"Oh, giorni di sole"

di Alessandro Conti
Vincitore del XII Trofeo RiLL
[racconto presente nell'antologia Sognando Mondi Incantati, Nexus Editrice, 2006]


Fuori dalla finestra, giù da basso, nel vicolo, qualcuno sta suonando Oh, giorni di sole in una versione scialba per clarino e zampogna.
La memoria si spalanca, mi trovo con gli occhi fissi sulle travi di casa, mi brucia lo stomaco, mentre in mano il tè si raffredda inesorabile.
Oh giorni di sole, il caldo, Luptorvlik della mia infanzia, l’afa maledetta. Mi sembra di tornare a quel giorno: sono di nuovo il ragazzino di trent’anni fa e sento qualcuno giù in piazza che suona quel motivo, ripetitivo, battuta dopo battuta; sale lento da qualche parte dietro a vicolo degli Strami, dove vivo con i miei.
Il tavolaccio di legno rosso, e quello spilungone del mio insegnante di elfico, arrogante congenito, dita sulle tempie come concentratissimo. Io sudo, stringo il libro e faccio fessure degli occhi, fingendo di concentrarmi, mentre il refrain di Oh giorni sale dalla piazza, si perde nel cielo rovente e mi soffoca il cervello. Ma chi cazzo è che suona alle due di pomeriggio a Luptorvlik, in piena estate? Vorrei così tanto alzarmi.
L’insegnante schiocca le dita, lo odio.
“Dai, Vippre, impegnati, su. Traduci per bene.”
Davanti a me una versione di elfico, difficilissima, come sempre. Provo:
“E così la Dama dei boschi rispondeva…”
Macché, lo spilungone mi interrompe:
Dei boschi? Ma come sarebbe dei boschi? Quanti boschi ci sono, scusa?”
“Molti, molti boschi.”
“No, c’è un solo bosco.”
“Ma scusa, lassù da voi elfi, non è pieno di boschi?”
Il tizio si innervosisce, deve aver compreso che pronuncio la parola elfi come pronunciassi la parola merda, e questo lo mette di cattivo umore.
“Sì, il bosco è uno solo, ma con molte facce diverse.”
Classica risposta che odio, risposte vaghe su risposte vaghe, chili e chili di filosofia da niente, tutti con quest’aria da maestri che gli elfi hanno sempre. Come se con due massime da santone ti dessero un buon motivo per non odiarli. Che poi, dico io, una lingua come l’elfico, senza caso, genere e numero, senza preposizioni, senza un briciolo di sintassi… come fa uno ad impararla? Come fai a sapere che è boschi e  non bosco? O viceversa? Gli elfi la sanno perché vivono mille anni, e dai e dai la imparano per forza.
L’elfico mi indisponeva, ma mi indisponeva quasi tutto, allora, avevo quasi sedici anni, ed è un pessimo periodo per la vita di un ragazzo, specie con quel caldo.
Pensavo solo alle donne, alla pelle, alle cosce, al seno. Solo a quello. Avevo una sorellina, praticamente appena nata, e guardavo la nutrice porgerle quella tetta maestosa, bianca enorme e molle, da soffocarcisi dentro.
Mi nascondevo nella cameretta e guardavo la nutrice dare la tetta a mia sorella, mi nascondevo e sudavo, e strizzavo gli occhi per vedere meglio.
Ero magro, allora, mica come adesso.
Oh, giorni di sole, mentre la sento ho come un’illuminazione, come se tutta la mia vita dipendesse dal tema in maggiore di quel ritornello. Parappappà, parappara papparappà, languida e ripetitiva.
Mi affacciai alla finestra, non ce la facevo più a starmene a sentire l’elfo che mi spiegava della sua Dama dei boschi o del bosco. Senza un avvertimento, così, come solo i monelli viziati sanno fare, mi buttai alla finestra.
Nella canicola spaventosa dell’estate del sud, in mezzo alla piazza, immobili come due statue, ci stavano due uomini lucertola, verdi verdissimi come zucchini.
Suonavano sornioni degli strumenti rudimentali, con una tranquillità nel tocco e nell’espressione che non capivi se stessero davvero suonando o cosa.
Uno più grosso, più pancione, con un banjo, seduto su di una panchina, un altro con una specie di flauto o un clarino, o non so che, in piedi, con la coda a bagno nella fontana stentata che borbottava in mezzo alla piazza.
Suonavano il loro pezzo come se la rivoluzione, la lotta, la crisi, la guerra non fossero affari loro, suonavano come io mangio, come i delfini nuotano, così, come niente.
Erano fantastici e quel motivetto parapparà ce l’ho sempre in testa.
In quei pomeriggi di studio, verso le cinque, mia madre usciva dalla camera, bellissima, magrissima. Appena calava quel caldo fottuto, lei si imbellettava tutta ed andava in qualche salottino a fare due chiacchiere, ma non era un bel periodo per i nobili. Eppure i lunghi secoli di alto lignaggio le avevano conferito una strana sorta di fatalismo, era come se lei il suo patrimonio lo portasse dentro di sé, non nelle casseforti.
La duchessa Azurenchin ed il barone Bitbilis ci avevano lasciato le chiappe durante la rivoluzione, inchiodati alla porta, dico, mica fatti sparire così. Crocifissi, santoddio, crocifissi dai rivoluzionari.
“A morte il re! A morte il re!”
Il re se l’era data a gambe, a Ottreni, lasciando i suoi amati nobili nella merda fino al collo. Giunta costituente, governo repubblicano, terre confiscate e liste di proscrizione per i patrizi più in vista.
Non ti dico mio padre, affarista, opportunista radicale, banchiere. Aveva sposato la mamma per fare una bella scalata sociale, e si era andato a trovare con la piazza piena di rivoluzionari. Il suo ottimismo dei primi anni di matrimonio era bell’e svanito ed era lì che tentava disperatamente di trattare con i nuovi capoccia liberali che lo guardavano male perché aveva una moglie patrizia.
Io me ne stavo alla finestra a guardare i due lucertoloni suonare, non avevano un grande repertorio, e quindi lo iteravano all’infinito, sei pezzi, mille volte.
“Che musica volgare, Vippre, chiudi subito la finestra!”
Mamma era bella, tutta vestita d’azzurro, fina fina finissima, con un parasole ed un pacco di libri sotto braccio. Andava ai salotti letterari.
“Mamma, non ho voglia di studiare oggi, posso andare fuori?”
“No, devi studiare, è importante, devi portare avanti la banca un giorno.”
“Ma col cavolo, io in banca non ci vado a lavorare.”
“E che lavoro vuoi fare?”
Bella domanda; mia mamma se ne andava col sole un po’ più clemente, ed io aspettavo l’insegnante di nanesco, di elfico, di gargoyle, di trigonometria, di chimica di chi cazzo sa cosa; mi infarcivano come un bignè, con la dannata tasca da pasticcere della loro scienza.
A sedici anni un sacco di novità, un sacco di male. Male puro, male di quello che ti lascia un buco così nella vita, roba che ti ustiona per sempre.
Decido di fare il mago, mio padre per un pelo schiatta. Digrignando i denti sotto i baffoni: “Il mago? Ma che roba è, Vippre? E noi ti abbiamo dato tutto questo perché tu andassi a fare il mago?”
Mia madre non diceva niente, perché godeva a vedere mio padre in difficoltà, un duro colpo ai suoi sogni di gloria borghese. Lei taceva e mangiava, in punta di forchetta.
“Senti, io faccio il mago e basta.”
“Devi studiare, studiare economia, imparare a fare il banchiere, abbiamo un impero da portare avanti! Sei il primogenito, sarà tutto tuo!”
“Mago.”
Liti furibonde a cena, io volevo fare il mago e morta lì. Non mangiavo più, non facevo più lezione, sciopero generale.
Alla fine, con la scusa della “passione giovanile” mia madre insistette perché andassi a studiare magia, alla faccia dei banchieri. Uscivo di casa alle sei, i lucertoloni ancora suonavano imperterriti Oh, giorni di sole, e Luptorvlik lentamente si riprendeva dalla più feroce rivoluzione della sua storia, venivano messe all’asta le sontuose proprietà confiscate, e finivano in mano a banchieri, mercanti, usurai.
Ma un giorno torno a casa, e ci trovo un sacco di gente, e chi lo sa perché. Tutti mi guardano con tenerezza, ebbè?
Butto i tomi di Lettura del magico sul divano, corro in cucina.
Mia madre sul tavolo da cucina, una mannaia dritta dritta sulla fronte. Morta. Sangue dappertutto, le sottane tirate su e la biancheria intima qua e là. Sul muro una scritta: maledetti nobili, morte al re.
Quando si accorgono di me, gli uomini dello sceriffo mi portano via, ma è troppo tardi, ho già visto a sufficienza per non dormire mai più bene in vita mia.

Il funerale si svolse sotto la sorveglianza di un centinaio di armigeri, i pochi patrizi rimasti in città erano tutti presenti, con certe facce lunghe. Mio padre era diventato di pietra come i suoi gargoyle, non aveva più detto una parola una.
Io, in un completino a strisce, piangevo e vomitavo per gli angoli delle strade. Senza la mamma era finito tutto, tutto. Di sicuro avrei dovuto ingaggiare e perdere una guerra per il mio futuro.
Unico lampo di speranza, al funerale, tra tutti i nobili, una ragazzina, Abricotta, non più di quattordici anni, tutta compita, con un concio sui capelli ed i bastoncini infilati, azzurri e rossi, alla elfica, carinissima.
In quei giorni di disperazione solo due conforti: ero dispensato dalle lezioni di elfico e, qualche volta, ero invitato al salotto di Abricotta. La notte la passavo a guardare le travi del soffitto, a guardare la piazza deserta, e vedere immagini. Mia madre uccisa sul tavolo della cucina, con le mutande al vento. Abricotta che si svestiva, facendo brillare le spalle bianchissime, la mia balia giunonica con le tette fuori. Tre donne, tre dolori.
Abricotta in realtà non si spogliava manco per sogno, anzi, tutto ciò che mi concedeva era una passeggiata alla sera, alle dieci, prima di cena. Ma era molto.
Ticchettava con l’ombrellino per terra, annusava i gigli e mi spiegava le campanule e gli oleandri. Piedini piccolissimi in scarpette aperte, dio quanto avrei voluto sedermi a una panchina e sfilarle il sandalo e toccarle le dita dei piedi.
Ero ossessionato da questa fantasia. Quelle dita erano come piccoli pezzettini di scamorza, piccoli confetti, piccoli frutti caramellati, irresistibili.
Poco lontano da noi, sei tipi grandi e grossi ci scortavano, i recenti tumulti non erano cosa confortante, e i genitori di Abricotta decisero presto di ritirarsi ad Ottreni, dal re in esilio. Era una fuga generale, in quei giorni.
Mio padre me lo disse con un fondo di piacere:
“Gli Onzrox se ne andranno presto, sai?”
Mi rimase la forchetta in aria. Solo, lontana, la musica dei lucertoloni.
“Dove vanno?”
“Ad Ottreni, la vita si fa dura per i nobili.”
Brutta battuta per un orfano ed un vedovo. La mamma era stata massacrata e stuprata, e quello lì faceva dell’ironia.
Mi alzai di colpo, uscii da solo, nella canicola, bussai come un pazzo alla porta di Abricotta, mi aprì una serva, corsi su per le scale, lei stava suonando un clavicembalo.
“Vai? Parti? Dimmi di no!”
“No.”
Oh, giorni di sole, bella cosa il primo amore, che strano, non hai neppure più voglia di toccarti, almeno all’inizio.
Sì, cose buone, finalmente; la magia prendeva piede, e imparavo le prime formule, ed il mio maestro, un vecchiaccio, mi diceva guarda Vippre che sta tutto nella visualizzazione, devi visualizzare l’incantesimo come già avvenuto, e così la magia si convince, ed avviene davvero. Un giorno mi chiese quale incantesimo avrei voluto imparare per primo, è una vecchia tradizione, mi dice. Il primo lo scegli tu e basta. Io gli dissi Charme. Pensa che figo, farsi amici i tizi e scroccargli un po’ di tabacco, oppure farlo su mio padre, così diventa meno stronzo.

Un giorno, passando davanti al lucertolone con il banjo, sento che, con un filo di voce, oltre a suonare sta cantando, è una qualche ballata eroica, che in bocca sua sembra solo una nenia da beoni. Parla di grandi avventurieri. Questi avventurieri vanno in giro, ammazzano i mostri e si prendono i tesori. Mio padre degli avventurieri diceva solo che erano i migliori clienti della sua banca, perché arrivavano mezzi morti fuori da qualche dungeon e depositavano tutto l’oro lì e se ne sbattevano dei tassi di interesse ed andavano a sbronzarsi alla taverna.
Andai anch’io alla taverna.
“La rivoluzione ci ha fatto più male che bene!”
Mia madre ammazzata e stuprata.
“La rivoluzione, che merda!, l’abbiamo voluta, e adesso? Guarda qui, quei borghesotti che prima dicevano il popolo il popolo, adesso si chiudono tra salottini e canapè e decidono della città come cazzo vogliono loro, e noi che abbiamo fatto sloggiare il re, guarda qui, che poveri cani.”
Avventurieri, rivoluzione. Avventurieri, “fuori il Re!” I nobili a rischio. Avventurieri e mia mamma sul tavolo della cucina.
“Cosa vuoi, ragazzo?”
“Birra.”
“E bravo, ragazzo.”
Arrivai a casa confusissimo. Dimenticai di passare a trovare Abricotta, che se la prese. Mi aveva detto che sarebbe partita, sì, ma tra un anno. A sedici anni un anno è come dire vent’anni. Chi se ne frega, la volevo, volevo baciarla, sentire il sapore delle labbra e toccarle le tette.
Mio padre leggeva.
“Papà, cosa c’entrano gli avventurieri con la rivoluzione?”
“Non lo so, ma è brutta gente.”
“Ma sono i tuoi clienti.”
“E cosa vuol dire? Sono brutta gente, non pensarci.”
E si rituffò sul suo giornale. Penso che un brivido debba essergli passato lungo la schiena, penso che un uomo come lui avesse già capito che non ero un banchiere nato. E si lisciava i baffi.

Conobbi di persona i due lucertoloni, si chiamavano Ofliscano e Tùoro, li conobbi perché di notte suonavano alle taverne e gli avventurieri li adoravano, perché i lucertoloni, al buio, lontani dagli orecchi dei filoaristocratici, cantavano canzoni di spade e incantesimi. Per noi cantavano Oh, giorni di sole, per i guerrieri, nani, elfi, maghi, preti, ladri delle taverne cantavano le storie dei dungeon e dei draghi.
E io stavo solo e non capivo se gli avventurieri erano dei bastardi che avevano ucciso e stuprato mia madre o se invece erano forti e bisognava essere come loro.
“E tu, ragazzo, che ci fai qui?”
“Bevo una birra.”
“Ma come mai sei qui? Non lo sai che è pericoloso?”
Era una puttana, mica giovane, ma capace di parlare con i ragazzi giovani con birra.
Mi toccò il pisello, ma così, proprio senza complimenti, come uno al mercato palpa una melanzana.
Mi girò la testa, e mi rovesciai la birra sui piedi. Era la quarta, e finii nel vicolo a vomitare, pensando non più a tre donne, ma a quattro. Mia madre la volevo senza mannaia in testa e con le mutande addosso, la balia tutta nuda, piena di neonati, Abricotta sulla panchina, con la gonnellina il parasole e le dita dei piedi sulle mie labbra, la puttana la volevo eternamente con la mano sul pisello.

Mio padre non voleva più che vedessi Abricotta; il capo della banca, l’iper-capo, sosteneva che se mi sposavo Abricotta (ma chi ci pensava, allora?) mio padre era fuori dalla banca, perché la cazzata di prendersi un nobile in famiglia l’aveva fatta una volta e solo dio ci aveva messo una pezza.
Cioè, mi spiego? Mia madre morta stuprata ed è dio che ci ha messo una pezza? Divenni anche ateo, oltre che erotomane ed alcolista.
Ed insomma un giorno papà mi dice:
“Guarda che non devi più vedere Abricotta. Tengo suo padre per le palle, mi sono comprato i suoi debiti e sono pronto a rovinarlo se non fa il bravo. Se è un uomo di buon senso capirà che non può sperare di farcela con uno del nostro rango.”
Furore.
Fuori dalla sala, via dal tavolo da pranzo, ancora una volta.
Ofliscano e Tùoro biascicavano evergreen a tutto spiano. Via di corsa a casa di Abricotta. Busso, apre il servo. Non mi vuol fare entrare, sono sudatissimo. Gli do un pugno, mi butta per terra. Sono sudatissimo ed impolverato, lo carico a testa bassa, mi ributta per terra, mi spacco il labbro, si chiude la porta.
“Figlidipputtana!”
Mamma mia, quanto vorrei avere lo Charme adesso!
Prendo dei sassi, li tiro contro gli scuri.
“Abricotta, scendi! Non mi frega di mio padre, io ti amo!”
A quell’ora del giorno, con la mamma morta ed il babbo così cattivo avrei amato anche una merda di cane.
Scese il duca Bertrugo Onzrox in persona. Io facevo pietà, sangue, sudore, polvere, gli occhi di un dannato sul fondo dell’inferno.
“Signore, la prego, mi scusi, ma io devo vedere Abricotta.”
“Partiamo domani, non vi vedrete più, addio.”
E chiuse la porta, poi chiamò le guardie, io gli dissi stronzi; mi diedero una ruota di botte e mi lasciarono nella fontana con i lucertoloni.
Guardavo Ofliscano e Tùoro, imperturbabili. Maledetti lucertoloni, ma come mai la vita sembrava essere indifferente per loro? Niente rivoluzione, niente famiglia, niente soldi, solo il sole cocente di giorno e fiumi di birra di notte. Bestie a sangue freddo, con quello shuffle da quattro soldi sotto le unghie.
Prima che mio padre tornasse a casa presi due vestiti, rubai tutto quello che c’era da rubare e me ne andai per sempre.

Mi trasferii nella locanda, con un nome falso e una mazzetta a tutti per stare zitti. I soldi mi sarebbero bastati per un paio di mesi: sei monete d’oro in pezzi piccoli. Quel pezzente del mio vecchio non teneva in casa molti soldi, dopo la disgrazia.
Bevevo, fumavo, andavo a puttane. Una volta scalai il balcone di Abricotta, non era mica partita più, mi vide alla finestra e cacciò un urlo, avevo in corpo due litri di roba e ruttavo tra me e me, ed era un miracolo che fossi arrivato lassù senza schiantarmi.
“Vai via, vai via! Mi fai schifo! Cosa sei diventato?”
Piagnucolai un po’, lei mi disse se non ti schiodi mi ammazzo, qui, sul colpo, e prese un tagliacarte e se lo puntò al cuore. Quanto avrei voluto avere lo Charme per rabbonirla:
“Ti prego, amore, ti prego…”
“Mi uccido, mi uccido!”
Andai giù, nero nerissimo, gridando puttana puttana.
Corsi dal mago, maledetta rivoluzione, maledetti avventurieri, maledetti tutti che non mi vogliono far vivere come voglio io. Che poi non vorrei molto, solo un mondo accogliente fatto di balie e non di mannaie e tagliacarte. La prima donna è morta smutandata, la seconda sta solo con mia sorella, la terza mi dice mi uccido; fanculo, fanculo.
Era notte, ero sbronzo, bussai al mago: “Ho cambiato idea, non voglio lo Charme, voglio il Dardo incantato.”
“Gran dio, ma è un incantesimo di morte!”
“E che cazzo, sei un prete tu? Voglio il mio primo incantesimo, come mi spetta di diritto, poi non mi vedrai più.”
E tornai alla taverna, sperando che nessuno avesse detto niente a mio padre e che quello lì non si mettesse a darmi la caccia.
Erano notti di paradiso e di inferno, alla taverna.
Ofliscano e Tùoro indiavolavano la platea con grandi storie di guerrieri e ladroni, draghi e tesori incredibili. Un guerriero faceva vedere la sua Spada Fiammeggiante e l’accendeva e la spegneva senza dire bah, e noi tutti applaudivamo ed io ordinavo un’altra birra.
I miei soldi calavano, ma io scommettevo ai dadi e perdevo e ridevo con il riso di chi è incazzato, e vedevo la mia pancia crescere e mangiavo come un pazzo perché tanto chi gliene fregava se ero un ciccione e le puttane mica ti vogliono perché sei bello.
Ed ogni sera una festa. Ed un giorno scopro che mio padre non mi sta cercando; un giorno lo vedo, per sbaglio, faccia a faccia, io faccio schifo, lui porta in giro mia sorella, bellissima. Finge di non riconoscermi e svolta l’angolo. Scopro poi che mi ha diseredato e così decido di ucciderlo.
Gli avventurieri non hanno lavoro se non il dungeon, non hanno famiglia se non il loro gruppo di compagni, non hanno un cazzo se non molto oro e storie da raccontare. Ma hanno ucciso mia mamma dopo averla smutandata, come faccio io a stare con questi e berci la birra?
Il mio maestro mi dice il tuo addestramento è finito, te la caverai. So che mente, e che non è finito per niente, ma capisco che mio padre gli ha tagliato la paga, e questo, di fatto, conclude il mio apprendistato.
“Questa è quella che volevi” e mi porge una pergamena.
Io la ricevo con gli occhi sbarrati e le labbra tutte all’ingiù.
Faccio finta di niente ma mi viene tanto da piangere, e corro via. Nessuna più delle quattro donne, con l’eccezione della puttana, che quella, in ogni posto, c’è sempre. Nessun papà, nessuna sorella, nessun maestro. Medito di piantarmi il dardo in testa. Che suicidio glorioso! Il primo incantesimo pronunciato sarebbe stato anche l’ultimo. Ma preferisco uccidere mio padre, che in fondo è tutta colpa sua.

Un giorno, a pranzo, spendo le ultime poche monete in una grossa bevuta, esco dalla locanda barcollante con tutta la mia poca roba addosso, dico a tutti addio probabilmente sarò catturato ed ucciso presto. Ho diciassette anni appena compiuti, sono un mago da strapazzo, ho studiato il mio primo incantesimo e non ho idea se funzioni o no. Per fortuna non servono materiali per lanciare Dardo incantato, perché non ho un quattrino, nonostante mio padre sia forse l’uomo più ricco della città.
Arranco verso la piazza, e ci trovo i lucertoloni che strimpellano, uno mi strizza l’occhio e prende al volo una mosca con quella sua lingua schioccante.
Entro in casa, ho ancora la chiave. Mio padre sarà senz’altro a letto. Faccio piano, fuori c’è un caldo pazzesco, un’afa incredibile, mi sudano le orecchie, le dita, la pancia.
Una zanzara mi sfiora, poi di nuovo calma.
Gradino, gradino, gradino, chiavistello.
Silenzio. Fuori Oh, giorni di sole. Mio padre sta facendo la siesta di sicuro, e lo ammazzerò nel sonno, con il mio glorioso primo incantesimo. Arrivo sulla soglia della sua stanza, lo vedo, supino, con quei baffi da ussaro, mezzo nudo, solo un lenzuolo addosso; sembra già morto.
Mi concentro e dico la formula, sul mio braccio si materializza una scintillante freccia di luce. Fantastico. La freccia scalpita, e devo tenerla lì con tutte le mie forze, è difficile non farla partire contro il muro. Abbasso il braccio e lo punto contro mio padre, trattengo il respiro.
Poi qualcosa: “Signorino, è tornato!”
Mi giro di scatto, e senza volerlo lascio partire il dardo dritto dritto in pancia alla balia. Mi guarda di sasso, non capisce, capisce, non capisce più, è morta. Un buco bruciacchiato tondo tondo sul grembiulone. Un filo di fumo. Mia sorella accanto a lei tiene una bambola, a piedi nudi. Mio padre si sveglia e caccia un urlo.

I sorrisi di mia madre se li è presi qualcuno, e per sempre. Mia sorella lavora in banca ed io ammazzo i draghi e mi concio per le feste alla taverna. Ofliscano è stato ucciso in una sommossa filo-nobiliare, si è scoperto che era l’esecutore di molti degli omicidi contro i patrizi; Tùoro si è dato alla macchia. L’erba su cui correvo da piccolo non esiste più. Le orme di Abricotta sulla strada polverosa, le piogge se le son lavate via.

Alessandro Conti è nato nel 1977 a Verona, dove vive.
Figlio unico, sviluppa presto una precoce passione per la televisione, passando i pomeriggi delle elementari a sciropparsi DeeJay Television e cartoni come “Conan, il ragazzo del futuro”. Da adolescente si appassiona all’heavy metal, ai giochi di ruolo e di simulazione, ai videogiochi e, soprattutto, alla chitarra, che studia molto seriamente, arrivando a decidere quasi per la carriera musicale. Ma l’amore per le lettere ha il sopravvento e così, dopo il liceo, prosegue lo studio dei classici greci e latini all’Università di Verona, dove si laurea.
La musica resta però una sua grande passione, prodiga di soddisfazioni che si concretizzano in alcuni progetti musicali in seno all’associazione culturale scaligera Ustioni.
Attualmente insegna Greco e Latino al Liceo Classico “Don Bosco” di Verona.
“Oh, giorni di sole” è stata la sua prima pubblicazione in assoluto.

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