Ponti

di Angela Di Bartolo
Terzo classificato al XV Trofeo RiLL
[racconto presente nell’antologia Cronache da Mondi Incantati, Nexus Editrice, 2009]


Terzo giorno avanti le calende di Luglio.

Demetrio carissimo,
Spero che questa mia, che ti invio tramite Quinto, ti trovi in buona salute. Perdona se vengo a distoglierti dalle tue incombenze, ma ho bisogno del tuo aiuto, del tuo consiglio, perché quel che mi accade mi sta facendo perdere il senno.
Erano le idi di Maggio quando è cominciato. Stavo andando al Pincio da Marco Lentulo per dargli lezioni di greco: Varo mi ha prestato a lui per un po’, forse gli deve un favore. C’era un che di diverso nell’aria, come un fremito, una vibrazione. Faceva caldo, sul Tevere il sole accecava. Mi fermai un istante sul Ponte Cestio, guardai le chiatte che risalivano il fiume, e fu allora che accadde. È una pazzia, ma questo io vidi, e che Giove mi fulmini se mentisco.
Perché il fiume si fermò, Demetrio. Si fece immobile come uno stagno, e nell’acqua, distintamente come in uno specchio, accanto alla mia immagine vidi quella di una giovane donna. Mi voltai: non c’era nessuno. Lei stava lì, al mio fianco nell’acqua, e mi guardava fisso. Un istante, e svanì.
Restai immobile, col cuore in tumulto, poi lentamente mi avviai verso l’Isola Tiberina. Davanti al tempio invocai Esculapio perché allontanasse i fantasmi da me, mi tuffai nella calca tra i sentori consueti di verdure e di garum, di sudore e latrina. Non riuscivo a togliermela dalla mente, quella donna: pallida, bionda come le donne dei barbari, una Germana forse, certo una schiava anche lei. Chi era? Perché il Padre Tevere l’aveva portata a me, quale segno volevano inviarmi gli dèi?
Ci penserò poi, decisi. Alla taverna di Asello scolai un bicchiere di Veietano, e a passo fermo imboccai la Via Lata.
Quando arrivai al Pincio ero di nuovo me stesso. Lessi Filita e Callimaco, mi sforzai di inculcare in Lentulo il ritmo rigoroso dei versi… Tu lo conosci, Lentulo: vanesio come un pavone, ottuso come una capra, troppo tirchio per comprarselo, uno schiavo istruito. E mentre quel beota togato massacrava gli esametri, di nuovo quell’ombra mi penetrò nel cuore. E lì rimase, sottile, misteriosa mentre correggevo le tavolette, mentre mangiavo in cucina, mentre passeggiavo nell’atrio. Mi parve persino di rivederla, tremolante nell’acqua della vasca, e l’idea di dover ripassare il Cestio per tornare a casa mi mise i brividi.
Lo ripassai, tra mille scongiuri e senza guardare l’acqua, ma l’ombra non mi lasciò, pallido sogno dentro i miei sogni notturni. Tre volte da dentro il cipresso udii il verso del gufo, tre volte sognai di rovesciare il sale.
L’indomani, per strada implorai il Padre Giove perché mi fosse propizio, e passai il fiume sopra il Ponte Emilio. La calca del Foro Olitorio mi inghiottì e mi trascinò per un tratto, arrivai tardi da Lentulo, faticai a placarne l’ira. Gli mentii spudoratamente lodando i suoi progressi e, quando mi congedò, disse che era molto contento di me.
Scesi al Tevere rosso nel tramonto. L’isola pareva navigare quieta, quasi disciolta da terra. Dal Ponte Emilio guardai verso il Cestio, e giurai a me stesso che mai più vi avrei messo piede.
Il giorno dopo uscendo di casa inciampai sulla soglia. Non c’era un filo di vento, i pini lungo la via si ergevano immobili. Un cane nero mi attraversò la strada.
Senza sapere come, mi ritrovai sul Cestio. Mi arrestai di colpo, la folla dietro di me mi sorpassò imprecando. Le orecchie mi ronzavano, non udivo più nulla se non lo scrosciare del fiume. Andai avanti, guardai dentro l’acqua.
E l’acqua si fermò, e accanto alla mia immagine riflessa vidi quella di lei, la giovane barbara. Ma lei non guardava me: fissava un oggetto tra le sue mani, e dopo un po’ si mise a parlare in una lingua sconosciuta, dolce come il nostro latino. Udivo la sua voce al mio fianco, velata, come al di là di un muro invisibile. Lei parlava e piangeva, e io stavo lì incapace di andarmene, turbato dal suo dolore, divorato dal desiderio improvviso di parlarle, di consolarla, di sapere tutto di lei. Lei mise via l’oggetto e mi vide. Sussultò, mi domandò qualcosa, forse voleva sapere il mio nome, e glielo dissi. Lei rispose: “Claudia”. Le chiesi se fosse una dea, o una ninfa o un’ombra dell’Ade. Lei scosse il capo, poi si voltò e scomparve.
Non trovai pace, quel giorno. Lessi distratto i carmi, nè mi curai di Lentulo: nella mia mente non c’era che lei. Per sette giorni mi fermai ad attenderla, affacciato dal Ponte Cestio, fissando il fiume che indifferente scorreva, odoroso di melma e di mare. Per sette notti sognai di lei, e mai la vidi sorridere.
Mancavano otto giorni a Giugno. Il sole ardeva, l’aria sapeva di ginestre, ma il Tevere era di un colore strano, simile al piombo. Come imboccai il Cestio udii un frastuono assordante, come il ronzio di milioni di api, e un sentore aspro, sulfureo mi prese alla gola. Esitai, avanzai, mi affacciai al parapetto. Il fiume si fermò.
Lei sospirò quando mi vide. D’istinto allungai la mano, le mie dita riflesse nell’acqua strinsero quelle di lei: un soffio gelido, un tocco lieve come l’ala di una farfalla. “Non te ne andare” sussurrai. “Chi sei?”, domandò lei, e tale fu la mia gioia nel comprendere la sua lingua che scordai ogni paura e ritegno. “Sono solo uno schiavo. Ma ti amo, Claudia.” Lei ritrasse la mano, le mie dita nell’acqua inseguirono le sue. “Ti prego, resta.”
E allora accadde qualcosa… qualcosa di inaudito, di impossibile. Nell’acqua, in un fragore di piena, riflessa dietro il volto di Claudia non vidi più la riva erbosa del Tevere, né le chiatte trainate dai buoi bensì una muraglia, alta, compatta come le mura dell’Urbe, e palazzi, e un ponte sul quale correvano, capovolti nel fiume, cocchi come non ne avevo mai visti: correvano come il vento, Demetrio, e io mi sentii venir meno perché, lo giuro su tutti gli dèi, quei cocchi si muovevano da soli. Mi sentii le ginocchia molli e mi aggrappai al parapetto, mentre Claudia fissava i templi riflessi dietro di me come se li vedesse per la prima volta. Nell’acqua la mia mano si serrò sulla sua.
“Lasciami” gridò lei. “Tu non esisti!”
Si divincolò e scappò via. Il fiume riprese a scorrere, l’orrenda muraglia svanì. Mi accucciai contro la spalletta, coperto di sudore gelato. Avevo ancora negli occhi quei carri infernali, negli orecchi quel rombo, nelle narici quel puzzo asfissiante. Sono pazzo, pensai. Dèi immortali, è dunque questo l’amore, perdere il senno fino a vedere cose che non esistono? O ci sono altri mondi che ci scorrono accanto, spaventosi e alieni?
Non so come riuscii ad arrivare da Lentulo. Cloe l’ancella si prese paura a vedermi: mi fece bere, mi asciugò il viso. Non riuscivo quasi a parlare. Per fortuna il mio allievo era indisposto, così diedi una mano ai servi in giardino. Mentre potavo i bossi e gli allori continuavo a farmi domande, ed erano tutte senza risposta. Passai una notte inquieta, turbata da sogni accesi.
Per un po’ non vidi più Claudia. Ogni giorno, incurante dell’ira di Lentulo, stavo lì ad aspettarla affacciato dal Cestio, ascoltando l’eterna voce del fiume, e dinanzi al suo incessante fluire pensavo alla vita che fugge, e alle innumerevoli vite nate e morte scorrendogli accanto: un breve istante, per poi dissolversi in fumo.
Anche quella sera, erano le calende di Giugno, mi fermai sul ponte. Vidi il sole incendiare il Gianicolo, vidi i templi accendersi d’oro e pensai ai suoi capelli, alla curva delle sue labbra e mi sentii bruciare. “Dove sei, Claudia?”, gridai. “Dimmelo e ti troverò, dovessi sfidare gli Inferi e il cielo!”
Un odore acre, un ronzio confuso, sovrastato da un frastuono di trombe. Il Tevere si fermò, si fece nero come la notte mentre luci violente chiazzavano l’acqua.
E in quel chiarore la vidi: stava seduta sul parapetto, le mani contratte sull’orlo, le gambe a penzoloni sul fiume. Mi sporsi d’impeto verso di lei, nell’acqua le mie braccia la afferrarono per la vita. “Non farlo” gridai.
“Perché?”, sussurrò.
“Magari tu esistessi davvero. Tu non sei come lui.” Udii il fragore dell’acqua, il suo odore mi riempì le narici. “Claudia, ti amo, come non ho amato nessuna! Non puoi amarmi anche tu?”
“Potrei amarti, fantasma gentile. Ma so distinguere fra ragione e follia.”
“Allora sii folle! Parla con questo fantasma, fingi per un istante che egli esista davvero!”
Lei esitò, e alla fine scese dal parapetto. Restammo a lungo affacciati sull’acqua. Mi disse cose che non compresi appieno, e altre che non compresi affatto. Mi disse dell’uomo che aveva amato e che l’aveva tradita, mi disse della sua città, e con sgomento mi accorsi che parlava di Roma. Nominò luoghi ignoti, strade e ponti che non esistono, persone sconosciute, usanze strane: un’altra Roma, un altro mondo. L’ascoltai tremante, le parlai della nostra Urbe corrotta e bellissima. La luna piena si specchiava nel Tevere, la stessa luna nel suo mondo e nel mio; un vento fresco da ponente portava l’odore del mare. Lei promise che sarebbe tornata.
Rincasai a notte fonda. Gli ospiti del padrone, che io avrei dovuto allietare recitando i poeti, se ne stavano andando, e Varo mi punì duramente, come mai aveva fatto prima. Disteso dolorante sul pavimento, la pensai al mio fianco. Pensai alle sue gambe nude, alle sue forme celate a stento dalla tunica leggera, e il desiderio mi lacerò la carne.
Da mi basia mille… Baciami, Claudia. Dammi mille baci e poi mille ancora, e intrecciamo le nostre mani e beviamo i nostri respiri e non pensiamo alla notte! Lascia ch’io t’ami, in questo mondo o nel tuo: sei tu il mio mondo, il mio cielo, il mio tutto.
L’indomani, da Lentulo, lessi i Greci come mai avevo fatto prima. Un fuoco mi ardeva dentro, i versi altrui davan voce al mio cuore.
Quando la rividi mi fece mille domande. Nell’acqua il ponte rombava coronato dai carri infernali. Risposi inquieto, e lei disse cose che mi riempirono di sgomento. Parlò di tempo e di spazio, di luce, dell’universo e di viaggi impossibili, poi tacque a lungo, e quel che disse alla fine mi trafisse l’anima: “Adesso so che esisti, e che ti amo e che non potrò mai averti. Dovevi lasciarmi andare. Vorrei non averti mai incontrato.”
Scoppiai in lacrime come un bambino. Risposi che non era la sola a soffrire, che lo sentivo anch’io questo vuoto dentro le viscere: “Pure, non vorrei non amarti. E se altro non posso avere mi basta la tua ombra nell’acqua… purché tu viva, Claudia!”
Lei ritrasse la mano, e disse nella sua lingua qualcosa che non compresi.
Da quasi un mese, al mattino o al tramonto ci vediamo sopra Ponte Cestio. Restiamo in silenzio, vicini, a tratti voltandoci l’uno verso l’altra sfiorando il nulla mentre i nostri volti nell’acqua si coprono a vicenda di baci. So che lei esiste da qualche parte, donna di carne sotto un altro cielo, e a volte sento la sua presenza accanto a me sul ponte: un fremito, un alito lieve, e supplico invano gli dèi di poterla vedere un istante sotto la luce del sole, di poterla un istante sfiorare.
E ora sono preso, Demetrio, preso senza speranza. E sono esausto, ché è un fardello più greve di quanto pensassi. Ho il terrore che tutto finisca, terrore e desiderio insieme, perché è un tormento, Demetrio. Vedere lei riflessa nel fiume, non più che un’ombra nel fiume, è una pena peggiore di quella di Tantalo.
Ogni giorno, incurante del dileggio dei passanti la aspetto, e guardo l’acqua correre via sotto questo ponte che unisce mondi diversi, destini diversi. Li unisce e li divide a un tempo, come il fiume, l’inarrestabile fiume che per un capriccio della sorte o degli dèi per noi si è fermato, e che ci ha presi entrambi, intrappolati nella sua rete. Continuo a farmi domande, e a non trovare risposte. Perché tutto questo? Quale dio avverso ha messo mano a un prodigio simile per lasciarlo incompiuto, per condannarci a viverlo, incompiuto, sulla nostra pelle? Padre Giove, è invalicabile questa barriera? Oh, possa io trovarti, Claudia mia luce! Possa raggiungerti in questo mondo o nel tuo, in questa vita o nell’altra! Possano passare i secoli, i millenni passare e ritrovarci qui, sulle sponde di questo fiume a intrecciar le mani, e a congiungere i nostri corpi e a divorarci di baci!
Vedi come sono diventato, Demetrio, io che mi vantavo di saper resistere a Venere! Io schiavo di Amore ben più di quanto sia schiavo di Varo, di Amore che è un ben più duro padrone!
Più volte ho cercato di liberarmi. Ho bevuto alla fonte di Esculapio perché mi guarisse, ho cercato la fattucchiera della Suburra perché mi desse consiglio, ma gli dèi son sordi, e i maghi non hanno risposte.
Perciò mi rivolgo a te, caro amico, a te che conosci i filosofi e indaghi i misteri della natura, a te che a lungo hai diviso con me l’alloggio dei servi nella casa di Cornelio Varo, prima che il destino ci dividesse. Tu solo puoi venirmi in aiuto, e se neppure tu puoi, mi sarà comunque di conforto una tua parola. Rispondimi presto, stasera. Varo si fermerà fino a notte presso il tuo padrone, il nostro Quinto lo aspetterà per accompagnarlo a casa: puoi darla a lui la tua lettera.
Se ti ho arrecato disturbo, Demetrio, perdona. Con te, sempre, è il mio affettuoso ricordo. Stammi bene.
Tuo

Vinicio

****


Demetrio posò la lettera.
“Che ne pensi?”, domandò Quinto con ansia. “Cosa sarà successo?”
Demetrio si strinse nelle spalle: questa lettera non chiariva nulla, anzi infittiva il mistero.
“Non so come ho potuto scordarmene” sussurrò Quinto abbassando gli occhi. “Se te l’avessi data subito, forse…”
“Non sarebbe cambiato niente” disse Demetrio. A certe domande, neppure i filosofi sanno dare risposta.
Vinicio. Vinicio allegro e senza segreti, Vinicio scomparso nel nulla ormai da otto giorni.
“Varo è furioso, ha giurato di marchiarlo a fuoco se lo riacciuffa… Forse è scappato davvero… Forse ha trovato Claudia ed è scappato con lei!”
“Forse” mormorò Demetrio.
Tacquero entrambi. Demetrio si alzò e accese la lucerna. Dal triclinio venivano voci e risate. Fra poco il padrone e i suoi ospiti, eccitati dalle musiche e dalle danzatrici, avrebbero bevuto Falerno fino a stordirsi. Fra poco, gemiti di amanti e poi il cigolio dei carri avrebbero spezzato il silenzio della notte di Roma: questa Roma così amara e splendida, generatrice di morte e di vita.
Demetrio guardò le ombre torreggiare sul muro, inquietanti, estranee.
Forse in un mondo diverso, in un’altra Roma, otto giorni fa una giovane donna è scomparsa nel nulla.
Forse in un mondo diverso, in un’altra Roma, Vinicio e Claudia stanno camminando insieme sulla sponda del Tevere, fra gli oleandri in fiore.


Angela Di Bartolo è nata a Bologna, dove vive.
Laureata in Scienze Politiche, lavora in Comune, come Assistente Sociale.
Appassionata di libri da sempre, ama il fantastico in generale e il romanzo storico.
Ha partecipato a svariati concorsi letterari, ottenendo spesso buoni piazzamenti.
Con “Ponti” si è classificata al terzo posto al Trofeo RiLL, nel 2009; inoltre, è stata fra i vincitori di SFIDA, altro premio bandito da RiLL, nel 2010 (con “Relitti”), nel 2012 (con “Nostos”
, per il quale ha ricevuto il Premio Speciale Lucca Comics & Games) e nel 2013 (con “La conquista”), tutti usciti nelle rispettive antologie "Mondi Incantati".
Con la Runa Editrice ha pubblicato l’antologia di racconti “Per altri sentieri” (2014), il romanzo breve per ragazzi “Nero” (2014) e il romanzo fantasy “La stagione del ritorno” (2015).
Il suo sito personale è
angeladibartolo.wordpress.com





 

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