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di Fabrizio Bonci
Vincitore del IX Trofeo RiLL
[racconto presente nell'antologia Mondi Incantati, Novecento GeC, 2003]
Anni fa – quanti, non riesco a rammentarlo – sono stato internista in una delle lussuose cliniche del settore orientale. La clinica sorgeva in una radura al centro di un grande bosco di faggi oltre il quale si innalzava una catena di montagne grigie. Un largo viale, che tagliava il bosco, conduceva ad un pesante cancello di ferro battuto e da qui, dopo aver superato un giardino all’italiana circondato da bassi edifici di mattoni rossi, all’edificio principale: una grande villa seicentesca dal portone di rovere pregevolmente intagliato. Alle spalle dell’usciere, un uomo anziano e sussiegoso seduto ad una scrivania di mogano, un Rembrandt ornava la parete di fondo dell’atrio.
Il quadro ritraeva il cadavere di un uomo adagiato su un tavolo da dissezione. Disposti attorno a quel corpo nudo e inerte, sette medici barbuti in abiti neri con la gorgiera e a capo scoperto assistevano alla lezione di anatomia del professor Tulp, l’unico con il cappello. Il professore aveva sezionato l’avambraccio e la mano sinistra del cadavere. L’attenzione degli allievi era rivolta ai fasci di tendini e di muscoli messi a nudo. Il resto del corpo attendeva di esporre alla luce vivida che inondava lo spazio della tela i suoi centri di forza e i suoi meccanismi interni che, per il momento, rimanevano sepolti sotto gli strati di tessuto.
Mi accade spesso di rievocare questa scena nell’oscurità che mi avvolge quaggiù. In questo modo mi si è dischiuso un segreto che non avevo mai potuto penetrare quando, nelle mattine domenicali, mi soffermavo a lungo, a volte per ore intere, a osservare il quadro: se il professor Tulp era il solo a portare il cappello è perché al di sotto del copricapo di feltro nero nascondeva a sua volta un cranio scoperchiato.
Ricordo il sentimento di reverenza e di gratitudine dei nostri pazienti quando, attraversato il bosco e il giardino, erano ammessi nell’atrio, e potevano ammirare, mentre attendevano che l’usciere consultasse i suoi registri, il Rembrandt. E rivedo ancora i loro volti contratti dall’umiliazione e dalla disperazione quando ordinavamo che fossero trasferiti in altri settori dell’Ospedale, ed erano allora ricondotti da un inserviente calvo e impassibile al cancello, dai battenti sormontati da due angioletti dorati armati di bisturi. I pazienti agognavano ad essere curati da noi. La perfezione lucida di acciaio e cromo delle nostre sale operatorie, l’acume dei nostri capi, la potenza dei mezzi di cui disponevamo erano famosi. Leggevamo nelle cartelle cliniche, che i malati ci porgevano speranzosi, con la sapienza di antichi sacerdoti e vi annotavamo come oracoli il loro destino. Ogni paziente conservava la sua cartella clinica come il bene più prezioso e non se ne separava mai. Nel settore settentrionale essa veniva tatuata sulla schiena del paziente, in modo che questi non potesse falsificarla. Ma noi eravamo distanti da quei grandi complessi di edifici in cemento, di grotte e di tunnel, dove milioni di medici, infermieri e pazienti vivevano tra sommosse e carestie. Noi eravamo privilegiati, e la nostra eccellenza si riverberava sui nostri pazienti.
Avevo una moglie in quell’epoca, Clara, una stimata analista di laboratorio. Vivevamo al secondo piano della villa, in un alloggio dal soffitto affrescato. Eravamo rispettati dai colleghi, ossequiati dagli infermieri, adorati dai pazienti. Progettavamo di avere dei figli. Li avremmo mandati al collegio Semmelweis, dove si educavano i rampolli delle migliori famiglie di medici del nostro settore. Mia moglie era una bella donna. Di media statura, aveva un volto severo, eppure sensuale nella bocca carnosa che si schiudeva al di sotto del naso leggermente aquilino e negli occhi allungati che, alle volte, si offuscavano di piacere quando, nuda di fronte allo specchio del bagno, si scioglieva la chioma di colore rosso cupo. Non mi stupii, perciò, quando un giovane anestesista, che era giunto alla clinica dalle primitive regioni occidentali e che grazie alle sue doti di intrigante era in breve tempo diventato assistente del primario, si invaghì di lei. L’amore o il semplice desiderio per mia moglie – quale dei due non so – e un odio di una fredda intensità nei miei confronti si fusero subito in un’unica passione in quell’uomo i cui tratti delicati nascondevano una inconfessabile violenza. Mercuri – così si chiamava – prese a farmi oggetto, durante le riunioni periodiche del personale medico della clinica, di ironiche osservazioni che avevano lo scopo evidente di screditarmi. Quando mi capitava, invece, di imbattermi in lui, negli ascensori o nei corridoi, era solito cogliere l’occasione per rivolgermi oscure e minacciose allusioni. Una sera che, avendo udito scoppi clamorosi di risa, ero improvvisamente entrato nella sala diagnostica del mio reparto, lo sorpresi mentre intratteneva un gruppo di infermieri con quella che era inequivocabilmente l’imitazione farsesca del mio modo un po’ impacciato di parlare – fin da bambino, infatti, ero sempre stato affetto da una leggera balbuzie. Non appena si accorsero della mia presenza gli infermieri si ammutolirono, ma Mercuri ebbe l’impudenza di esclamare: “No... no... non stava... stavamo… ride… ridendo di lei!”, suscitando così una nuova esplosione di ilarità.
In seguito risultò evidente che Mercuri aveva condotto la sua opera di diffamazione in profondità. Il primario e i medici di grado superiore iniziarono a dubitare del mio lavoro. Le mie diagnosi erano messe in discussione. Il personale paramedico non ubbidiva più con l’antica prontezza ai miei ordini. I pazienti, tra i quali certamente erano state diffuse voci sul mio conto, mi guardavano con sospetto. Le calunnie di Mercuri avevano chiaramente fatto effetto su tutti gli abitanti della clinica. Ai miei sfoghi mia moglie reagiva con fastidio. Sempre più spesso la trovavo assieme a Mercuri nelle corsie o nella sala da pranzo al primo piano della villa. Il mio occhio esperto di marito riconosceva ormai in lei tutti i segni di una completa intimità con quell’uomo. Il mio umore tetro, che i litigi con Clara peggioravano, aggravava la mia situazione. Cominciavo a compiere errori nel mio lavoro. Non rispondevo ai saluti. Non curavo a sufficienza il mio aspetto. Si sparse la voce che mi ero ammalato. Mia moglie iniziò a circondarmi di attenzioni e premure sospette e i colleghi a rivolgermi sguardi carichi di compassione. Ero esonerato dalle incombenze gravose. Infine il vice primario mi convocò. Era un uomo piccolo e bonario, con un paio di occhiali dalla montatura di tartaruga. Mi disse, dopo un preambolo di frasi cortesi, che purtroppo non mi si presentavano, al punto in cui ero, che due alternative: avrei dovuto sottopormi ad una serie di accertamenti medici, cosa tanto deplorevole quanto inevitabile – ma mi avrebbe confortato sapere che il dottor Mercuri, ottimo medico generico oltre che valente anestesista, si era generosamente offerto di assolvere quel compito – oppure lasciare la clinica. Sulla scrivania del vice primario una cartella in bianco era già pronta. L’intestazione non avrebbe recato la dicitura dottore.
Gli occhi del vice primario mi scrutavano attraverso le lenti. Un letto lindo e anonimo era certamente già stato preparato per me in una delle corsie, con la vestaglia e il pigiama gialli, che costituivano la divisa dei pazienti della clinica, piegati sulle coperte. Mi pareva di percepire nell’aria il respiro trattenuto di un immenso animale preistorico, un’attesa avida e maligna che manteneva immobile tutta la clinica, con i suoi laboratori pulsanti di macchinari, le sue sale operatorie irte di strumenti affilati, scintillanti nella luce vivida dei neon e, soprattutto, con la sua sala di dissezione sotterranea piastrellata di mattonelle azzurre. Pensai al corpo disteso sul tavolo, esposto agli sguardi penetranti dei medici con la gorgiera. Lasciai la clinica. Mia moglie, naturalmente, non mi seguì.
Nelle altre cliniche orientali non riuscii a trovare lavoro. Il vice primario, sebbene avesse accolto la mia decisione di andarmene con sollievo, non mi aveva fornito che di una lettera di presentazione fredda e vaga, di quelle che attestano la mediocrità del postulante. Ricevevo garbati ma netti rifiuti. In qualche caso fui messo senza tanti complimenti alla porta. Mi diressi a nord. Qui l’Ospedale si sviluppava in costruzioni di cemento sovrapposte, addossate una all’altra. Si innalzava verso il cielo in torri di acciaio, e sprofondava giù nella terra in pozzi e antri di cui nessuno poteva tracciare una geografia precisa. Le foreste, le montagne innevate, i laghi del settore orientale apparivano da qui più fantastici che reali. Non si conosceva il numero dei degenti, l’organizzazione dei medici e del personale paramedico era confusa. I ruoli venivano continuamente ridefiniti. In alcuni reparti i medici erano eletti tra i pazienti. In altri, partiti di medici in lotta tra di loro cercavano di diffondere tra gli avversari il contagio di odiose malattie, condannandoli così a divenire loro pazienti. I medici infettati erano trascinati nelle camerate, dove alla vista degli ammalati, che dalle brande li fissavano con odio, erano presi dal terrore. Molti di loro, la mattina dopo, venivano trovati morti, fatti a pezzi dai pazienti oppure impiccati nelle latrine. Culti stravaganti si diffondevano nei sotterranei, in opposizione alla medicina ufficiale. Erano tentati interventi chirurgici con l’ausilio di strumenti ricavati da ossa umane. A misture di sangue ed escrementi si attribuivano straordinarie virtù terapeutiche.
In quell’ambiente disordinato e violento non mi fu difficile scovare un posto vacante. Fui assunto come medico di corsia nel reparto del professor Nevio. Il nostro era un reparto geriatrico sotterraneo. Vi si accedeva tramite un sistema di ascensori che portava in quella che, un tempo, doveva essere stata la galleria principale di una miniera e che, ora, era stata suddivisa in comparti che si susseguivano in una fila interminabile. Dei nostri anziani pazienti, che vivevano in uno di quegli stretti stanzoni dalle pareti incurvate, illuminato costantemente da una lampada che emetteva una fioca luce gialla, ve ne erano alcuni che dicevano di ricordare i tempi in cui l’Ospedale non c’era ancora, ma c’erano ospedali distinti ognuno dall’altro e inframmezzati da altre istituzioni di cui si era persa la memoria. In quei tempi – raccontavano – esistevano altre professioni oltre a quella di medico, altri mestieri oltre a quello di infermiere o di inserviente, non tutti coloro che non appartenevano all’organizzazione sanitaria erano considerati malati. Una grande epidemia aveva portato l’Ordine dei Medici al potere, ed esso, da allora, non solo aveva conservato il potere acquisito, ma lo aveva accresciuto ulteriormente, estendendo la sua influenza su ogni attività umana. Ora non rimaneva che l’Ospedale, di cui nessuno riusciva più a vedere i confini, neanche i grandi professori del Primariato Centrale.
Nevio non solo permetteva, ma addirittura ascoltava volentieri questi discorsi, seduto sul bordo della branda di un paziente, del quale accarezzava la testa canuta, con la bocca piegata in un sorriso enigmatico. Era un uomo imponente, dai lunghi capelli argentei. Il camice sempre slacciato lasciava scoperto un torace glabro e possente. “Vede” mi diceva durante le nostre ispezioni nella corsia, indicandomi i vecchi distesi sulle brande “credono di odiarci, ma in realtà ci amano. Senza di noi non potrebbero vivere. La paura li sconvolgerebbe. Invece, per quanto possa essere triste la loro vita qui, essi l’accettano. E sa perché? Perché curando o tormentando – è indifferente – i loro corpi li distogliamo dal pensiero della morte. Sebbene qui ovunque troneggino i simboli della morte, la loro morte non li riguarda più. Riguarda solo noi.”
Nevio inclinava alla violenza fisica. Io stesso lo vidi rompere, senza motivo, il collo ad una vecchia paziente con una sola torsione del braccio e poi, apertale la bocca con due dita, introdurvi la lingua rossa e pesante, saggiando l’interno della cavità orale, mentre una strana espressione di stupore si disegnava sul suo volto. Si diceva che da giovane avesse fatto parte della setta, avvolta dal mistero, degli Ippocrati Neri, nella quale pare che si pronunciasse il giuramento di Ippocrate al contrario. Nel suo studio, dove, appese alle pareti, attiravano l’attenzione del visitatore alcune fotografie di segmenti di intestino ritratti in bizzarre messinscene – sul dorso di un cavallo in un prato, raggomitolati su una sedia, avvolti intorno al collo di una donna nuda, distesi sul greto di un fiume – mi parlava della linea di confine che separava i sani dai malati: “Un taglio netto, preciso, un colpo di bisturi che recide tutti i punti di contatto” diceva. “Medico e malato sono due universi contrapposti e inconciliabili, dividono l’umanità in parti complementari, se ne ricordi.” Spesso si addormentava a metà di una frase, seduto sulla sedia di alluminio, la testa massiccia reclinata all’indietro e il petto enorme che si sollevava e abbassava rumorosamente.
Un giorno Nevio non fu trovato nel suo studio. Lo si cercò in tutto il reparto. Sembrava che fosse scomparso, fino a quando qualcuno non pensò di guardare nella sala operatoria. Fui chiamato. Nevio era disteso sul tavolo, con il bisturi ancora stretto nella mano destra. Il ventre era squarciato. Un lungo tratto di intestino si era allungato sul corpo nudo. L’azzurro delle viscere contrastava con la regione scura del pube. La mano sinistra insanguinata copriva il volto di Nevio. Non ebbi l’animo di scostarla per osservare l’espressione del cadavere.
La morte di Nevio mi fece perdere il posto. Il nuovo direttore del reparto, un ipocrita che amava tenere lunghi discorsi sulla sacra missione del medico, ritenendomi in parte responsabile di quelle che egli, riferendosi alle violenze di Nevio, definiva “le alquanto discutibili imprese del nostro compianto professore”, dopo qualche settimana dal suo arrivo trovò il modo di allontanarmi. Credo che i nostri vecchietti, abbandonati nelle mani di quel filantropo impeccabile e inamidato, avrebbero ben presto rimpianto le stranezze omicide di Nevio.
Nell’Ospedale chiunque è o medico o infermiere o paziente. Non esistono alternative. Dunque mi affaccendai per trovare in fretta un posto in qualche reparto. Ero disposto anche a scendere nelle profondità sconosciute dell’Ospedale, molto al di sotto del reparto di Nevio, delle quali non si avevano che vaghe e incerte informazioni, quando improvvisamente fui declassato ad infermiere. La notizia mi giunse con un corriere dal Primariato. In ciò vidi una manovra di Mercuri. Era solamente un’ipotesi. Tuttavia costui mi aveva dato l’impressione di appartenere a quel genere tenebroso di uomini che non cessano mai di perseguitare le loro vittime.
Gli infermieri costituivano una categoria intermedia tra i medici e i malati. Associati in potenti corporazioni che comprendevano anche le gilde di inservienti di ogni tipo – barellieri, uscieri, magazzinieri, cuochi, manovali ecc. – provvedevano, oltre che alle esigenze più propriamente sanitarie, anche ai trasporti e alle comunicazioni e, soprattutto, controllavano le gigantesche fabbriche automatiche che, alimentate da inesauribile energia nucleare, fornivano cibo, vestiti e attrezzature all’Ospedale.
Trovai lavoro alla Divisione Malattie Infettive, che aveva sede in un complesso di caverne artificiali situato ad un centinaio di chilometri di distanza dalla galleria dove si trovava il reparto geriatrico. Con un altro infermiere dovevo sorvegliare un gruppo di malati che era relegato sul fondo di una cavità circolare dalle ripide pareti di cemento e del raggio di forse cento metri. Rivestiti di scafandri che dovevano proteggerci dal pericolo di contagio, trascorrevamo le giornate in una piccola cabina di alluminio sospesa, tramite una lunga trave di ferro che si sporgeva nel vuoto, a una decina di metri di altezza dal bacino sottostante. La trave ci serviva da passerella per raggiungere la cabina dall’orlo della cavità e viceversa. Durante quei tragitti, già di per sé pericolosi a causa della strettezza della trave e dell’impaccio degli scafandri, non era raro che i malati cercassero di farci precipitare lanciando urla improvvise. Tkalez – era questo il nome del mio collega – ricambiava con gli interessi quelle manifestazioni di ostilità. Aveva legato a uno dei tubi che sorreggevano il tetto della cabina il capo di una lunga corda e l’altro capo ad una chiave inglese che, di tanto in tanto, sporgendosi improvvisamente da una delle tre aperture che davano sul bacino, scagliava contro i malati che incautamente si erano portati a tiro. In quel modo era riuscito a ferire diverse persone. Tuttavia, con il ripetersi incessante di quegli agguati, non accadeva quasi mai che qualcuno si avvicinasse a sufficienza. Dopo ogni lancio Tkalez recuperava la chiave avvalendosi della corda. Mi aveva spiegato che era necessario fare così, sebbene il peso della corda limitasse di molto la lunghezza dei lanci, per non lasciare nelle mani dei pazienti un’arma pericolosa.
Oltre all’incarico di quella sorveglianza monotona, lassù nella cabina, intervallata dai lanci di Tkalez, avevamo il compito di scortare il medico che ogni due settimane scendeva nel bacino per visitare i pazienti. Prendevamo posto assieme al medico, a venti inservienti e a dieci aiutanti armati di pesanti mazze, tutti con indosso gli scafandri protettivi, su un’enorme piattaforma carica di casse che veniva calata da un argano. Giunti sul fondo, gli aiutanti si mettevano a dare la caccia ai pazienti, che scappavano qua e là o organizzavano piccole barriere di resistenza facilmente infrante dai colpi di mazza, mentre gli inservienti scaricavano le casse. Intanto Tkalez e io accompagnavamo il medico al centro del bacino dove, al livello della superficie di cemento, si apriva la bocca di una voragine apparentemente senza fondo, che i malati utilizzavano per svuotare i loro buglioli. Uno alla volta i pazienti erano trascinati davanti al medico, che, in base ad un rapido giudizio, decideva la gravità del caso. Se la malattia era ritenuta curabile, gli inservienti prelevavano dalle casse che avevano trasportato sino a lì una razione di farmaci e una di cibo, che sarebbero bastate al paziente sino alla visita successiva – l’acqua, i pazienti la potevano attingere liberamente da una fontana che era collegata tramite un canale di scolo alla voragine. Se invece la malattia era giudicata incurabile, Tkalez ed io avevamo il compito di sopprimere il paziente con un’iniezione di curaro. Gli aiutanti gettavano, poi, il cadavere nella voragine.
Continuai così per un anno, e ne erano trascorsi quasi due da quando avevo lasciato la clinica circondata dal bosco, ai piedi delle montagne. Poi giunse la mia rovina, ma non provenne da Mercuri.
Avevo spesso dubitato della solidità della trave che sosteneva la nostra cabina. Il ferro, soprattutto nel punto in cui la trave era infissa nella parete di cemento del bacino, mostrava profonde fessure scavate dalla ruggine. Tuttavia, senza il concorso di un incidente che si verificò il giorno in cui arrivò un nuovo gruppo di pazienti, la ruggine probabilmente non sarebbe stata sufficiente a far cedere la trave prima di molti altri anni ancora. Tkalez aveva atteso con una gioia maligna che i nuovi arrivati fossero calati nel bacino con la piattaforma e iniziassero a vagare spaesati sulla distesa di cemento. Quando poi una ragazzina esile dai capelli bruni, ignara del pericolo che correva, si portò sotto la cabina, Tkalez scagliò la chiave inglese con tutta la forza che aveva. La ragazzina, colta alla testa, morì sul colpo. Una folla si radunò lentamente intorno al piccolo cadavere, in silenzio. Poi, per una ispirazione comune, i malati afferrarono il capo della corda cui era legata la chiave inglese e tutti assieme cominciarono a tirare…
Mi salvai. La trave prima di spezzarsi si era piegata abbastanza perché l’urto della cabina non fosse eccessivamente violento e i malati odiavano troppo Tkalez, che riconoscevano dallo scafandro nero – il mio, in quanto ex medico, era rosso – perché facessero caso a me. Ebbi il tempo di arrampicarmi sulla scala di corda che mi fu gettata dagli inservienti accorsi al fracasso. Purtroppo la tuta si era lacerata e nei giorni successivi la mia esperienza di medico mi confermò che avevo contratto un’infezione. Fuggii, prima che qualcuno se ne accorgesse. E dove fuggire, se non nelle regioni più sotterranee dell’Ospedale? Scesi per chilometri a piedi, lungo scale a gradini e a pioli, o tramite rudimentali montacarichi, giù fino a dove sono ora.
La mia malattia è mortale. Tuttavia essa si protrae da un tempo immemorabile. Nudo, strisciando sulle mie piaghe, nutrendomi di escrementi, mi nascondo nei buchi, negli anfratti al passaggio dei dottori, che qui sono vestiti di cuoio nero e hanno strane maschere sul volto.
Fabrizio Bonci, nato nel 1966, è filosofo di formazione e vive a Torino. Gallerista e curatore d’arte, documentarista, è autore di racconti, raccolte di poesie, sceneggiature e testi teatrali, per i quali ha ricevuto un certo numero di riconoscimenti.
Leggi l'intervista a Fabrizio Bonci realizzata in occasione del trentennale del Trofeo RiLL.