così ho colto l’occasione per non sentirmi sola anch’io. Abbiamo tolto il letto, i mobili e la scrivania. Li ha tolti lui, a dire il vero, è stato come bere un bicchiere d’acqua. Nessuno può immaginare come diventi tutto più facile con un elefante in casa. Li ha accatastati nella stanza degli ospiti. La camera non ha nulla, se non un tappeto quattro per quattro che è il nostro giaciglio. E una tinozza di legno piena d’acqua per quando Ettore si svegliava di notte per bere.
Avevamo un rituale tutto nostro. Lui si stendeva su un fianco. Io mi accoccolavo tra le gambe davanti e appoggiavo la testa sulla sua morbida proboscide.
L’ho visto, a volte, guardarmi mentre aspettava che io mi addormentassi. Se avevo la testa appoggiata al suo nasone cilindrico, stava immobile, sgranchendone di tanto in tanto la punta quando gli veniva il formicolio.
Una notte d’estate, con il caldo, mi sono accorta di una cosa.
La luna schiariva l’aria. Entrava nella stanza obliquamente attraverso le stecche delle persiane e si diluiva nella tinozza. Nel cerchio d’acqua illuminata ondeggiavano ramoscelli di biancospino e pesco, qualche bocciolo di gelsomino, aghi di pino. Li aveva buttati lui, mentre mi stavo lavando i denti.
Ettore intingeva il suo naso tattile nella tinozza. Me lo passava piano su tutto il corpo per rinfrescarmi. Io fingevo di dormire ma, quando lui smetteva, aprivo un occhio come per dire ti prego continua, ancora, ancora, ti prego… e lui capiva, ricominciava.
La stanza era il recinto dei balsami e delle carezze. È andato avanti tutta la notte così. È stato bellissimo. Sentirmi perlustrare in ogni dove, con la sua proboscide, una doccia tiepida che mi dava mille sensazioni. Splat, splat, swishhhh. Frrr...

A scoprire che Ettore sapeva parlare ci ho messo ben poco. È successo quella notte, la notte Balsamocarezza, la notte d’amore.
All’alba la proboscide si è fermata esausta. Ettore mi guardava strano.
Stai bene? Gli ho detto.
Lui ha iniziato a raccogliere i rami dal fondo della tinozza con l’acqua consumata, uno a uno, affastellandoli sul tappeto con un ordine preciso come fa l’uccello giardiniere. Ha formato una scritta tridimensionale. Mi ha sollevato e dall’alto ho visto che aveva composto la parola. Diceva “LUCE”.
Sai scrivere? Gli ho detto stupita.
Ha alzato gli occhi al cielo ().
Come ti chiami?
ETTORE, mi ha scritto dopo aver strappato ancora un po’ di rami di cedro dell’aiuola davanti casa.
E io? Sai come mi chiamo?
ANNAROSA, mi ha scritto con il tiglio.
E come mai sei qui?
CIOÈ, ha scritto con l’oleandro.
Va bene va bene, gli ho detto, ti credo, adesso basta che rimango senza giardino.

Non che la nostra convivenza sia sempre stata priva di problemi. Anzi. Ma cose normali, che capitano a tutti. Succedeva che di notte, quando si assopiva, Ettore poteva girarsi senza rendersene conto. Una volta mi ha schiacciato un piede ed ho dovuto urlare con il megafono per svegliarlo. Miss Decibel ha ballato tarantelle con le mani e con i piedi e forse anche con il matterello. Sono rimasta ingessata venti giorni. Poi, a turno, è toccato al polpaccio, a due vertebre, al braccio sinistro e infine a tre costole.
Quando si imbiancava, però, era una goduria. Spostava i mobili in un baleno e faceva correre il pennello lungo la parete senza mai stancarsi. In tre ore abbiamo pitturato cinque stanze!
Voi vorrete sapere come è finita la nostra storia.
È stato un giorno (le cose succedono sempre “un giorno”. Il giorno è stato inventato appositamente per far succedere le cose. So con precisione che finora è stato inventato solo il tipo di giorno che fa succedere le cose, tutte le cose, indistintamente. Ho letto però, sul trafiletto di una rivista scientifica, che un team di fisici nucleari dell’Indiana sta mettendo a punto un ambizioso progetto riguardante le sintesi temporali finalizzate alla selezione di un tipo particolare di giorno, si chiama “giorno recessivo”, quello che fa succedere solo le cose belle).

Quel giorno, dunque, mi sono svegliata sola. Ero rannicchiata al centro del nostro giaciglio quattro per quattro che aveva ancora l’odore di Ettore, il suo calco potente, il suo calore. Ho raccolto lo straccio che teneva in testa, e me lo sono avvolto attorno al corpo come fosse un pareo. Un po’ me l’aspettavo: il giorno prima era stato tutto un vibrare di porte e muri, un barrire soffocato nel silenzio della mia casetta.
Sono corsa fuori per istinto ed ho trovato sullo zerbino un pacco di fogli. Erano stati incollati insieme, a fisarmonica, con la resina dei pini del parco vicino. Insieme, formavano una pagina, che aperta sarebbe diventata grande come tutto il prato davanti casa mia. Il condominio affollava ogni finestra, controllava il tempo. Decibel aveva un ghigno maligno e i bigodini in testa. Lentamente aprivo il foglio stando attenta a non staccare i pezzi uniti in modo così tenue. Ogni tanto scivolavano via una pagliuzza, una fogliolina. Appena ho rigirato anche l’ultimo lembo dell’addio, il condominio ha esclamato un ohhhh! soffice come il borotalco.
Piano, piano! Ho detto e ho fatto il segno del silenzio con il dito. Fate piano che qui vola via ogni cosa, dicevo con il singhiozzo in gola.
Temevo che quello stupore alitato tutto insieme sul giardino soffiasse via il mio messaggio d’amore vegetale.
Nel messaggio c’era scritto questo:
“ADDIO, ANNAROSA, HO PAURA CHE SE STO VICINO A TE DI TRASFORMARTI IN POLPETTA”.
Oddio, come grammatica non era il massimo, ma ero così orgogliosa dei progressi che gli avevo fatto fare! Una lacrima ha bagnato il fiore secco che si era incastrato dentro un ramo. I petali si sono rigonfiati secernendo una goccia di profumo. Era un gelsomino, il mio fiore preferito, fatalità.
Il mio Ettore… ho provato a rincorrerlo seguendo le sue tracce ancora fresche, ho fatto la nostra scorciatoia e sono entrata nel bosco delle fate… dove andavamo a passeggiare… e ci scrivevamo sul terreno messaggi dolcissimi… (singhiozzo)
Il bosco era spelacchiato. Era stato quello il posto che il mio romanticone aveva disboscato per scrivermi il messaggio di addio.
Del resto mica potevano comunicare solo alzando o abbassando gli occhi come epilettici irreversibili, mistici in penitenza. Mica potevano annientare la vegetazione nel raggio di chilometri. Non potevamo continuare a dormire con il rischio
1) di rimetterci ogni notte un osso diverso, io o
2) di ammalarsi di nevrosi per insonnia, lui.

Ecco com’è finita la nostra storia.
A dire il vero non so se sia finita. Passiamo il tempo a scriverci lunghe lettere d’amore, io con l’inchiostro, e lui mettendo insieme foglie, rami secchi, petali, stami, polline, pistilli.
Ci coccoliamo senza mani o morbide proboscidi, usando solo simboli: d’inchiostro io, e vegetali Ettore. E devo ammettere che l’amore immaginato porta i suoi vantaggi: sogni, fantasia, un non so che di eterno… salute, soprattutto.

Bruna Graziani è nata a Monastier (Treviso) nel 1964. Laureata in Farmacia, vive a Treviso con la sua famiglia.
Ha molte passioni: la musica, il teatro, ballare, cantare e, ovviamente, scrivere. Frequenta da molti anni la scuola di scrittura creativa del circolo Walter Tobagi di Mestre e la piccola scuola di scrittura creativa “Lanterna Magica” di Giulio Mozzi, a Padova.
Ha pubblicato due raccolte di racconti (“I piccoli quaderni di malibrù”, Chiara Editrice, 2002); inoltre, suoi lavori sono usciti in svariate antologie (“Non disturbare, scritture in corso”, Officina Nuova Dimensione, 2006; “I fiori 2003”, Il Trifoglio Rosso, 2004; “Cantastorie 3” e “Cantastorie 4”, Città della speranza, 2004 e 2006).
Nel 2003 è stata finalista al concorso internazionale per la fiaba illustrata di Bordano (Udine) e si è classificata al secondo posto alla settima edizione del premio “L’unica fiaba”, bandito dal Lions Club Trieste Miramar.

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