All'ingrasso

di Mario Vecchione
Quarto classificato al II Trofeo RiLL

Il taxi abbordò la curva velocemente, schizzando di fango un passante, e accostò bruscamente al marciapiede. Il tassista abbassò il finestrino e sputò fuori: "Tempaccio carogna". Il cliente gli allungò tutto in spiccioli il costo della corsa e il tassista, raccolto il denaro nel palmo, lo fissò, stranito, occhieggiò dallo specchietto e risputò di nuovo: "E' proprio una bella serata, non c'è che dire!". Scaricò il viaggiatore con la sua valigia e l'astuccio di pelle nera e partì sgommando.
La sera era ancora più buia per la fitta pioggia. L'uomo si calcò il cappello in testa, s'ingobbì nell'impermeabile, si avviò per un po' di metri e si fermò davanti ad un portoncino scuro.
Salì i pochi scalini e, alla tremula fiammella dell'accendino, cercò, sulla piastra del citofono, il nome che lo interessava: Mrs Pearls. Premette il pulsante tre volte fino a quando la fessura metallica gli vomitò addosso una voce sgraziata: "Chi è a quest'ora? Chi sei? Un vagabondo?". L'uomo scacciò un globo d'acqua che si era formato sulla sua guancia: "Signora Pearls, sono Mr. Vic. Ho telefonato nel pomeriggio per la camera". La voce diventò tutta miele: "Oh, mi scusi signor Vic, le apro subito. Al quarto piano... Non c'è ascensore".
Vic penetrò in un androne fosco ed angusto, valutò lo spessore dei gradini, bilanciò il bagaglio ed inizio la scalata. La donna, una bassotta biondastra e corpulenta con l'urgente bisogno di detergersi dalla faccia il belletto che la faceva brillare come un palla da biliardo, l'aspettava sulla soglia, sorridendo.
Vic entrò nell'appartamento, mentre una ragazza, sbucata da chissà dove, richiudeva la porta. Doveva essere la figlia della donna perchè era il ritratto sputato della madre con in più lo sguardo malizioso di una gatta in calore.
"Mi segua signor Vic -disse la cicciona- Penso che vorrà fare subito una doccia". Lo pilotò nella camera; non era un granchè: un letto sbilenco, un comodino con un paralume di carta rosa, un vecchio armadio e una sedia. Nell'aria odor di chiuso, per via di una finestra che da chissà da quando non veniva spalancata. Una porticina conduceva al bagno.
La donna, col suo sorriso a denti gialli e sporchi, notando l'astuccio sbottò: "Non sarà mica un musicista per caso? Se no, non se ne fa niente. Non vogliamo rumore qui". Intanto la ragazza si era piazzata sotto la porta a braccia conserte e studiava il nuovo arrivato dalla testa ai piedi.
"Stia tranquilla -rispose Vic- Sono un musicista, ma lavoro tutto il giorno fuori e la sera, le assicuro, non ho alcuna voglia di suonare".
"Dove suona, signor Vic?"
"Domani devo andare in un posto..."
"Allora la lasciò. Cena alle otto. A proposito, le presento mia figlia Priscilla. Quest'anno si iscrive al college". Vic accennò un saluto e l'altra rispose con una mezza smorfia.
Rimasto solo, si lasciò cadere sul letto, facendo lamentare le molle. Si massaggiò lo stomaco e si mise a riflettere: "Ecco il primo problema: sarò costretto a portarmi dietro l'astuccio. La vecchia vorrà guardarci dentro". Scattò in piedi, lo aprì con uno scatto, non senza prima aver depositato il cappello sulla toppa: il calcio, la canna, il cannocchiale brillavano sulla stoffa azzurra. Serrò il coperchio, avvicinò la sedia all'armadio e depositò l'astuccio sul piano ricoperto di polvere. Poi si tuffò sotto la doccia pensando al suo contratto: se tutto fosse andato secondo i piani, non avrebbe avuto più problemi per il futuro.
Indossò un abito pulito e si recò a cena. Attraversando il corridoio si rese conto della tetraggine della casa. Ripensò alla ragazza: forse... Scacciò subito l'idea. Doveva restare lucido e poi avrebbe messo fine all'astinenza. Nella sala si aspettava di trovare altri pensionanti ma c'erano solo la madre e la figlia davanti ad un tavolo imbandito per dieci persone.
Solo per lui c'erano una bisteccona alta tre dita, una montagna di patatine fritte, un piatto traboccante d'insalata, un vassoio ricolmo di fumanti ciambelle, un bricco di caffè, vino, ciotoline varie strapiene di pezzettini di formaggio, olive, sottaceti e scampi sott'olio, una meravigliosa torta di mele e liquori, insomma un buffet completo.
Vic si scaldò a quellla vista d attaccò la bistecca, sotto lo sguardo compiaciuto delle donne, e, per un momento, si rivide bambino, nella sua casetta nel Montana, quando anche sua madre e sua sorella si rallegravano a vederlo rimpinzarsi fino a scoppiare. La Pearls cinguettò giuliva: "Noi siamo conosciute nel quartiere per la nostra cucina. E' di suo gusto signor Vic?"
L'uomo ingoiò una grossa e succosa foglia d'insalata e grugnì, affermativamente.
"Pranzerà fuori?"
Vic ingollò del vino, si nettò rapido le labbra e rispose: "Gliel'ho detto che starò fuori tutto il giorno. Mi arrangerò".
"Assolutamente -sembrò strillare la vecchia- non se ne parla nemmeno. Non sia mai detto che i miei ospiti debbano arrangiarsi. Torni per il pranzo, la prego, e non avrà di che lagnarsi, e poi stia sicuro che non ci saranno ritocchi su quanto convenuto. Io e mia figlia teniamo ai pensionanti, e poi lo facciamo anche per pubblicità".
Vic spazzolò tutto e poi si concesse una doppia porzione. Solo alla fine si degnò di rispondere: "Ci penserò, signora. Adesso, se permette, vado a letto: sono un pò stanco".
"Vada, vada e dorma bene. Domani le riserverò una bella ed abbondante colazione".
Vic salutò la Pearls e Priscilla, che per tutta la cena non aveva spiaccicato una parola e non gli aveva tolto di dosso quel suo sguardo spregiudicato.
La mattina dopo il sole, tornato a splendere, non migliorò lo squallore della stanza. A colazione c'era solo la Pearls chiocciante, che lo indirizzò verso una tovaglia fumante. L'uomo appoggiò l'astuccio su una sedia libera e si apprestò alla battaglia, assediando un piatto di uova e bacon, lavorandolo ai fianchi con crostini imburrati e tazzine di caffè. Poi attaccò una scodella di fiocchi d'avena e di latte, rigirandosi tra fette grondanti di marmellata di mirtilli, mentre dell'altra luccicava in ciotoline istoriate di fiorellini.
La Pearls si limitava a mangiucchiare qualcosa e si godeva lo spettacolo delle mandibole di Vic che trituravano quel ben di Dio senza posa. "Mia figlia è uscita a fare spesa -disse la donna- venga a pranzo oggi, le faremo assaggiare dei deliziosi spaghetti all'italiana e poi... -lo fissò sottocchi- No, basta, non le dico altro: ritorni e vedrà che sorpresa".
Vic scappò via, a stento trattendendo un rutto, senza promettere e scese le scale fischiettando. Si sentiva fresco, riposato, sazio. Ora poteva lavorare in perfette condizioni. Forse per il pranzo sarebbe davvero rincasato: lo tentava la cucina succulenta della Pearls.
Prima di uscire in strada lanciò un'occhiata alla cassetta della posta. Oltre a quella della Pearls, le altre erano intestate ad uffici di rappresentanza o a studi di notai ed avvocati. Possibile che le due donne fossero le sole inquiline del palazzo?
Sul marciapiede guardò in su per un riflesso condizionato. Pensava che forse la Pearls lo spiasse. Rientrò per osservare meglio l'androne che non aveva potuto osservare la sera prima. Alla fine della scala c'erano altri tre gradini di legno che scendevano fino ad una pesante porta di legno senza nessuna indicazione. Si avvicinò alla porta per curiosità, lisciò la superficie e provò a spingerla: non cedeva. La toppa era un occhio nero.
Vic, ovunque andasse, aveva l'abitudine di guardarsi intorno: voleva essere sicuro di ogni mossa... Accostò l'occhio al buco, cercando di scrutare all'interno, ma c'era solo un grumo di ombre fitto e impenetrabile. Stava per andarsene, quando il suo occhio allenato percepì uno scricchiolio accompagnato da un sordo mugugno. "E' buono solo per i topi", pensò, e si tuffò nella metropoli.

La mattinata la passò a cercarsi un lavoro. Già. Lui, con un bel contratto in tasca ed un cospicuo anticipo occultato in un nascondiglio, se ne andò alla ricerca di un'occupazione!
Vic ragionava così. La Pearls poteva avere dei sospetti ed era meglio pensare a tutto. Scovò un ristorantino periferico e, sotto falso nome, si fece dare un incarico molto banale: addetto alle pulizie dal primo pomeriggio fino alle nove di sera. Risolse anche la questione della custodia. La Pearls poteva chiedergli di suonare e lui non era buono nemmeno a tambureggiare con le dita su un tavolo. Acquistata una sacca impermabile, di quelle che si trascinano dietro i caddies, provvista di zip e lucchetto, vi sistemò, in un bagno pubblico, il fucile e depositò l'astuccio in un cassonetto.
Avrebbe detto a madre e figlia che aveva preferito lasciare il suo strumento nel locale. Quella sacca invece poteva benissimo contenere l'abito di scena.
Ritornò alla sua pensione.
L'androne, pur colpito dalla forte luce, pareva, rattrappito nella sua cupezza, un vampiro nella bara. Nelle cassette niente posta. Esaminò, dal basso, lo snodarsi dei piani, ma non c'erano segni di vita. Si preparò alla scalata, ma un respiro affannoso attirò la sua attenzione. Proveniva dalla porta del sottoscala. Era un ansimare ritmato, e Vic pensò subito a Priscilla. Che stesse riordinando lì sotto?
Il pensiero della ragazza chiusa in quel nero bugigattolo gli sconvolse i sensi, facendolo fremere di piacere. Chissà se ci stava per una sveltina fra fischi e poltrone sfasciate? Si dette dell'imbecille: "Pensa a quello che devi fare. Devi essere lucido, lucido, lucido!!". Esaltato però da quell'intima neraggine su cui dominava l'immagine della ragazza con i suoi sorrisini ambigui discese i tre gradini, s'incollò al legno e chiamò a bassa voce: "Priscilla?"
Spinse l'uscio con un piede, ma questo non si mosse. Chiamò di nuovo: "Priscilla?" Nessuna risposta, ed anche il respiro era cessato. Madido di sudore, e costernato come un adolescente foruncoloso andato in bianco, s'appresto a risalire le scale, allorchè risentì quel respiro basso ed intenso ed un lieve grattare sul legno. S'arrestò: "Priscilla? -poi, innervosito, scosse la porta- Chi sei? Chi c'è?". Si meravigliò del suo comportamento. No, non andava bene.
Volò via infiammato e teso. Al piano la Pearls stava lì ad attenderlo, viscida come un budino, per sciorinargli addosso tutti i suoi zuccherini. "Sono contenta che sia tornato; è gia pronto, sa? Quando vuole".
Vic biascicò un saluto e s'infilò in camera. Stava commettendo un mare di errori. Era forse per lo stress dovuto ad un incarico così importante? No. La colpa era di quella stronzetta che gli strusciava addosso gli occhi facendogli intendere che ci stava. Si docciò dapprima con l'acqua calda e poi si freddò a lungo. Si sentì meglio.
Era stato scelto per la sua preparazione, la concentrazione, l'abilità nel non lasciare tracce. Non poteva deludere i "suoi" amici. Doveva solo pensare alla faccia di quel porco da scannare.


Il pranzo fu una ripetizione ancor più appettitosa della sera precedente: spaghetti rosseggiavano in un sugo al basilico profumatissimo, seppeliti dalla grana e poi maiale arrosto e peperoni di contorno, patate al prezzemolo, radicchio, toasts al formaggio, mousse al cioccolato condito dalle languidezze della Pearls e di Priscilla, mai così affabili e gioiose, appagate nel vederlo ingozzarsi con tutte quelle leccornìe. Gli allungavano beveroni di Chianti rosso che s'aprivano un varco nel suo cervello fino ad ammorbidirgli i pensieri, disponendolo, se non a confidenze, ad un'allegria smodata e sudaticcia.
Vic si accarezzò lo stomaco. "Così lì sotto non era Priscilla", si fermò a pensare per un secondo, immediatamente riportato alla realtà di quel banchetto luculliano dal caffè con panna guarnito di biscottini fatti in casa e, eccola la sorpresa, da una scatola di sigari, omaggio delle proprietarie.
Annebbiato, con i movimenti appannati, si trascinò fino in camera, con i visi delle due donne che gli ronzavano intorno, annegandolo in salse, intingoli, pizzicherie, intrugli dolciastri, così pesanti da trasformarlo in una bomba di goduria pronta ad esplodere nel palato e nell'intestino.
Sprofondò nella pennichella, sognando di ammazzare il presidente durante un pranzo di gala, balzando fuori da una colossale torta al gelato come nelle vecchie comiche.
Si destò ridacchiando. Il pomeriggio, tutto rilassato ed un po' intorpidito per l'abbuffata di mezzogiorno, iniziò gli spostamenti, studiandosi i dintorni, il percorso, le eventuali vie di fuga, insomma analizzando il terreno palmo a palmo.
Questo andazzo durò per dieci giorni, mattina e pomeriggio, intervallato da suntuose colazioni e doviziosi pranzetti ed ancor più pingui cenette che lo appesantirono di qualche chilo. Il fucile sonnecchiava, ben oliato e lucente nella sua sacca, preparato al plof liberatorio. La Pearls, con meraviglia di Vic, chiedeva poco del suo conto e parlava molto della sua vita, propinandogli fra un pasticcio di verdure e un trancio di lasagne, la storia del suo matrimonio fallito con un ex- ufficiale dei marines, del suo lavoro e della figlia che eccelleva negli studi. Priscilla, dal canto suo, pronunciava solo qualche frase di circostanza ma non scopriva mai le sue batterie.
A Vic non importava nulla delle chiacchiere delle donne. Si cullava in quel trattamento da re che lo rinvigoriva e lo disponeva ad ingaggiare il trend giusto per raccogliere il frutto delle sue fatiche.

Una sera incontrò Priscilla sull'androne con un vassoio in mano, e la porta del sottoscala spalancata su un locale a malapena illuminato da una lampadina rossa posta in alto.
Vic era allegro, l'indomani avrebbe ammazzato il presidente. "Ehi Priscilla, come va?".
La ragazza si piazzò, rapida, al centro della porta a celare la vista dell'interno. "Oh, Vic, buonasera; sono scesa a fare un po' di pulizie. Sa, con la bella stagione avremo dei clienti e bisogna far spazio ai loro bagagli". Vic s'accorse che mentiva: far pulizie con un vassoio su cui facevano bella mostra residui di cibo!
"Posso darti una mano, se vuoi" si offrì Vic.
"No... voglio dire, cioè, grazie, non ce n'è bisogno. Ho finito e stavo per rientrare". Appoggiò il vassoio per terra, si girò svelta, chiuse la porta e si frugò nelle tasche alla ricerca frenetica della chiave. Era un fuoco.
"Forse l'hai messa da qualche parte dentro" ipotizzò Vic.
"...No, no, non è il caso che si disturbi", e si precipitò come una furia nello stambugio, socchiudendogli la porta in faccia. Vic la sentì rovistare ansante; "Priscilla, va tutto bene?! L'hai trovata?".
"Sì sì, Mr Vic -rispose indispettita- non si preoccupi; piuttosto vada su che è pronto in tavola". Vic obbedì; mentre saliva la ragazza lo sorpassò lesta, "Mi scusi, mi scusi". Aveva un volto tenebroso.
Vic ora ne era certo: nel sottoscala c'era una presenza. Nella sua mente trillò un campanello, e la lama del sospetto cominciò a lavorare nel profondo. Doveva controllare. Raggiunse la ragazza, la liberò del vassoio e, attingendo alla sua esperienza di borsaiolo, il primo scalino della sua scalata al crimine, prima che entrasse in casa le sfilò la chiave dell'antro. Più tardi sarebbe sceso. L'istinto del lupo braccato stava riemergendo. I timori di un uomo che esercita un lavoro particolare come il suo adesso si erano acuiti, frantumando quel bozzolo ovattato nel quale le donne lo avevano collocato. Che avessero scoperto qualcosa? I fantasmi di una spia o di un poliziotto si materializzarono nell'ombra di quel misterioso sottoscala. Era tempo di riprendere il controllo della situazione.
A tavola, nonostante le solite portate stuzzicanti, ingerì poca roba. Le donne erano stranamente silenziose, la conversazione si svolgeva per monosillabi, gli sguardi erano sfuggenti. Priscilla doveva aver rivelato alla madre che il pensionante era un impiccione. La cena si trascinava stancamente.
"Allora signor Vic -chiese la Pearls- come va il lavoro?"
Una domanda banale proferita in un tono canzonatorio.
"Non mi lamento" asserì Vic, indifferente.
"Ne sono lieta, ma vedo che non ha toccato cibo".
"Con quello che mi ha fatto a pranzo!", abbozzò un ghignetto.
"Beva signor Vic, beva che si sentirà meglio..."
La donna gli versò un copioso beveraggio; l'uomo sorseggiò il vino e si sollevò, anzi tentò di farlo ma la sedia lo tratteneva come se ai piedi gli avessero attaccato dei pesi. Cercò di dominare quell'improvvisa debolezza aggrappandosi al bordo della tavola, ma questa parve respingerlo, costringendolo ad accasciarsi sulla sedia. Stille di sudore gli imperlarono la fronte. Avvertì una vampata alle guance. Allungò tutte e due le mani verso il bicchiere ma un pensiero si fece strada, subdolo e spaventoso. Quel vino così ambrato e delicato lo aveva tradito. Non aveva bevuto molto. Allora le donne lo avevano drogato. La constatazione gli agitò la testa che gli scoppiava.
Stava scivolando pian piano in un greve sonno che cercava di vincere strizzando gli occhi e fissando la lampada, che sembrava danzare sulle pareti al suono di un clarinetto suonato dalla Pearls e danzato oscenamente da Priscilla, due megere sogghignanti e lascive, orrendamente raccapriccianti intorno a quel tavolo che si era trasformato in un altare sabbatico.
"Cos'è, Vic? Non riesce ad alzarsi? Si è troppo appesantito?"
Quale delle due donne aveva parlato? Davanti a lui c'era solo una enorme bocca tenebrosa.
"Cos'è, Vic? La nostra cucina non le piace più? Abbiamo mancato in qualcosa? Ci perdoni. Su, beva un altro goccetto e poi l'accompagneremo a nanna".
La stanza girava, girava come in un sabba.
"Vic, coraggio, deve riposare altrimenti come farà ad usare il fucile? Come farà a suonare quel suo bel strumento?"
La rivelazione fu un KO durissimo al suo orgoglio. Avevano svelato il suo segreto. Ora, cosa gli stavano preparando?
"Cosa volete... Volete farmi?"
"Ma no Vic, cosa le salta in testa? Noi le vogliamo bene anche se ha commesso una biricchinata. Ah, monellaccio! Dove ha messo quella chiave che sa? Non vorrebbe ridarcela per favore?".
Vic, come un automa, prese la chiave e la depose sulla tovaglia.
"Bravo, così si fa; venga, l'accompagno a letto".
Vic era uno straccio. La droga si era radicata nei tessuti cerebrali e lo stritolava nelle spire di una sollolenza bestiale. Fece un ultimo tentativo di sollevarsi in piedi ma crollò, ruzzolando sul pavimento.
"Posso esserti d'aiuto, Vic?"
Stavolta era Priscilla a porgergli i suoi servigi.
Strisciò sulle mattonelle di coccio senza neppure sapere verso quale direzione si avviasse. Era un aereo che volava alla cieca in un groviglio di nuvole, spaventosamente innalzatesi a sbarrargli il cammino. Tutto era addolcito dalla droga, ogni immagine si sovrapponeva all'altra come in un caleidoscopio impazzito.
Poi ebbe la sensazione di levitare per un momento e si sentì leggero: l'avevano afferrato per le caviglie e lo trascinavano come un maiale squartato. Poi rotolò per la prima rampa di scale sbatacchiando il capo contro la ringhiera, ed atterrò sul pianerottolo; una breve sosta ed il viaggio continuò: un'altra ruzolata, un altro atterraggio con le costole che si sminuzzavano, con il sangue caldo che colava, con i muscoli trafitti da mille punture.
Vic si voltolava come in un pozzo, mentre in alto, a distanza di anni luce, come sull'orlo di un precipizio, le donne, avvolte in un alone rubidio, lo contemplavano affascinate. In un lampo gli furono vicine. Sembravano maschere di cera: "Vic, la corsa è terminata, dai, un ultimo sforzo e sei a casa!"
Un calcione gli percosse un fianco e si voltò da solo. Un altro calcio lo fece scivolare per altri gradini ed andò a sbattere contro una superficie di legno, forse una porta.
"Ecco Vic, sei arrivato".
Nell'imbuto vertiginoso entro il quale era precipitato Vic distinse una luce rossa, sfocata, come le lanterne delle case da tè. Riuscì a realizzare d'essere finalmente giunto al capolinea dell'inferno. Uno sbuffo d'aria gli annunciò l'apertura di una porta e si sentì investire da un orribile fetore, stordire di lamenti, stridii, come se cento bestie lo stessero scrutando tra le fronde di una foresta incantata. Il suo corpo era trapassato da centinaia di aghi dolorosi.
"Ehi Martin, eccotelo. E' tutto tuo: contento, figliolo?"
I piedi delle donne gli premettero il petto, le braccia lo girarono e ancora quei piedi, che parevano tentacoli, lo incalzarono fino a rovesciarlo nel sottoscala. Un boato accompagnò la chiusura della porta. Le voci delle donne erano appena percettibili. "Dai Martin, è tuo, è tuo, goditelo! Goditelo!"
Il silenzio, dopo tanto trambusto, si slanciò nell'umidità del sottoscala ma immediatamente si crepò per uno slancio sortito dal nulla.
Vic annaspava nel suo sangue, le membra erano a pezzi e la testa in fiamme. Era in ritardo, doveva smetterla con quell'incubo: svegliarsi, fare la doccia, correre all'appuntamento col corteo presidenziale, prendere la mira e... PAM!, fare secco il presidente come volevano gli "amici" e poi filarsla sulle spiagge della Florida e spassarsela.
Ci avrebbe portato lei, Priscilla. Oh, Dio che idea, Vic! Svegliati Vic, la colazione è pronta.
Qualcosa di enorme lo abbrancò e lo scagliò su delle assi. Adesso il sangue scorreva a fiotti; rantolò, ma una mano gigantesta lo ghermì, tempestandolo di colpi. Lo stava percuotendo un mostruoso maglio o, forse, era un torchio che lo stava appiattendo, spiaccicandolo come una mosca schifosa.
Socchiuse gli occhi. Nei vapori di quel livido sottoscala gli apparve una massa orripilante, che troneggiava in tutta la sua smisurata mole, come uno di quei giganti appollaiati sulle cime dei monti in attesa dei viandanti, come aveva letto nelle favole. Un animale, un uomo, una donna? Come era possibile ravvisarlo in quell'oscurità appena rotta dalla luce rossa? Nessuna possibilità di sfuggirgli, ormai.
Vic affievolì ogni residua resistenza, e si abbandonò alla fine, sperando che finisse presto. Distese una mano, ma questa restò inerte come colpita dal gelo. La massa, intuì, avanzava grondoni, affannosa su di lui. Ebbe l'impressione di essere risucchiato da una cavità.

Mario Vecchione è nato a Napoli il 5 febbraio 1953. Insegnante elementare, si dedica alla scrittura in ambito prettamente amatoriale.
Collabora ad "Avvenimenti" (rubrica "Pillole di Fantasia") e -periodicamente- a "Il Giornale d'Italia" (rubrica "Poeti e Narratori").
Ha già partecipato con buoni risultati a vari trofei letterari, in particolare al concorso Mille Pagine - Concorso nazionale di prosa, poesia e drammaturgia, dove fra il 1994 ed il 1995 ha ottenuto un premio speciale e un primo premio nella sezione "prosa".
Nel luglio 1996, il bimestrale "Storie" ha pubblicato un suo breve racconto.

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