Flash

di Veronica Villa
Terzo classificato al IX Trofeo RiLL
[racconto presente nell'antologia Mondi Incantati, Novecento GeC, 2003]

L’uomo indossava un maglione di lana molto caldo, verde brillante, e jeans prescritti dalla moda, di un grigio canna di un fucile. Entrando portò con sé un soffio di aria fredda e pesante di smog. Chiuse accuratamente la porta e camminò in silenzio fino alla parete opposta. Cercò di mantenersi freddo, lo sguardo casuale. Era difficile, ed era così ogni mattina, eppure gli riusciva sempre, mantenersi freddo e guardare la receptionist con un'occhiata quasi distratta. Non sapeva dire se questo fosse un buon segno.

Si fermò davanti alla parete e senza esitazione infilò la mano nell'apparecchio per il riconoscimento delle impronte digitali. Attese, trattenendo appena il fiato, poi avvertì, come sempre, la lieve pressione dell’hypospray sulla pelle.

La porta scorrevole si aprì sibilando al centro della parete, e l’uomo entrò. La distesa di cubicoli bianchi che riempiva la grande sala ronzante e chiara gli era ben familiare. Con movimenti automatici raggiunse la propria postazione, un cubicolo piuttosto ampio con due scrivanie e una finestra, si sistemò davanti al terminale e lo accese. Mentre il sistema operativo gli presentava gli splash di tutti gli applicativi proprietari dell'azienda, l’uomo alzò lo sguardo e salutò con un cenno del capo il suo collega. Lavoravano nello stesso cubicolo da un anno, ma non ricordava di avergli parlato più di due volte.

Perché distrarsi dal lavoro non era consigliabile. Pochi minuti di conversazione e il software avrebbe certamente segnalato un calo di rendimento, e calcolato l'incidenza corrispondente sul ritorno di investimento. Distrarsi dal lavoro era molto difficile, anche volendo, per via dei continui input inviati dal programma, e per via dei ronzii silenziosi e opprimenti delle macchine. Distrarsi dal lavoro era impossibile, perché ogni volta allontanare la mente per osservare la stanza, o per guardare dalla finestra, o per cercare di ricordare un dettaglio, provocava una indistinta sensazione di panico. Forse era colpa delle pareti bianche e opache, o delle auto sempre ferme in fila sulla sopraelevata che passava proprio accanto alla finestra. Forse era colpa della stanchezza.

Il terminale lanciò l’applicativo della posta, e un lungo elenco di messaggi da evadere comparve sul monitor. Richieste di assistenza dai clienti. Per ogni messaggio aperto in sequenza, mentre il suo cervello leggeva e già iniziava ad elaborare automaticamente una risposta, il programma inviava pop up di suggerimenti, informazioni, link di supporto. Era diventato sempre più facile, tranquillizzante, quasi piacevole lavorare a quel ritmo. Leggi messaggio aperto, identifica pop up, leggi, apri documento, leggi parte evidenziata, ricerca lemma, leggi, scrivi, chiudi, leggi nuovo messaggi aperto. Il programma inviava suggerimenti in modo ritmico e quasi musicale. E così era il suono delle dita sui tasti, ipnotico. L’uomo lesse il primo messaggio, e la giornata iniziò a scorrere veloce.

Alle tredici, come sempre, passò l’addetto delle mensa a consegnare la barretta energetica e l’acqua microfiltrata. Metà razione consigliata di ogni nutriente, 5 minuti stimati per la pausa. Pausa, apparve sul monitor. L’uomo iniziò a scartare distrattamente la barretta, e sorrise appena al collega che stava facendo lo stesso. Ma mentre il suo sguardo tornava alla plastica dell’involucro accadde qualcosa di strano. I suoi occhi si bloccarono, chissà perché, su una spilletta dorata a forma di trifoglio che si trovava sul risvolto della giacca del collega. Allora la sentì chiara e intensa, la sensazione di panico. Cercò di distogliere lo sguardo, ma qualcosa nella spilla glielo impediva. Con grande sforzo alzò gli occhi fino ad incontrare di nuovo lo sguardo del collega. Anche lui sembrava in difficoltà. L’uomo avrebbe voluto dire qualcosa, ma non sapeva cosa, in effetti, non c’era nulla da dire. Si guardarono per un lunghissimo istante, gli occhi spalancati per il panico e il cuore che martellava. Poi l’uomo udì il bip del monitor, dove lampeggiava fine pausa. Allora l’uomo abbassò gli occhi, divise la barretta in due con uno schiocco, ne mise in bocca una metà, e masticando lesse il primo messaggio, che era comparso automaticamente. Il tempo ricominciò a scorrere veloce, e solo dopo un’ora l’uomo riuscì a liberare una spazio sufficiente nei percorsi mentali indotti dal programma, per ricordare l’altra metà della barretta. Senza staccare gli occhi dal monitor la prese e la masticò lentamente, per scivolare poi di nuovo nella totale attenzione al lavoro.

Passarono diverse ore e la luce divenne più fredda. Quando l’uomo chiuse l'ultimo messaggio e vide comparire la schermata finale fu quasi fastidio, quello che provò. Batch completato nei tempi previsti. A domani, lampeggiò il monitor. Gli applicativi si chiusero e il terminale iniziò la sequenza di spegnimento. L'uomo alzò gli occhi e vide che il collega se n'era già andato. Fuori era buio, e le auto procedevano con estrema lentezza sulla rampa. Si alzò, camminò fino alla porta, e di nuovo inserì la mano nell'apparecchiatura per il controllo delle impronte digitali. Questa volta non trattenne il respiro, e la pressione dell’hypospray arrivò quasi inaspettata, insieme ad una ondata di sensazioni confuse. La porta si aprì.

Il collega era appoggiato ad una parte dell’atrio, vicino all’uscita. Aspettava. Sorrideva, gli occhi abbassati. L'uomo si avvicinò, e insieme, in silenzio, uscirono all'aperto, dove si stendeva un ampio parcheggio sopraelevato. La serata era già umida e fredda.

“Una bella idea, ha funzionato” disse l'uomo girandosi a guardare il collega, i suoi occhi erano scuri e brillanti.
“Anche la tua, era tanto che non vedevo quel maglione” rispose il collega, piegando appena le labbra in un sorriso.
“Lo so.”

L’uomo salì in auto e la radio si accese. L’unico canale mandava il corso di Inglese, come ogni sera. Lentamente raggiunse la fine della coda sulla rampa, guardò l’ufficio, le luci spente, poi il collega davanti, sull’altra auto. Pensò allo stesso giorno, un anno prima, quando aveva indossato quel maglione l’ultima volta. Prima che la radio iniziasse ad avere un canale solo. Prima che il corso di inglese diventasse obbligatorio per rendere produttivo il tempo trascorso in coda sulla rampa. Solo un anno. Prima che la ditta applicasse il programma per la soppressione selettiva dei ricordi durante il lavoro. Un anno. Da quando erano stati a Dublino e Mark aveva trovato quella spilla dorata a forma di trifoglio per terra alla fermata del night bus, anche se era ubriaco e faceva così freddo. Quando con Lene aveva fumato un intero pacchetto di sigarette, seduti di notte sull'erba bagnata del giardino sul retro, a respirare il profumo dei daffodil. Solo un anno. Da quando si erano guardati negli occhi, tre paia di occhi febbrili, e avevano giurato di non dimenticarsi, qualunque cosa fosse successa, seduti in un angolo di un pub affollato, mentre hey hey my my usciva dagli amplificatori così violenta da fermare il fiato.

L’uomo guardò l’amico davanti a sé attraverso il buio e i vetri delle auto. Tolse dal portaoggetti le sigarette e ne imprigionò una tra le labbra. Rigirò tra le mani i fiammiferi. Erano passati tre anni da quando era stato sottoposto al vaccino obbligatorio contro la nicotina, e da allora non aveva più fumato, a parte quella notte a Dublino con Lene. Perché avrebbe dovuto farlo, poi. Eppure accese la sigaretta. Respirò profondamente il fumo, non ne sentì il sapore, e strinse più forte il volante tra le mani.
 

Veronica Villa è nata a Reggio Emilia nel 1974 e vive a Modena dal 2000. Nel 1998 si è laureata in Letteratura angloamericana all’Università di Bologna, con una tesi sulla fantascienza (“Immaginario e tecnologia nella saga di Star Trek”) e ha pubblicato un saggio contenuto nel volume “Star Trek - Il cielo è il limite” (ed. Lindau, a cura di Franco La Polla), che raccoglie gli interventi del convegno “The Star Trek Phenomenon and the Human Frontier”, tenutosi nel 1997 alla San Francisco State University. Attualmente lavora come traduttrice e consulente linguistica per una software house. Inoltre, scrive di cinema e di libri per Stradanove, settimanale digitale realizzato dal Comune di Modena.

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