Cinque scenari per la fine del mondo

di Lorenzo Trenti
Secondo classificato al X Trofeo RiLL
[racconto presente nell'antologia Ritorno a Mondi Incantati, Nexus Editrice, 2004]


Andrà così.
Come nel più proverbiale dei tran-tran, ogni uomo e ogni donna del pianeta erano impegnati nelle proprie consuete faccende: chi si stava alzando cercando di non pensare alla giornata lavorativa che l’avrebbe atteso; chi consumava il pranzo in locali adeguati al proprio stipendio e soprattutto al tempo a propria disposizione; chi si stava coricando o era già immerso in un sonno agitato, a seconda del fuso orario.
Tutto a un tratto l’umanità si fece attonita. Gli atleti arrestarono la propria corsa; i segretari e i centralinisti rimasero senza parole, impugnando cornette mute e trattenendo il fiato; chi stava dormendo si svegliò colto da un senso di straniamento di cui non sapeva dare spiegazione. Qualcosa era improvvisamente cambiato, anche se sulle prime nessuno riuscì a capire di che si trattasse. Quanti si trovavano all’aperto scrutarono il cielo per cercare di comprendere; era come quando si sta ascoltando una canzone e questa si interrompe all'improvviso.
Non ci volle molto per capire che era stato proprio così.
Per secoli i sapienti avevano parlato della musica delle sfere, una sinfonia divina che emanava dal movimento delle invisibili armonie celesti toccate dalla mano di Dio all’alba dei tempi. Poiché nessuno aveva mai udito tale melodia si riteneva che essa fosse una bella immagine poetica, ma nulla più. Come molte cose della vita, però, se ne scoprì l’importanza solo quando essa cessò di esistere.
Prima di quel momento nessuno si era mai accorto della musica delle sfere perché ognuno era immerso in quel suono fin dall’infanzia, fin dalla nascita, fin dall’istante stesso del concepimento. Capita con certi rumori - condizionatori, ticchettii di orologi, basi sonore - che essi si appiattiscano sullo sfondo della percezione e che non li notiamo se non, appunto, quando si fermano all’improvviso; e allora comprendiamo di colpo che li stavamo ascoltando già da tempo. Così avvenne per l’umanità con la musica delle sfere.
Nessuna parola mortale potrà mai descrivere pienamente la sinfonia cantata dall’universo stesso e, soprattutto, il doloroso senso di perdita che l’umanità provò al termine di questa esperienza. Fu un brusco risveglio. Musicisti e compositori di ogni nazione tentarono con la forza della disperazione di annotare su carta gli ultimi echi della melodia che ancora risuonava nelle loro menti; ma i brandelli dello spartito si mescolavano inesorabilmente alle composizioni di musica classica già note, che - solo ora potevano capirlo! - non erano altro che un riflesso sbiadito e incerto dell’armonia delle sfere celesti.
Non finì così, comunque. Mentre ognuno guardava il proprio vicino in silenzio, come chiedendogli con lo sguardo “e ora come faremo?”, la musica ricominciò. Solo che questa volta non si trattava più di musica classica suonata divinamente.
Il Grande Dee-Jay Cosmico aveva cambiato genere, o forse aveva semplicemente interpretato i gusti musicali più ricorrenti sulla terra.
Fatto sta che dalle sfere celesti iniziò a diffondersi la peggiore musica technodance che gli esseri umani avessero mai ascoltato. Un frastuono orribile, supportato da un battito industriale martellante e ripetitivo. Il volume era inconcepibilmente elevato.
La gente uscì in strada urlando, ma nessuno poteva sentire nessun altro, perché il rumore era talmente alto che copriva qualsiasi altro suono. Tenere le mani sulle orecchie era inutile; la vibrazione permeava il cosmo stesso e si trasmetteva attraverso la terra, i piedi e le ossa, fino a rimbombare nell’interno di ogni organismo.
Il battito che continuava a pulsare come un osceno cuore meccanico si fece se possibile ancora più forte. Nel volgere di pochi minuti il frastuono schiantò tutti gli esseri viventi sul pianeta. I palazzi e gli altri edifici, sottoposti a sollecitazioni così forti, crollarono a ritmo di techno. Poco dopo le colline, le montagne e lo stesso pianeta iniziarono a sgretolarsi.
Ed è così che il mondo finirà.

 

Oppure andrà così.
La scienza e la tecnica avevano finalmente isolato una imbarazzante tara genetica, propria non solo dell’uomo ma della maggior parte delle specie viventi, dicevano gli esperti quasi scusandosi a nome dell’evoluzione. Un errore di percorso, senza alcun dubbio: forme di vita più primitive non presentavano questo problema, che era comparso a un certo punto e poi, disgraziatamente, si era propagato fino alle specie più evolute.
Comunque fosse, tutto ormai era pronto perché l’umanità compisse da sola il balzo evolutivo che le mancava.
Gli esseri umani accettarono quasi all’unanimità il passaggio; quella scarsa minoranza che persisteva nell’opposizione fu eliminata in modo civico e indolore. Così, nel giro di poche settimane, le differenze di genere scomparvero; non più uomini e donne, ma solo umani dal sesso indifferenziato, in grado di riprodursi per partenogenesi.
Il nuovo modo d’essere risolveva una serie di problemi oramai opprimenti per la società. Niente più lunghi corteggiamenti, liti matrimoniali, crisi del settimo anno, cause per l’affidamento dei figli che si protraevano per anni a detrimento dei figli stessi. Ognuno poteva finalmente bastare a se stesso. Quando un umano raggiungeva un certo stadio di maturazione, le sue carni lisce come quelle di un manichino davano vita a un globo di materia vivente, delle dimensioni di una piccola anguria, che si staccava dall’addome. Nel giro di un mese dal globo spuntavano manine, piedini e una piccola testa senza capelli. Non c’era bisogno di allattamento, solo di alimenti abbastanza liquidi perché il bambino potesse mangiarli fino allo spuntare dei denti.
Per un po’ questa novità fu apprezzata a furore di popolo, anche se non mancarono i soliti nostalgici che rimpiangevano i bei tempi, quando non c’era tutta questa solitudine. In effetti la possibilità di riprodursi senza bisogno di nessun altro aveva reso gli umani estremamente più schivi e individualisti di quanto non fossero già diventati negli ultimi secoli.
Poi qualcuno si rese conto che c’era un problema nella partenogenesi. Un grosso, grosso problema.
Risultò che nella propria vita ogni individuo, per qualche motivo, poteva generare solo e soltanto un altro essere umano. Le parole “fratello” e “sorella” presto cessarono di avere un significato. Ma il problema non era di ordine linguistico; era di sopravvivenza della specie.
Se ogni soggetto aveva la possibilità biologica di dare la vita a un solo discendente, la stirpe umana era destinata prima o poi ad estinguersi. La medicina aveva eliminato la maggior parte delle malattie, certo, ma ovviamente restavano ancora gli incidenti, le guerre e la vecchiaia. Uccidere un essere umano che non avesse ancora procreato significava sopprimere una delle fiammelle che ancora teneva accesa la continuità della specie.
Questa improvvisa consapevolezza quasi stordì l’umanità. I genetisti si misero all’opera per cercare di capire come correre ai ripari, mentre la preoccupazione era tale che per un certo periodo, addirittura, i popoli cessarono le guerre in corso per timore di eliminare qualche altro essere umano. Poi la natura umana riprese il sopravvento e continuarono guerre e omicidi; non mancò chi attribuì il problema della riproduzione a una vendetta della natura per l’obbrobrio perpetrato su di essa dagli esseri umani.
Il tempo passò inesorabile. I genetisti non riuscirono a venire a capo della faccenda, anche perché l’individualismo e l’isolamento di ognuno rendevano quasi intollerabile l’idea di un lavoro d’équipe.
L’umanità si ridusse sempre di più. Le nazioni tentarono di correre ai ripari applicando particolari politiche di protezione sociale nei confronti degli individui ancora fertili, con grandi sollevazioni popolari da parte di chi invece aveva già procreato. La cosa portò sommosse e stragi, che decimarono ulteriormente il numero degli umani.
Gli ultimi due genetisti furono chiusi in laboratorio con l’imperativo di uscirne solo quando avessero finalmente trovato il modo per ripristinare le differenze di genere. E in effetti dopo anni di strenue fatiche riuscirono a invertire il procedimento e a tornare rispettivamente uomo e donna.
Uscirono dal laboratorio per annunciare la notizia ma non trovarono più nessuno. Ormai la specie si era estinta da un pezzo.
L’ultimo uomo e l’ultima donna, novelli Adamo ed Eva, si squadrarono sapendo che da loro dipendeva la sopravvivenza della specie. A differenza dei mitici progenitori dell’umanità, però, non si piacquero. Anzi, si trovarono reciprocamente mille piccoli difetti che li rendevano assolutamente detestabili l’uno per l’altra.
Si lasciarono senza nemmeno salutarsi.
Ed è così che il mondo finirà.

 

Oppure andrà così.
Fu realizzato l’anello dei desideri. Per davvero. In effetti si trattava di un dispositivo in grado di alterare le leggi stesse della fisica relativistica in modo da piegare la realtà col pensiero; ma tutti lo chiamavano anello dei desideri, anche perché gli era stata data la forma di un piccolo anello di materiale opaco. Come nelle fiabe, inoltre, poteva esaudire un massimo di tre desideri prima di assuefarsi alla mente del soggetto desiderante e rifiutarsi di tramutare i suoi pensieri in realtà. Dunque, visto che funzionava a tutti gli effetti come un anello dei desideri, venne spontaneo chiamarlo come tale.
Il prototipo fu chiuso negli archivi più segreti della nazione che lo aveva creato, per essere indossato e sfruttato dal presidente solo in casi di estrema necessità. Un’apposita commissione ne regolava l’uso per soli interventi di portata tutto sommato limitata: un conto era desiderare la fine di un disastro ecologico o la ripresa dell’economia, ma chi poteva sapere quali conseguenze distruttive avrebbero avuto l’improvvisa pace nel mondo, la felicità automatica per ogni individuo o altre utopie del genere?
Il meccanismo di autoregolazione funzionò per anni senza che il mondo si accorgesse di nulla. Poi inevitabilmente qualcuno parlò e le voci iniziarono a circolare pubblicamente.
Un membro della commissione decise allora di appropriarsi dell’anello e sfruttarlo per i propri scopi. L’incursore prezzolato che doveva trafugare l’anello decise di tenerlo per sé e, un istante prima di essere falciato dalle armi dei sorveglianti, desiderò che tutti avessero le stesse possibilità dei potenti che custodivano l’anello.
Su tutto il pianeta le nubi si fecero più dense. Dal cielo iniziarono a piovere centinaia, migliaia, milioni di anelli dei desideri.
Uomini e donne di ogni paese li indossarono e iniziarono a desiderare. Il mondo cambiò a un ritmo vertiginoso: guerre iniziarono, terminarono e ripresero; interi popoli vennero cancellati e poi riportati in vita; la ricchezza e l’economia fluttuarono con tale velocità da diventare prive di senso. Chi desiderò la felicità per tutti scoprì suo malgrado che ognuno aveva un’idea di felicità differente dagli altri e coincidente con la soddisfazione dei propri desideri.
Non ci volle molto perché il mondo venisse rase al suolo. Tutti questi desideri contrapposti avevano reso impossibile la vita; qualcuno, stremato, desiderò che tutto terminasse.
Ed è così che il mondo finirà.

 

Oppure andrà così.
Era una giornata come tante altre. La sera, a cena in famiglia, un uomo trovò che la pietanza che stava consumando fosse un po’ insipida. Così si rivolse alla moglie e le disse: “Passami il... il...”
L’uomo restò interdetto per qualche secondo. Gli era sembrato di avere bisogno di qualcosa ma non sapeva più di cosa si trattasse. Alzò le spalle e tornò a mangiare, anche se gli rimase dentro un senso vago e indefinibile di vuoto.
Era accaduto che il sale, semplicemente, fosse scomparso. Non solo dalla casa dell’uomo, ma da tutta la realtà. Aveva cessato di esistere. E con esso era sparita anche la parola che lo aveva rappresentato fino a quel momento, cosicché l’umanità non si accorse di ciò che aveva perso perché non aveva più un nome per identificarla.
Nei giorni seguenti altre parti della realtà iniziarono pian piano a scomparire, come se non fossero mai esistite.
Prima toccò ai rododendri, poi fu la volta delle riviste scandalistiche, del basalto, dei vini rossi e del rugby. Ogni volta la realtà restava un po’ più povera: gli esseri umani percepivano che mancava loro qualcosa, senza capire cosa. Si fermavano spesso a pensare, aggirandosi attoniti per le case e le città ma senza trovare una risposta.
Era come se tutte le cose che esistono avessero fatto ormai il proprio tempo e, quasi fossero i partecipanti a una festa protrattasi fino a tardi, avessero deciso di salutare e togliere il disturbo una dopo l’altra.
Altre cose scomparvero senza più ritornare. Sparirono per esempio i vestiti: dove il clima lo permetteva gli esseri umani circolarono nudi, mentre nei paesi più freddi si ricoprirono di rozze pelli e lenzuoli. Svolgevano grossomodo le stesse funzioni dei vestiti, certo: ma non erano più vestiti degni di questo nome. Della scomparsa degli appendiabiti si accorsero in pochi: tutti avevano trovato nei propri armadi questi curiosi oggetti triangolari con un gancio e nessuno capiva a cosa potessero servire, così se ne erano sbarazzati già da un pezzo.
La scomparsa delle cose continuò. I dizionari si fecero via via più sottili, finché non furono i dizionari stessi a cessare di esistere.
Per terzultima scomparve anche l’umanità, che ormai si aggirava per lande vuote e senza nome grattandosi la testa con incertezza.
Il mondo finì non in un botto, ma un po’ per volta, silenziosamente, senza clamore. Era la stessa differenza che c’è tra far saltare in aria un magazzino o, in modo più semplice, svuotarlo progressivamente.
Ed è così che finirà il... il... come si chiama?

 

Oppure andrà così.
Nessuno aveva notato nulla di strano in quell’appartamento di periferia, e nessuno vi avrebbe mai notato nulla di strano, almeno rimanendo all’esterno.
L’interno invece colpiva in modo particolare perché era pieno zeppo di fogli di carta, stipati nei corridoi, sulle mensole, negli angoli, sotto i letti. Erano ricoperti da una grafia fitta e metodica, che non concedeva nulla a svolazzi di penna o a tratti dettati dall’impulsività.
L’uomo che abitava l’appartamento stava scrivendo su un nuovo foglio quando la sfera di luce balenò nel cielo e penetrò dalla finestra, rischiarando la casa a giorno.
“Devi attenuare la tua maestà, altrimenti perderò la vista e non potrò più svolgere il mio compito” disse l’uomo.
La luce calò. Dall’alone emerse la figura dell’angelo Uriele, coi biondi capelli sciolti sull’armatura d’oro e la spada fiammeggiante in pugno.
“Ora puoi vedermi” disse Uriele “ma se diminuisco la mia gloria è solo per magnanimità nei tuoi confronti; il tuo compito infatti è ormai concluso.”
L’uomo si tolse gli occhiali con lentezza e li posò sul tavolo.
“Presto il mondo finirà” continuò l’angelo “e dunque anche il servizio che ci hai reso avrà termine.”
“Posso domandare come pensate di porre fine a tutta la baracca? Intendo dire, a tutto il creato” si corresse l’uomo.
“I dettagli sono ancora da definire, ma sostanzialmente faremo arrivare qualcosa dallo spazio interstellare” disse Uriele.
L’uomo dovette dominarsi per restare impassibile. “Suppongo che non si tratti di una cometa o cose del genere; da secoli gli uomini immaginano che tutto terminerà in questo modo” disse, e indicò con un gesto vago una pila di fogli ingialliti vicino alla finestra.
“Ovviamente no. Stavamo pensando a qualcosa di diverso. Tipo un’enorme capra cosmica che inghiotta tutto quanto le si para davanti” rispose Uriele.
“Già immaginato” disse l’uomo, questa volta accennando col capo a un brogliaccio rilegato con spago che giaceva sulle mensole più alte della libreria.
La maestosità dell’angelo sembrò incrinarsi per un attimo. “Uh” disse Uriele. Poi riacquistò il suo contegno e aggiunse: “Se fosse un’ameba?”
“Già immaginato” disse l’uomo recuperando un manoscritto dalla cucina, “e parecchi anni or sono.”
“Un buco nero da spostare alla bisogna?” disse l’angelo.
“Niente da fare” rispose l’uomo.
“Una nube cosmica?”
“Già visto.”
“E se fosse senziente?”
“Già visto anche questo.”
L’angelo rimase immobile per qualche istante, poi la luce che lo circondava si fece rossa di fuoco e di rabbia. La spada mandò minacciosi guizzi di fiamma, mentre i bei capelli furono agitati da un vento tempestoso. La sua voce era quella di un tuono.
“Non è possibile! Mi vuoi dire che anche queste fini erano già state previste?”
“E’ così, sì.”
“Ma allora non riusciremo a porre termine al creato nemmeno questa volta!”
“Le regole parlano chiaro. Dev’essere qualcosa di totalmente e assolutamente inaspettato.”
“E allora come facciamo?”
“Non so che dire. Io il mio compito di archivista l’ho svolto” disse l’uomo.
L’angelo Uriele se ne andò in un tripudio di luce, più imbarazzato che arrabbiato.
L’uomo attese ancora qualche istante, poi emise un sospiro di sollievo e tornò a inforcare gli occhiali. Riprese subito a scrivere: il suo lavoro era prezioso e più scriveva più possibilità aveva che il mondo non terminasse. Anche se l’angelo non lo sapeva, trascrivere le varie ipotesi sulla fine del mondo da parte di letterati, poeti e scienziati occupava solo una minima parte del suo tempo. Per lo più inventava egli stesso nuovi scenari per la fine del mondo, in modo da prevenire la più ampia gamma possibile di idee proposte da Uriele.
Ed è così che il mondo continuerà, almeno finché qualcuno ne immaginerà la fine.


Lorenzo Trenti è giornalista pubblicista ed esperto di comunicazione.
È tra i fondatori del movimento
Flying Circus per i giochi di narrazione. Collabora con siti, riviste e manifestazioni del settore ludico.
Autore di giochi, ha pubblicato le raccolte
Aperitivo con delitto e Dopocena da brivido (entrambe edite da Delos Books) e, con Antonello Lotronto, Murder party. A cena con il morto (Castelvecchi Ultra); inoltre, nel 2016 ha scritto il manuale Sopravvivere a TripAdvisor (ed. Lupetti).

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