Ombre e Polvere

di Stefano Acquaviva
Quarto classificato al IV Trofeo RiLL


Rincasò in un pomeriggio infuocato d’agosto, e la frescura dell’appartamento chiuso gli diede un insperato sollievo.
Erano trascorse tre settimane, eppure sembrava che tutto fosse ancora come prima, che nulla fosse cambiato. Il dolore. Lo avvertiva tuttora, palpabile nell’aria come polvere attraversata dal sole. Ma in quella casa il sole non c’era più. Erano rimaste solo le ombre.
Chiuse la porta d’ingresso. Camminò lentamente nel corridoio e si fermò sull’uscio della sala, sotto l’arco.
I rumori erano sempre gli stessi, terribilmente familiari. Il fastidioso ronzio sommesso del frigorifero; il suono secco come di legni sbattuti del cubetto di ghiaccio che rotolava nel contenitore della macchina; il cane della vicina che abbaiava dall’appartamento di fianco.
Tese l’orecchio. L’orologio all’ingresso scandiva il tempo, tic tac tic tac tic tac.
Era tutto in ordine. Il custode aveva fatto il suo dovere, come da compito, e aveva rimesso in funzione l’alloggio, ripristinando la corrente. Si chiamava Ezio ed era un gran ficcanaso, ma nei momenti più difficili, quelli in cui avrebbe voluto morire, gli era stato accanto; poco fa, sul pianerottolo, si era avvicinato con cautela e gli aveva chiesto come stesse.
Lui lo aveva guardato. Poi aveva tirato fuori le chiavi ed era entrato, senza dirgli una parola.

Non ce la faceva. Il periodo più brutto era sicuramente passato, ma lo aveva lasciato indifeso. Non aveva più la forza di parlare, nè di comunicare, nè di fare nulla che non fosse sfogliare l’album di fotografie o pensare al bastardo che aveva investito e ucciso sua moglie. Si era illuso, questa era la verità, ed era stato uno stupido. Illuso che quelle tre settimane di vacanza consigliategli dallo psicologo potessero aiutarlo a superare l’accaduto.
Ma non era stato così.
Oltrepassò l’uscio, mise il mazzo di chiavi sul tavolo. Appoggiò la valigia in terra. Si avvicinò al divano e si sdraiò sopra.
I rumori della casa erano tutt’intorno a lui.
Riccardo Scodella si mise a fissare le crepe sul soffitto.
Mezz’ora più tardi si svegliò da un sonno senza sogni, e sbattè le palpebre, confuso. La luce bianca della finestra gli infastidiva gli occhi e dovette schermarsi la faccia con la mano.


Cristo. Di nuovo. Si era di nuovo addormentato in pieno pomeriggio, segnale sicuramente preoccupante.
Si alzò faticosamente a sedere. Non ricordava cosa, ma in realtà aveva sognato. La sua mente aveva imparato a celare gli incubi dietro un velo nero, aveva imparato nel sonno a nascondergli quelle visioni dolorose. Da sveglio, purtroppo, questo non era più possibile.
I capelli spettinati sparavano impazziti da tutte le parti, gli occhi allampanati fissavano il vuoto.
Riusciva a vedere la scena in qualsiasi momento, in qualsiasi, qualsiasi momento. Mentre faceva da mangiare, mentre camminava per strada, una volta persino mentre faceva i suoi bisogni nel bagno. Come il fotogramma di un film che veniva riavvolto dalla sua mente e che passava di continuo davanti ai suoi occhi. Riusciva persino a sentire in suoni, in certe occasioni. Come in quel momento.
Il tonfo solido del suo corpo falciato dal cofano dell’auto. Lo schianto cristallino della testa contro il parabrezza in frantumi.
Il volo. Il corpo di sua moglie, per fortuna già privo di vita, che si sollevava da terra, si stagliava nel cielo, faceva due capriole, e ritornava sulla strada, dinoccolato e fracassato come una bambola di legno. E gli occhiali, poi. Le lenti rotte che scintillavano sinistre sull’asfalto, sotto il sole cocente di luglio.
Si mise le mani nei capelli. Spalancò gli occhi.
Vide all’improvviso il sangue. La pozza di sangue rosso allargarsi vicino al suo tappeto, e...
Si coprì la bocca con le mani, chiuse gli occhi. Le immagini scomparvero. Fantasmi. Erano solo fantasmi, che albergavano nella sua mente come in un castello diroccato. E non c’era modo di liberarsene.
Dio lo perdonasse, ma non c’era modo di liberarsene.
Lasciò andare le braccia in grembo. Inspirò profondamente l’aria nei polmoni, con gli occhi chiusi, e la espirò, lentamente. Rifece l’operazione per due volte e, piano piano, riuscì a calmarsi.
Basta. Aveva cose importanti da fare, e, Dio lo fulminasse, le avrebbe fatte.
Si guardò intorno. La valigia era ancora sotto l’arco della sala, dove lui stesso l’aveva appoggiata. Si alzò dal divano. Barcollò un momento, incerto. Poi la raggiunse e dopo un istante di riflessione, si diresse in camera da letto.
L’appartamento era un trilocale di cento metri quadrati che lui e Rosy avevano acquistato tre anni prima. Quel vigliacco del loro geometra, tal Tresoldi, aveva voluto fare le cose in grande senza averne le capacità, e li aveva lasciati con un mare di ingerenze da pagare. La casa, comunque, era uscita bene. Quando l’avevano comprata appena sposati si erano assicurati che ci fossero due camere da letto, per un eventuale bambino futuro. Ora che bambini non sarebbero più venuti, stava considerando l’idea di trasformare quella camera in eccesso in un piccolo studio dove rifugiarsi a scrivere. Era un hobby che coltivava fin da ragazzo e avere un studio adibito appositamente per quello era una cosa che aveva sempre desiderato. Uno di quei pochi piccoli sogni che poteva ancora concedersi di realizzare.
Attraversò il breve corridoio. La loro stanza da letto (ma ora, pensò crudelmente, avrebbe dovuto solo dire la sua camera da letto) era l’ultima sulla sinistra e, prima di entrare, si fermò di nuovo sull'uscio. Ezio aveva alzato le tapparelle e spalancato le finestre. Deliziosi raggi di sole perforavano la tenda e si proiettavano sulla parete, ondulando leggermente sotto forma di strisce luminose.
Abbassò lo sguardo. Il letto era fatto, composto e ordinato.
Mosse i piedi ed entrò, cercando disperatamente di sopprimere il pensiero. Ma si introduceva nel suo cervello, sinuoso come fumo avvelenato, e gli faceva notare che quelle lenzuola erano così ben fatte perchè erano state toccate dalle mani di Rosy, che le aveva piegate e ripiegate con cura la stessa mattina in cui...
Chiuse gli occhi, si passò la lingua sulle labbra. Attraversò lentamente la stanza pulita e ordinata (ma questo non è forse il profumo di Rosy?).
Appoggiò la valigia sul letto. Si sistemò i capelli con la mano.
Slacciò la cerniera e cominciò a tirar fuori le pile di vestiti, quasi tutti inutilizzati.
(sì... Calvin Klein... quello che sono andato a comprare il mese scorso...)
Si portò una mano alla pancia. Sentì un improvvìso senso di vertigine, e dovette sedersi.
Guardò sul comodino. Rosy Minetti Scodella, ora sepolta in una bara sotto la terra del lotto 56 al Cimitero Maggiore, lo fissava sorridendo da un portafotografie in oro e argento. Vicino, la boccetta ancora aperta del profumo.
"Birichina, quante volte ti ho detto di ricordarti di chiuderla?", mormorò con un filo di voce. Riccardo chinò la testa in avanti, se la strinse tra le mani e... cominciò a ridere. Ridere. Dapprima tra sè e sè, educatamente, poi sempre più forte, finchè il suo petto sobbalzava e le lacrime sprizzavano dagli occhi. Rideva, perchè aveva toccato il fondo. La sua mente non ce la faceva più, e aveva deciso di reagire. Reagire in qualche maniera.
Si calmarono le risa, e si asciugò la faccia con un fazzoletto che aveva trovato nella valigia. Va bene. Il suo sfogo lo aveva avuto; era tempo di darsi una mossa.
Prese la boccetta di profumo e la prima cosa che fece fu andarla a svuotare dentro il water. Poi gettò via la boccetta e tornò in camera a sistemare armadio e cassetti.
S’impegnò a fondo per cercare di non pensare a sua moglie, piegando i vestiti con cura meticolosa, togliendo i granuli di povere dai tessuti inutilizzati, e per un po’ parve funzionare, ma poi, inevitabilmente, lo schianto del parabrezza e lo schiocco della testa che si rompe si levarono meschinamente alle sue spalle, facendolo addirittura voltare.
Ansimava, spaventato. Lo colse una crisi e scagliò la valigia attraverso la stanza.
Doveva trovare qualche altra cosa da fare. Assolutamente.
Tornò in corridoio ed entrò nello sgabuzzino. Tolse le scarpe, infilò le ciabatte e andò a sedersi in sala sul divano. Bene. Pescò una rivista a caso dal tavolino e cominciò a sfogliarla.
Espirò.
Forse, stava cominciando a rilassarsi.


Ma, verso le sei del pomeriggio, quell’invenzione indiscreta e invadente chiamata telefono prese a squillare, e Riccardo sollevò la testa.
Strano. Di solito era Rosy a ricevere telefonate. Rosy non c’era più.
Seduto sul divano con la rivista Focus aperta in grembo, Riccardo sbuffò e ruotò il collo di novanta gradi. Il telefono era appoggiato sul tavolino, vicino all’ingresso. Per quanto si sforzasse di trovare soluzioni alternative, realizzò l’ineluttabilità del fatto che, se voleva rispondere, doveva alzarsi. E alzarsi avrebbe sicuramente guastato quella dolce concentrazione che aveva faticosamente conquistato.
Sbuffò di nuovo e riprese a sfogliare la rivista.
Il telefono squillava. Probabilmente si trattava di un tipo ostinato, e aveva come la sensazione che chiunque fosse avrebbe riprovato di nuovo.
E la sua concentrazione era già andata a farsi benedire.
Sbuffando per la terza volta, Riccardo mise da parte la rivista e andò a rispondere.
"Pronto?"
"Signor Scodella? Mi scusi se la disturbo... Sono Ezio, il custode."
"Certo, l’ho riconosciuta dalla voce", disse Riccardo, con tono seccato. E se proprio vuole saperlo, sì, in effetti mi ha disturbato, avrebbe voluto aggiungere. "E se proprio vuole saperlo, sì, in effetti mi ha disturbato", aggiunse in effetti.
Ezio rimase in silenzio per un po’. Poi disse: "Capisco, allora non impor..."
"Avanti, parli", lo interruppe Riccardo, "Ormai il danno lo ha fatto, non crede?"
"Ecco..." Ezio schiarì la gola. "Avevo telefonato per dirle che... Insomma volevo farle sapere che se ha bisogno di qualcosa, di qualsiasi cosa, può contare su di me. Io sono qua sotto, in guardiola e... Beh, sappia che sono qui".
"Va bene. La ringrazio. E’ tutto?"
"Volevo anche sapere se ha avuto notizie dalla polizia riguardo all’auto che ha investito sua moglie".
"Purtroppo no".
"Capisco. Mi raccomando, signor Scodella. Non ci pensi più. Cerchi di lasciarsi questa storia alle spalle."
Riccardo inizialmente non rispose. Poi ripetè: "E’ tutto?"
"Sì... sì. E’ tutto."
"Okay. Allora la saluto."
"Signor Scodella?"
"Mmm?"
"Si sente bene, vero? E’ tutto a posto?"
"A parte il fatto che mia moglie è morta da un mese, e che colui che l’ha uccisa è ancora in circolazione, direi, sì, che sto abbastanza bene. Ed ora la saluto."
Riccardo riagganciò. Rimase un momento fermo vicino al tavolino. Un’idea assolutamente folle gli nacque nella mente. Era il custode. Era lui che aveva investito sua moglie. Certo... Come spiegare, allora, tutta questa preoccupazione nei suoi confronti? Tutto quell’interessamento?
Scosse la testa. No, era impossibile. Lui non avrebbe potuto, era in guardiola la mattina. E poi era un amico, o almeno così si era mostrato.
Sollevò lo sguardo. Lo specchio appeso alla parete gli rimandava la sua immagine, leggermente deformata. Non si faceva la barba da un pezzo, i capelli erano sporchi e spettinati.
"Ma chi cazzo se ne frega", bofonchiò.
Chiuse gli occhi, e vide la faccia di sua moglie sballonzolare fuori dal parabrezza, che contemporaneamente andava in mille pezzi.
Riaprì gli occhi e si allontanò lungo il corridoio.

Quella notte dormì pochissimo. Si svegliò sei o sette volte, sempre sudato come un maiale, ma senza ricordare quello che sognava.
Nel buio, fissava il soffitto. E pensava all’assassino di sua moglie. Neanche il tempo di tornare a casa e quella che il suo psicologo aveva definito un’ossessione stava di nuovo affacciandosi sui balconi di tenebra della sua mente.
Verso le sei del mattino si alzò e andò a sedersi in sala. Prese l’album delle fotografie, se lo mise sulle gambe e cominciò a sfogliarlo, pensando è ora di affrontare la realtà...

...Affrontare la realtà... affrontare la realtà... affrontare la realtà...

Gli echeggiò a lungo questa frase. Iniziò la mattina successiva pensandoci di continuo, nella testa, e a questa frase stava ancora pensando mentre, dalla finestra della cucina, vide per la prima volta la macchina.
Stava facendo bollire un pentolino di latte sul fornello, e nell’attesa scostò un attimo le tende, gettando un’occhiata distratta di sotto. E la vide. Era parcheggiata sotto casa sua, vicino al marciapiede. Una Passat grigia metallizzata. Come quella che aveva lui. Come quella che aveva investito sua moglie.
Tirò le tende e aprì la finestra. Si affacciò. Era nuova, si vedeva. La carrozzeria scintillava. La luce del sole piombava sul parabrezza, abbagliante come un faro negli occhi. E non era forse un’incrinatura, quella che vedeva adesso? Guardò meglio. Certo... Il parabrezza era scheggiato. E se fosse stata proprio la macchina che aveva ucciso sua moglie?
Richiuse le tende. Il latte sbroffava dal pentolino, e spense il gas. Poi corse fuori e scese.
Ezio lo vide passare davanti alla guardiola, e sollevò la testa dal giornale.
Riccardo uscì in strada e si fermò di fronte alla macchina. Da vicino vide benissimo... Il cofano. Sul cofano c’era un’ammaccatura.
Spalancò gli occhi. Si guardò intorno, come un pazzo.
Ezio lo raggiunse. "Signor Scodella..."
Riccardo si voltò. "Di chi è questa macchina? Mi dica, ha visto di chi è questa macchina?"
"Veramente no". Ezio ebbe un’intuizione. "Signore, non crederà che..."
"E’ lo stesso tipo di auto... Il parabrezza è rotto, il cofano è ammaccato..."
Ezio sospirò. "Dio...", mormorò. Poi si avvicinò a Riccardo: "Signor Scodella, capisco che lei sia sconvolto, ma l’uomo che ha investito sua moglie e che è fuggito avrà sicuramente portato l'auto dallo sfasciacarrozze. Dubito che giri ancora con la stessa. E poi è una macchina molto comune questa, ce l’ha persino lei, e ce l’ha anche mio nipote".
Riccardo aveva ancora gli occhi allampanati, che giravano intorno. "Lui è qui... L’ uomo che ha investito mia moglie... E’ vicino, lo sento... E adesso vuole eliminare anche me..."
Ezio scosse la testa, sofferente nel vederlo così ridotto: "Ma signore... E’ stato un incidente... Nessuno voleva uccidere sua moglie."
Riccardo fissò l’uomo: "Ma cosa ne sa lei. Cosa ne può sapere. Non faccia salire nessuno... Chiunque venga, non lo faccia salire..."
Barcollando, intraprese le scale, sotto lo sguardo perplesso del custode.
Tornò di sopra e richiuse la porta dietro di sè. Si guardò in giro. Il silenzio regnava sovrano.
Camminò fino al salotto. Le tende che davano sul balcone si agitavano. Riccardo si avvicinò lentamente. Tese la mano e prese il tessuto della tenda. Poi, con un gesto improvviso, le tirò violentemente, come se... Come se si fosse aspettato di trovare qualcuno dietro.
Con la fronte corrugata, non convinto, richiuse la tenda e tornò in cucina. Si affacciò di nuovo alla finestra. La Passat scintillava.
Chiuse la finestra e svuotò il latte nel lavandino.


Nei giorni che seguirono, Riccardo prese l’abitudine di passare le giornate fuori dal balcone. Aveva riesumato dalla cantina una vecchia sedia da spiaggia e l’aveva posizionata sul terrazzo. Da lì, teneva sotto controllo la Passat tutto il giorno. Si preparava addirittura le schiscette calde di pasta e mangiava seduto fuori, con lo sguardo puntato all’automobile. Prima o poi il proprietario si sarebbe fatto vivo. Era solo questione di tempo.
Un giorno però, dopo aver fatto indigestione di vongole, un brontolio sospetto gli avvolse dolorosamente le viscere addominali, e dovette correre in bagno. Al suo ritorno, la Passat era sparita.
"Maledizione!", esclamò.
Non si sentiva tranquillo. Forse se n’era andato perchè aveva sospettato qualcosa, quel vigliacco. E adesso dov’era?

Nel giro di pochi giorni, Riccardo si convinse di essere spiato. Quel bastardo si stava vendicando, e adesso era lui ad essere tenuto sotto controllo. Anzi, probabilmente era stato tenuto sotto controllo fin dall’inizio; per questo la Passat era parcheggiata davanti a casa sua.
Tolse tutte le tende, analizzandole minuziosamente per vedere se contenevano una qualche microspia. Staccò i quadri dalle pareti, e in alcuni casi scollò le tele, nel caso ci fosse stato qualche oggetto indiscreto nascosto.
I vicini riferirono al custode di sentire un continuo martellare: era lui che scardinava le assi del pavimento in cucina. Sentiva che là sotto c’era una telecamera, di quelle talmente piccole da passare inosservate. Ma non trovò niente. Lui, comunque, non si arrese, e rovistò per tutta la casa.
Si sentiva osservato e il colpevole era l'assassino di sua moglie.
Un giorno il custode lo vide tornare con un sacchettino. Gli chiese cosa avesse comprato, e lui, con la stessa noncuranza con cui avrebbe tirato fuori un cespo di lattuga, estrasse invece una nove millimetri.
"Per l’amor di Dio..", aveva commentato il custode. "Cosa vuole fare con quella?"
"Può sempre tornare utile. Ci si può difendere molto bene con un oggetto come questo, sa?"
"Difendersi? E da chi? Mi perdoni la franchezza, signor Scodella, ma ho l’impressione che in questo momento lei dovrebbe difendersi solo da se stesso. Mi ascolti, la prego... Lei ha bisogno d’aiuto, deve credermi."
"La smetta", aveva risposto seccamente Riccardo. "E mi raccomando. Non faccia salire nessuno."


Alcuni giorni dopo, Riccardo si svegliò nel cuore della notte. Aveva udito un rumore. Un cigolio lieve lieve, come l’anta di un armadio che si apre.
Accese la luce. Prese la pistola dal comodino e si alzò.
Girò per ogni stanza dell’appartamento. Era in casa, ora aveva capito. Ecco perchè non aveva trovato microspie. Quel bastardo assassino era dentro casa. Vide (intravide) un pantalone nero frusciare e muoversi nell’ombra, ma lo perse e non riuscì a trovarlo.
Comunque era in casa. Ora lo sapeva.

Il mattino dopo scese infuriato dal custode. Lo trovò a parlottare con quella vecchia zitella del piano di sopra e quando lo videro scendere, guarda caso, smisero all’improvviso. Stupidi pettegoli.
"Lei! Bifolco di un bifolco!", aggredì subito Riccardo. "Le avevo detto di non far salire nessuno!"
La vecchia lanciò un’occhiata al custode, che si difese: "Infatti non è salito nessuno".
"Ah sì? E allora perchè stanotte qualcuno era dentro casa mia?"
Ezio si mise le mani sulla faccia, sospirando: "Signor Scodella... La prego..."
"Non cominci con le sue scuse! Lei è un incompetente!"
"Signor Scodella. Si guardi. Guardi com’è ridotto. Lei è esaurito, signor Scodella. Vada a sistemarsi, è tutto spettinato."
"Per forza. Sono troppo impegnato a trovare quel vigliacco. Ah, ma lo trovo, non creda! Quanto è vero Iddio, lo troverò!"

Le visioni dell’incidente di sua moglie aumentarono. I suoi occhi si cerchiarono di rosso. Non dormiva più. Passava le notti davanti alla porta della camera da letto, seduto su di una sedia con la pistola nella mano. Era completamente impazzito.
Ogni tanto vedeva la sua ombra passare sul corridoio, ma il vigliacco era troppo vigliacco e non si affacciava mai. Avrebbe dovuto stanarlo lui.
Una notte si decise, e invece di aspettarlo davanti alla porta andò a cercarlo. Armò la pistola con otto proiettili e imboccò il corridoio. Spense le luci, in modo che lui non lo vedesse. Poi ci ripensò.
Lui era un’ombra. Viveva nell’ombra. Il buio era suo alleato.
Riaccese le luci.
Si affacciò in corridoio. C’era un porta in fondo, socchiusa. Era il bagno.
S’incamminò lentamente. Il calcio freddo della pistola gli pulsava nella mano, una gocciadi sudore rotolò dalle ciocche bagnate di capelli.
Toccò la porta con la punta delle dita. Era nel bagno. Cazzo, era lì. Si passò la lingua sulle labbra.
Contò fino a dieci, poi spalancò la porta con un calcio.
Lo vide. Davanti a lui. Riccardo premette il grilletto e lo sparo deflagrò tra le mura d’intonaco della stanza.
Lo specchio s’infranse in mille schegge. Dietro, il muro.


Durante la notte, per la prima volta nell’ultimo mese, dormì deliziosamente bene. Non sudò, non sognò. Il mattino dopo si alzò riposato dal letto. Fece una doccia, si lavò i capelli, si pettinò. Bevve una tazza di latte e verso le dieci uscì di casa.
Ezio lo vide scendere dalle scale. Era in gran forma, non lo vedeva così da settimane. Pulito e sorridente, come se fosse... sollevato.
"Signor Scodella..."
"Salve, Ezio. Oggi esco."
Il custode sembrava contento: "Ottimo".
Riccardo estrasse la pistola. Il sorriso scomparve dal volto dell’uomo. "Ancora con quest’affare?"
Riccardo sorrise. Ma non fu un sorriso. Il suo volto si squarciò come una maschera di cartapesta, e in quell’attimo Ezio vide il volto di un folle. "Ci sono riuscito, sa? L’ho ucciso... questa notte. Ho ucciso quel bastardo..."
Ezio era senza parole. Arretrò.
Riccardo mutò di nuovo espressione. I lineamenti tesi si rilassarono, gli occhi divennero lucidi. Sembrava all’improvviso tornare in sè. "Io ero andato a comprarle il Calvin Klein... Ero in ritardo... Non potevo fare tardi sul lavoro..."
Storse la faccia, che cominciò a tremolare, come se fosse sul punto di piangere. "E’ stato un incidente... Lei mi crede, vero? Vero?"
Ezio, tremando, prese la cornetta e cominciò a comporre un numero. Riccardo sollevò il braccio. Sparò due volte. Il primo colpo tranciò di netto il cavo del telefono. Il secondo imbucò l’occhio destro del custode come un tunnel, spappolandogli il cervello. Ezio cadde al suolo, afflosciandosi improvvisamente.
"Ora me ne vado...", concluse Riccardo abbassando la. pistola. I suoi occhi erano spalancati, e tradivano l’orrore immenso di chi ha finalmente compreso. "Sa, mi sono ricordato che è da tanto tempo che non faccio un giro in macchina."
Mentre moriva strisciando nel suo sangue e lo vedeva allontanarsi dal basso verso l’alto, Ezio avrebbe giurato di crederci.

 

Stefano Acquaviva è nato a Milano il 24 maggio 1976.
Scrive da circa vent'anni, prediligendo l'horror, la fantascienza e i thriller onirici à la Lynch. Ha a lungo adorato Stephen King per lo stile di scrittura e per i suoi racconti, ma nella sua libreria si possono trovare anche molti altri classici del Fantastico, come Isaac Asimov o Edgar Allan Poe.
Oltre ai racconti, scrive sceneggiature, numerose delle quali sono state trasposte in cortometraggi, che gira e realizza egli stesso.
Attualmente lavora come free-lance nel settore audiovisivi, realizzando, a partire dalle riprese e passando per il montaggio e la post-produzione, prodotti multimediali di varia natura, destinati a diverse piattaforme.






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