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di Flavio Pagani
Vincitore del V Trofeo RiLL
[racconto presente nell'antologia Ritorno a Mondi Incantati, Nexus Editrice, 2004]
Alle sette e trentacinque il marito conquistò l’ingresso dell’agognato bagno. Fece tutte le cose che ancora oggi fa un uomo la mattina, prima di andare al lavoro. Alle sette e cinquantacinque in punto si osservò davanti allo specchio, armato di forbice, spuntando i baffi. Alle otto e mezzo, con dieci minuti di anticipo, avviò l’auto. Quel giorno era venerdì, per cui, oltre a far benzina, avrebbe dovuto controllare le gomme e il livello dell’olio. Il marito era un uomo meticoloso, con la testa sulle spalle.
Alle e otto e quarantacinque arrivò sul lavoro, timbrò con metodica precisione il cartellino e depositò la valigetta ventiquattrore… Prese uno straccio e cominciò a spolverare tutte le marionette. Qualcuna, smunta dall’ignavia, o ammaccata da qualche duello, richiedeva un tocco di pennello o una riverniciata. Qualcun’altra, in un impeto di rivolta, aveva reciso un filo consunto, che andava sostituito. A qualcuna andava addirittura rimpiazzata una gamba o una testa che, con un’attenta operazione chirurgica, doveva essere di nuovo ritagliata, piallata, intagliata e ridipinta. Orlando aveva una spada spezzata, Giulietta un velo strappato. Il sipario era tutto impolverato, per cui avrebbe dovuto essere portato in tintoria. Poi, avrebbe dovuto passare lo straccio sul pavimento, in una laboriosa gincana tra le sedie del pubblico. Almeno due poltroncine zoppe chiedevano supplicanti una gruccia… A tutte queste cose doveva pensare! Ma lui era un uomo con la testa sulle spalle, per cui non poteva perdersi d’animo, per portare la pagnotta a casa.
Verso sera, arrivò, come sempre, più o meno numeroso, il pubblico. Alle otto e trenta, tra spettatori più o meno interessati, ebbe inizio lo spettacolo. Non sapeva ancora quale creatura avrebbe abboccato all’amo del suo “C’era una volta”. Gettò la sua lenza nel vuoto e aspettò che un personaggio, quella personalità che sarebbe divenuta la sua marionetta, vi si appigliasse.
Con il suo “C’era una volta” raccontò di un re che aveva perso la testa perché aveva smarrito la corona. Mostrò le gesta di un monarca cui era stata rapita la corona, ma non il capo. Narrò di un re che aveva perso testa e corona per una principessa e di un uomo, sposato con una regina, che si considerava sovrano pur non avendo corona. Sovrano di che, di sé stesso?
Portò gli spettatori in regni lontani con monarchi assennati e popoli ribelli, che li decapitavano perché volevano che usassero la corona, ma non la testa… E poi nel regno del tiranno incoronato che non era re…
Ma quella sera era il momento del sovrano che aveva perso la testa, ma non la corona…
C’era una volta un uomo incoronato senza testa.
Essere un re senza testa comportava molti problemi, almeno per degli uomini seri, con importanti responsabilità, come ad esempio quelle che gravano su un capo di Stato. Si ha poca memoria, si pensa poco, si parla con poco senno. Ma del resto, che razza di Stato è un regno con un capo senza capo? E poi, ammettendo che si potesse trovare un bravo e onesto ciambellano che facesse le veci del re, dove appoggiare la corona? E, anche ammettendo che si sia disposti a tollerare che la porti indegnamente, come potrebbe reggerla? Qualcuno, dotato di sbrigativo senso pratico, risponderà: “Tenendosela in mano!”, ma così il nostro pover uomo - giacché dietro ogni governante si nasconde pur sempre un uomo - non aveva mai le mani libere, ciò che lo impediva in tutte le sue mansioni, anche in quelle pratiche, come lavarsi i denti o farsi la barba. Ma un uomo senza testa non poteva avere questi problemi.
Sulla scena apparve il re, solenne, sontuoso, lungo mantello, passo marziale, forse addirittura reale. Teneva in mano scettro e corona e si accingeva a suggellare con la propria penna un trattato di pace con un potente reame vicino. Sorse allora un’insormontabile difficoltà. Come liberare la real mano necessaria alla firma del trattato? Rimettendosi la corona in capo? Ma il re in questione non aveva testa. Affidando per un istante la corona alle mani del ciambellano o del principino? Ma il trattato, per essere valido, doveva essere segnato da un re incoronato, dotato cioè di corona. Che razza di re è un sovrano incapace di tenere la corona? Rimasero tutti imbarazzati, impietriti in un gelido silenzio. Tranne Arlecchino, il giullare, che rideva. Del resto la sua funzione era quella di darsi al riso. Intanto la pace con il potente regno vicino non ebbe seguito.
Il giorno seguente il re convocò Arlecchino e lo incaricò di partire da quel castello per andare a cercare la preziosa testa reale smarrita. Brandendo minaccioso lo scettro troneggiò: “Viaggerai fino alle pozze del fiume Breggia e là, nel torrente che ombreggia, ti destreggerai distruggendo il mostro fiammeggiante!”
Il buffone di corte fu colto dal terrore: “Vi prego, altezza! Fatemi camminare sui tizzoni ardenti o datemi un colpo di mazza, ma non ammazzatemi tra le pazze pozze di un torrente impazzito dove il drago mi spezzerà come un pupazzo di pezza, facendomi a pezzi e pezzettini!”
Il saltimbanco supplicò il re di affidargli impresa più facile, il furto del vello d’oro o del dente dell’orco, ma non una così ardua. Il re, appellandosi alla corona di cui comunque manteneva il possesso, insistette e gli intimò di eseguire il suo ordine, pena la decapitazione. Ad Arlecchino non restò che rassegnarsi all’obbedienza, giacché un re senza testa resta sempre un monarca, mentre un giullare, un suddito, o un uomo senza testa non è più nessuno. E, facendo un inchino, se ne partì da palazzo a capo chino.
Il menestrello si rassegnò a partire, armato solo di filastrocche.
“La prima battaglia che dovrai affrontare per me” gli aveva ordinato il re “sarà contro il drago verde!”
Il giullare si avventurò nella ombreggiata vallata del mostro, tra verdeggianti valli che si stringevano in “U” da urlo, si avvinghiavano nelle “V” di vortici e si avviluppavano in “I” di un inferno verde. Si tuffò nei meandri dei monti e dragò i mulinelli del fiume alla ricerca del drago, ma non scorse nulla… nemmeno un magro mostriciattolo. Si rassegnò dunque ad affidare le sue affilate filastrocche all’eco, lanciandole nel vento. Arlecchino entrò nelle fauci della montagna finché la gola della valle venne scossa dall’ugola della famelica verde fiera: era il fiero drago che urlava a squarciagola una fame che andava oltre la golosità, sgolandosi in ululati di anelante ferocia.
Arg!, grugnì vorace il drago. Arrrg!, gridò la fiera digrignando i denti in un ghigno feroce.
“Mi sembra di arguire che ti si sia ingorgata la gola” disse Arlecchino provocando il mostro, che riprese con un nuovo e più profondo AAArrrg!
“Ergo mi pare che l’ingordigia abbia ingroppato le tue tonsille. Or dunque organizziamo la favella. Lascia o drago che dalla tua voce sgorghi una favilla di canto!”
Il drago riprese con un Arg di terrore, incalzato dal giullare che strillava: “Ti prendo da tergo e con una filastrocca infergo!”
E il drago ghermì Arlecchino con un guerreggiante Arrrrrrg!
“Largo, largo! Nel verso t’immergo e la rima spargo! Torna mostro in letargo o ti cospargo per le rime!”
E la spada della filastrocca s’incrociò con le zanne, gli artigli e gli arg del drago.
Ma che diavolo di arma è una filastrocca contro un mostro così terribile?! Eppure, già il primo dardo del giullare spaccone picchiò duramente la bestia verde.
“Ti prego” invocò il drago. “Io non posso rivelarti chi tiene prigioniera la testa che cerchi!”
Arlecchino scoccò allora una seconda filastrocca. Fiaccò il drago con versi coi fiocchi, finché il mostro si accasciò supplicando con voce fioca: “Abbi pietà di me, non sono io, ma il mago, a disporre della testa del re!”
Quindi l’enorme bestia cercò di reagire eruttando una colonna di fuoco alta quanto cento guerrieri. Ma il saltimbanco non si perse d’animo, schioccando crudele un’altra tremenda filastrocca, che fece scricchiolare il nemico spaccandogli le ossa.
“Sarai tu” disse al mostro ormai vinto “a recarti dal mago a reclamare la testa reale!”
Ma lo sciocco drago cercò di resistere. Fu allora che l’inesorabile Arlecchino finì il mostro gracchiando un’ultima filastrocca.
Quel sabato Arlecchino si recò subito presso il mulino del Ghitello, nota sede dei sabba, dove le streghe e il loro sibillino re sobillavano magie in gabbia, mulinavano sibili di rabbia, sillabavano formule e sobbollivano balli e ribollivano ridde ribelli, con una bellicosa clessidra e la sua sabbia.
Il mago tentò di difendersi disperatamente. Con il suo bastone percosse la roccia, aprendo enormi voragini che cercarono di inghiottire l’eroico giullare. Poi, con il suo corno chiamò dai più profondi abissi eserciti di diavoli, che attaccarono ferocemente Arlecchino. Ma nessuno dei tremendi sortilegi del re del sabba poté vincere le filastrocche del saltimbanco.
Arlecchino tornò real… mente al palazzo reale con la testa del re. Il monarca lo accolse trionfalmente, porgendogli quale suprema ricompensa la mano della principessa. Al banchetto di nozze qualcuno dei convitati volle chiedere ad Arlecchino di rivelare il segreto delle sue filastrocche, offrendo di pagarle a peso d’oro. Ma l’eroe rispose, con un inchino, che la bocca di Arlecchino non scocca né arrocca versi, o sbocca canti broccati d’oro zecchino. Non tira le fila, o ciocche di balocchi, beve soltanto, strizzando l’occhio a Bacco, dalla bocca gracchiante della filastrocca. Disse il giullare, gingillando con il suo giallo liuto, che l’artista è di una pasta senz’arte né parte. Si appresta senza sosta per pista lesta, con cesta di gesti estrosi. Il suo giusto posto è a un festino da re con pasto per poveri astanti privi di casta. Tesse la testa dell’artista parole senza testo, tastando nel buio pesto del destino con l’asta del brio. Tosto, affastella testardo rime frastagliate, insistendo gagliardo sui tasti del piano dell’esistenza reale…
Il burattinaio telefonò a casa avvertendo che, siccome era stato chiesto il bis, non sarebbe potuto tornare per cena. Così Arlecchino poté continuare le sue imprese. Il drago si rialzò, fece un inchino e si fece uccidere ancora dalle filastrocche.
Il puparo ritornò al focolare domestico soltanto quando la notte era ormai calata. Era stanco, ma la sua bimba non si era ancora addormentata, perché aspettava dal babbo una favola. Il teatrante era stanco di raccontare, ma per sua figlia fece uno sforzo:
C’era una volta una corona senza cranio, abbandonata alle ragnatele. C’era una volta un regno con un ragno. C’era una volta una principessa con capelli di ragnatela. C’era una volta un ragno che tesseva storie, su una tela che avvolgeva una bimba che non voleva dormire. C’era una volta una fanciulla che non voleva prendere sonno, che si svegliò scoprendo sulla sua coperta una favola tessuta dal ragno. La favola di una bimba che scoprì che il suo letto era una barca e la sua coperta una vela. La vela che, attraverso il vento, la faceva volare nel paese dei balocchi e delle filastrocche.
Flavio Pagani è nato nel 1967 ed è cresciuto nell’estremo meridione della Svizzera.
Nel mondo del lavoro a 18 anni, ha poi ottenuto la maturità da privatista a 23, come assistente di comunità infantile. Attualmente, gravita tra il Canton Ticino, dove lavora, Pavia, dove ha conseguito una laurea in storia moderna e Milano, dove passa il suo tempo libero.
Ha svolto i più svariati lavori (aiuto infermiere, giardiniere, cameriere, lavapiatti...) e da sempre si dedica a tempo perso a sperimentare storie, romanzi, sceneggiature e film. Attualmente, si barcamena come supplente nelle scuole medie superiori e insegnante d’Italiano per stranieri.
Alla scrittura è giunto tardi, più o meno nel 1997, per il gusto di inchiostrare carta e basta, senza modelli di riferimento. Cerca di scrivere, con ironia, lavorando d’immaginazione, per esorcizzare i tremendi fantasmi della realtà quotidiana e per diletto, sapendo di essere solo un dilettante che vive di tutti gli espedienti, compreso quello della fantasia.