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Intervista all'illustratore ospite d'onore di Lucca Comics & Games 2017
di Roberto Irace e Chiara Codecà
[pubblicato su RiLL.it nel febbraio 2018]
Con piacere proponiamo su RiLL.it l'intervista a Michael Whelan, celebre illustratore statunitense, ospite d'onore di Lucca Comics & Games 2017. Questa intervista è stata originariamente pubblicata nell'Artbook 2017 del festival; inoltre, corredava la mostra dedicata a Michael Whelan nel Palazzo Ducale di Lucca.
Ringraziamo per la gentile concessione gli autori, e inoltre Antonio Rama e Silvia Ceccarelli.
Michael Whelan, classe 1950, è uno dei più acclamati illustratori fantastici americani, specializzato in copertine per libri di fantascienza, fantasy e copertine di dischi. Nel corso degli anni ha legato il suo nome a grandi saghe della letteratura come quella della Fondazione di Isaac Asimov, "La torre nera" di Stephen King, "Elric di Melniboné" di Michael Moorcock e "I Dragonieri di Pern" di Anne McCaffrey, e ad autori come H. P. Lovecraft, Edgar Rice Burroughs o Robert A. Heinlein.
Nel 2009 è stato il primo artista vivente a essere inserito nella Science Fiction’s Hall of Fame, oltre ad aver vinto tutti i principali riconoscimenti dedicati all’arte fantasy (tra cui 15 Hugo Award, 3 World Fantasy Award, 13 Chesley Award) e aver ottenuto oltre trenta pubblicazioni sull’annuario SPECTRUM (celebre pubblicazione annuale dedicata all'arte fantasy e fantastica di tutto il mondo, realizzata dalla casa editrice statunitense Underwood Books, NdR).
Whelan è uno dei principali esponenti della corrente del cosiddetto imaginative realism. Le sue opere sono caratterizzate da colori brillanti e un “sense of wonder” unico nel suo genere.
Ci sono opera d’arte, copertine di libri o poster di altri autori che per te hanno rappresentato un’epifania? Un momento in cui hai pensato “questo è ciò che voglio fare”?
Sicuramente. Un autore che mi ha fatto sentire così è stato Frazetta, ma in momenti diversi autori diversi hanno rappresentato un traguardo da raggiungere. Quando ero molto giovane Chesley Bonestell, Edd Cartier, Ed Emshwiller e Richard Powers ebbero un impatto importante su di me. Poi, naturalmente, Jack Kirby e Steve Ditko alla Marvel, seguiti da Frazetta, Maxfield Parrish, Norman Rockwell, Robert Vickrey, Andrew Wyeth, e così via. Mi hanno influenzato tutti.
Hai passato la tua infanzia e parte della tua adolescenza cambiando casa quasi una volta l’anno. Tuo padre lavorava per dei progetti segreti nel campo dell’ingegneria aerospaziale. Immagino che questo ti abbia in qualche modo spinto verso un immaginario fantastico e visionario fatto di aeronavi e viaggiatori dello spazio. Quanto sono stati importanti e formativi quegli anni di continui spostamenti, spesso a contatto con strutture segrete? Cosa ti hanno dato?
Da che ricordo, dalle prime volte in cui sono stato "esposto" a fantasy e fantascienza, lettura e arte sono sempre andate di pari passo. Quando vedevo un film di fantascienza afferravo i pastelli e cercavo di ricrearne le scene a memoria; quando leggevo un horror cercavo di disegnare il mostro come descritto dall'autore, e così via. È sempre stato così, da quando ero molto giovane, quindi sono cresciuto trovandola una cosa naturale. I miei interessi sono sempre stati fantascienza, fantasy, eccetera. Argomenti immaginifici. Così, fin da piccolo gravitavo attorno alle cose a cui ho finito col dedicare la mia vita.
Nel corso degli anni ’50 e ’60 abbiamo anche vissuto accanto a basi missilistiche; ho assistito al lancio di missili, e a volte li ho visti esplodere o schiantarsi al suolo. Per un ragazzino era molto emozionante! Questo, e la fantascienza che vedevo in TV e al cinema all’epoca, mi davano l’impressione che fossimo a un passo dall’avere una colonia sulla luna! Sto ancora aspettando, purtroppo.
Continuare a cambiare casa ha sicuramente avuto un impatto su di me, nel senso che sono stato spesso il nuovo ragazzino nel quartiere, e questo mi ha spinto a cercare compagnia nella lettura e nel disegno, due cose che aiutavano anche a passare il tempo nei lunghi viaggi in macchina in occasione di ogni trasloco. In ogni nuova città cercavo immediatamente la biblioteca più vicina. La scienza mi ha sempre affascinato, ma i miei libri preferiti erano di fantascienza, fantasy e storie sugli UFO. Anche mio padre leggeva fantascienza, così c’era sempre qualche libro per me interessante in giro per casa.
Leggendo dei tuoi studi pare di capire che ad un certo punto tu fossi indirizzato verso una carriera medica. Cosa è successo, invece? Cosa ti ha spinto verso il mondo dell’illustrazione fantastica?
Fu la pressione esercitata dai miei genitori a portarmi verso gli studi di medicina. Volevano che facessi “qualcosa di serio”, una professione vera. Avevano l’impressione che l’arte andasse bene come hobby, ma che pochi riuscissero a farne un’attività professionale. Li ho assecondati, arrivando a studiare Neurologia e Fisiologia, ma a quel punto avevo già capito che l’arte era molto più divertente, così ho gettato al vento la cautela e mi sono dedicato agli studi artistici. Nello specifico, mi sono dedicato alle copertine di libri! E per pagarmi gli studi ho continuato a illustrare testi di medicina e a fare altri lavori.
Al contrario di oggi, con internet che ha annullato le distanze, allora era uso trasferirsi verso le grandi città per poter entrare in contatto con le agenzie e i vari editori, e tu decidesti di trasferirti a New York, dove ottenesti i tuoi primi incarichi come professionista. Cosa successe in quegli anni? Com’era la scena newyorkese e il mondo dell’editoria?
Beh, ancora a scuola avevo capito che se volevo lavorare nel settore avrei dovuto trasferirmi a New York. Negli anni ’70 ovviamente non era possibile inviare un file in digitale, e i servizi di spedizione veloce erano riservati a situazioni eccezionali come il trasferimento di organi o l’invio di importanti documenti legali. Visto che la maggior parte degli illustratori dell’epoca viveva nei dintorni di New York, gli editori non erano incentivati a lavorare con qualcuno più distante. E se un’immagine fosse arrivata danneggiata, o fosse andata persa? Inoltre, se avessero voluto dei cambiamenti – cosa che succedeva spesso – abitare nei dintorni consentiva a un artista di riprendersi l’opera, lavorarci sopra una notte o un week-end, e riconsegnarla in fretta. Abitare lontano avrebbe reso tutto molto più difficile.
Trasferirmi sulla costa est mi ha anche permesso di conoscere altri artisti e autori, visitare musei e gallerie. Avendo vissuto quasi tutta la vita a ovest, il trasferimento è stato un grosso cambiamento, e il clima è stato la differenza più grande!
Pensando a quegli anni e guardando all’editoria oggi, cosa ti viene da pensare? Quanto è cambiato questo mondo e come credi che un giovane Whelan dovrebbe muoversi oggi? Quanto è cambiata l’editoria?
Fa ancora libri. Ma tutto il resto è mutato radicalmente, a un ritmo quasi quotidiano. Il cambiamento maggiore ovviamente è che oggi è tutto digitale – anche se un artista lavora con tecniche tradizionali (come faccio io, per esempio), l’opera finita va inviata in digitale, non si sfugge. Si può dire che la tecnica dominante, oggi, sia proprio il digitale, in una forma o nell’altra. Ed è un cambiamento di cui sono particolarmente consapevole: la prima volta che sono stato giurato per SPECTRUM le illustrazioni realizzate con queste tecniche erano appena una manciata, dieci anni dopo erano molte di più. È anche un cambiamento di cui non posso lamentarmi, perché l’unica medaglia d’oro che la Society of Illustrators mi ha mai riconosciuto è stata proprio per un’illustrazione realizzata in digitale.
Un altro cambiamento importante è che la competizione, oggi, è globale! Quando ho iniziato a lavorare i miei concorrenti diretti erano i colleghi che vivevano in quella che chiamiamo la “regione dei tre stati”, ovvero l’area compresa tra New York, Connecticut e New Jersey. Le persone che condividevano i miei stessi traguardi abitavano in quella zona (ma va anche detto che anche la popolazione mondiale era quasi la metà dell’attuale). Oggigiorno si compete con il mondo intero. L’informatica consente all’artista di vivere a Shanghai, San Paolo, Londra o Lucca. Senza dimenticare il fatto che oggi si può imparare anche da video didattici di qualità eccellente, con il risultato che ottimi artisti sono in condizione di lavorare professionalmente a prezzi molto inferiori a quelli cui erano abituati gli artisti statunitensi.
In ultimo, le transazioni erano più semplici una volta. Potevo consegnare a mano un’immagine a un editore e uscire dall’ufficio con un assegno in mano. Liscio come l’olio! Ora è quasi impossibile: ci sono ordini d’acquisto, fatture, contratti, trasferimenti di diritti d’autore e, inevitabilmente, dichiarazioni dei redditi. All’epoca le aziende erano piccole, potevi familiarizzare con editori, editor e – quando c’erano – art director. Gli affari avvenivano a un livello più personale. Oggi sono poche le realtà che danno valore a quell’elemento di contatto umano, e non a caso sono le uniche con cui scelgo di lavorare.
Ad un certo punto hai incontrato il mondo delle fine arts. Un via di fuga da una certa routine negli incarichi e allo stesso tempo un modo per poter rappresentare le tue idee. Come avvenne questo incontro e cosa ti portò al cambiamento? Cos’è l’illustrazione e cosa sono le “belle arti” per te? Quanto è importante il ritagliarsi uno spazio personale dentro il lavoro quotidiano?
Professionalmente, è l'aspetto più importante della mia vita da artista. Per trent'anni l'illustrazione è stata tutto ciò a cui ho puntato, ma nel frattempo ho accumulato letteralmente decine - se non centinaia - di concept e schizzi basati su idee interamente mie, e ognuno di essi aspetta nei cassetti di essere trasformato in opere finite.
A partire dalla fine degli anni '80 non sono stato in grado di rimandare la realizzazione di questi dipinti, nati unicamente per comunicare le mie idee. Per alcuni anni li ho tenuti per me, appendendoli nella mia casa e nello studio. Poi il caso ha voluto che incontrassi il proprietario di una galleria interessato ad essi, e quando li abbiamo presentati il successo è stato immediato. Da allora ho avuto un certo numero di esposizioni personali o in coppia con altri artisti, e mi sono dedicato sempre di più a questo tipo di produzioni.
Illustrando mi è capitato raramente di trovare punti di contatto tra il mondo dell’autore e il mio, creando qualcosa che potesse servire contemporaneamente come copertina e come una dichiarazione di qualcosa che toccava la mia vita. I dipinti realizzati per me stesso sono più intimi, non devo fare concessioni di alcun tipo a terze parti o clienti. È liberatorio ma anche terrificante, perché il successo non è mai garantito. Quando dedico molto tempo a questo tipo di produzione lo faccio sapendo che potrebbero non trovare un collezionista interessato, e sono felice di dire che finora quasi tutti hanno trovato collocazione. So che può cambiare in un istante, sia perché viviamo in un mondo di cambiamenti al di là del mio controllo, sia perché - come sempre - ci sono nuovi artisti di talento grazie ai quali il numero di opere disponibili continua a crescere.
Come nasce una delle tue immagini? Quanto sono diversi gli approcci nel lavorare per dei libri, dei dischi o per uno dei tuoi quadri?
Cerco di non lavorare secondo una traccia prestabilita ma di lasciare che sia il concept iniziale a guidarmi. Il dipinto stesso varia notevolmente caso per caso e dipende non solo dalla tecnica ma anche dal mio stato d'animo riguardo al pezzo e da altre considerazioni. La maggior parte dei miei quadri sono acrilici, ma circa il 15% è dipinta ad olio, mentre il resto sono a grafite, pastelli ecc.
Ogni lavoro è un'esperienza unica. Si dice che Picasso abbia dichiarato che la sua arte non era che un altro modo per tenere un diario, e io trovo che sia altrettanto vero per l'illustrazione. Il background di ogni incarico è la consapevolezza che gli illustratori devono soddisfare le aspettative di molte persone diverse: l'autore, l'editore, gli editor, i fan e i lettori. Io cerco di non pensarci e di avvicinarmi a un libro semplicemente come lettore, per vedere cosa mi colpisce.
Dopo aver riflettuto sul testo comincio a mettere in ordine i dettagli e tutti gli altri fattori che ritengo importante catturare nella copertina. Butto giù un primo schizzo e continuo da lì. Per la maggior parte delle commissioni il procedimento è sostanzialmente simile: 1) Primi schizzi, 2) Schizzi più dettagliati, spesso rilavorando i migliori realizzati nel passaggio precedente, 3) Uno studio del layout generale, in bianco e nero o a colore, 4) Una bozza realizzata a colore, e, infine 5) La versione definitiva.
La mia illustrazione ideale è quella che funziona altrettanto bene sia come copertina di un libro, sia come quadro. Non accade spesso. In generale non è molto divertente realizzare copertine per album musicali, perché i gruppi e le altre persone coinvolte tendono a iper-dirigere; non ho mai incontrato un musicista che mi dicesse solo di "ascoltare la musica e fare ciò che voglio". La maggior parte di loro ha idee che non sono entusiasta di dipingere, ad essere onesti. A questo punto della mia vita posso dire di no. Nella mia carriera ho fatto centinaia di dipinti, se non c’è proprio nulla che possono scegliere è difficile convincermi a fare qualcosa che non suona per nulla divertente.
La cosa che preferisco è quando uno dei miei dipinti da galleria si rivela adatto a un libro. A volte sono stato incaricato di fare copertine per libri che non sono ancora stati scritti, cosa che ha reso le cose molto più facili: l'autore può inserire nella storia dettagli inclusi nella mia opera, garantendo la vicinanza tra storia e immagine.
Il tuo stile è molto realistico: fai uso di referenze fotografiche, modelli o altro?
Le mie fantasie e i miei sogni non somigliano all’opera di Mirò o Picasso, sono più simili a Dalì, Ernst, Helnwein o Magritte… Quindi sì, lavoro in modo realistico. E visto che molti dei miei soggetti sono di fantasia, uso dei modelli o poso io stesso (nel mio studio c’è un grande specchio). Questo succede una media di due volte ogni cinque opere. Dipende, ovviamente. Anche dalla luce. Ma oltre metà delle mie illustrazioni preferite sono state fatte senza modelli: Stormbringer, The White Dragon, Dragon Aboard, The Wilding, The Way of Kings, tutte le illustrazioni per La Torre Nera ecc.
Realizzare modellini da copiare è un impegno oneroso in ogni senso, e credo di non averlo fatto più di tre volte nella mia carriera. So di artisti che utilizzano programmi di rendering in 3D e che ne parlano molto bene. Se avessi il tempo di imparare a utilizzarli come si deve probabilmente li proverei.
La serie di libri e le copertine musicali che più hai amato illustrare?
Ho creato centinaia di illustrazioni, è difficile scegliere. Di alcune opere ho un bel ricordo perché è stato particolarmente bello dipingerle, di altre ricordo con piacere la sfida di provare nuove tecniche, o il fatto che mi hanno portato dei riconoscimenti. Sceglierne una sarebbe come scegliere il figlio preferito, ma sono in grado di indicarne alcune che ho amato particolarmente, e altre che considero tra i miei lavori peggiori.
Senza entrare in dettagli, le immagini che preferisco includono, tra le altre, The Snow, Queen, Amazons, Chanur’s Homecoming, Shonto’s Garden, il ciclo della Fondazione e la serie de La Torre Nera.
Quasi tutti i dipinti realizzati per esposizione in galleria sono tra le mie opere preferite.
Guardando le tue illustrazioni horror mi viene in mente un autore con il quale hai collaborato, e che come te evita di usare il sangue o le situazioni gore per spaventare il lettore: Stephen King, per cui hai illustrato il primo e l’ultimo libro della serie "La Torre Nera". Come hai affrontato questo lavoro e qual è il tuo concetto di horror?
Con il genere horror ho un rapporto conflittuale: capisco l’utilità della catarsi, ma l’idea di utilizzare le mie risorse e il mio talento, per quanto piccoli, per portare ulteriore negatività nel mondo non mi piace. Con il terrorismo, la tensione crescente causata dalle disparità sociali ed economiche, con il nucleare come ago della bilancia di un equilibrio di poteri basati sul terrore – senza contare i crimini di tutti i giorni, causati da pazzi di ogni tipo e terribili incidenti – ecco, considerando tutto questo, perché gli artisti dovrebbero aggiungere altro? Lo squallore delle prime pagine dei giornali non basta? Non ho mai capito perché la gente va a vedere i film horror più sadici, per esempio.
Eppure persino io apprezzo un giro sulle montagne russe, cosa che può sembrare contraddittoria. Non so spiegarmelo. Ad ogni modo, nel mio lavoro cerco di tirare una riga tra “repulsione” e “paura”. La seconda presuppone implicitamente suspense, l’attesa di qualcosa, cosa per me molto più coinvolgente di una scena splatter. Ho fatto un paio di immagini più esplicitamente horror, ma non di più. Preferisco rappresentazioni più suggestive, meno dirette. Il mio scopo primario è stimolare un’emozione. Creare vera paura tramite un’immagine è molto, molto difficile. Anche perché oggigiorno siamo più abituati al timore che ci provoca la musica d’atmosfera, un medium diverso. Farlo solo tramite un’immagine sembra quasi impossibile. In sintesi, visto che non ho un tempo infinito davanti, non mi dedico più a immagini horror. Voglio usare il tempo che mi resta per dipingere mostri o affrontando temi di sostanza?
In La Torre Nera ci sono scene davvero raccapriccianti. La fine di Walter (nel settimo libro) è una delle descrizioni più orribili che io abbia mai letto, eppure non riuscivo a staccare gli occhi. Ora è incisa nella mia testa, e non riuscirò mai più a mangiare bocconcini di mozzarella - hanno esattamente le dimensioni di un bulbo oculare. Ugh!
Fantasy o Fantascienza? Quale di questi due generi ti affascina di più e su quale dei due lavori con più interesse?
Amo la varietà, e cerco di dimostrarlo nella mia carriera. Quando mi chiedono cosa mi ispira o influenza di più, la risposta più comune è: “il dipinto che ho appena terminato”. La ragione è semplice, ed è che continuo a rimbalzare dall’ultimo lavoro appena terminato al prossimo venturo. Fa parte del mio carattere. Mi annoio facilmente e non mi piace ripetermi. Quando mi “etichettano” come artista di genere, mettiamo di fantasy, finisco col ricevere solo commissioni per opere di genere fantasy, e questo è noioso. Arrivo al punto in cui farei di tutto pur di non dover dipingere l’ennesima spada o un altro castello o drago.
Dai primi anni ’90, da quando ho cominciato a esporre in galleria, ho cominciato a dedicarmi sempre più a quel tipo di lavori (cioè ai dipinti basati su idee interamente sue, vedi precedente domanda sulle "fine arts", NdR). Oggi guardo all’illustrazione di libri principalmente come a un diversivo, ma non riesco a starci lontano a lungo. Continuerò a occuparmene finché continueranno a propormi libri a cui non saprò resistere.
Nel corso della tua carriera hai vinto molti premi, a quale sei più affezionato e perché?
Santo cielo, come potrei scegliere? Sono tutti splendidi incoraggiamenti. Senza dubbio la prima volta che ho vinto il premio Hugo è stato un momento speciale, non avrei mai immaginato che sarebbe capitato. Essere inserito nella Hall of Fame della fantascienza è stata un’esperienza commovente e gratificante. I premi Locus, SPECTRUM e Solaris hanno tutti un significato particolare per me, perché tengo in grande considerazione l’opinione dei votanti che li hanno assegnati.
Vuoi parlarci delle tue tecniche? Ad esempio, preferisci l'arte digitale o gli strumenti tradizionali?
Raccontare in dettaglio le mie tecniche basterebbe a riempire un libro. Su quale media, su quali strumenti, potrei concentrarmi in dettaglio? Per ognuno si dovrebbe parlare delle diverse superfici, dei pennelli, dei solventi, ecc. È un campo troppo grande e con troppe variabili per affrontarlo, temo. Sul mio sito cerco di dare più informazioni possibili sulle variabili delle tecniche che uso.
Personalmente non amo lavorare in digitale per una serie di ragioni: prima di tutto non sono mai riuscito a calibrare uno schermo in modo da assicurarmi la stessa resa sul computer di un altro, o in stampa. In secondo luogo, non mi sembra pittura. Non c’è acqua, né colori con cui giocare liberamente, o da cui essere stupito quando un “incidente fortunato” porta effetti inaspettati. Sento la mancanza dell’elemento tattile della pittura, della possibilità di far scorrere la mano sulla superficie dipinta avvertendo il lavoro stesso al di sotto.
Come molti altri, all’inizio anch’io sono stato catturato dalla possibilità di infiniti editing promessi dalla tecnologia digitale. A questo scopo ho investito nel miglior computer possibile, ma il sogno si è realizzato solo in parte. Oggi, dopo anni di esperienza, posso dire di considerare il digitale sopravvalutato. Il difetto principale, per me, è il tempo necessario per usare il mezzo al meglio. Non solo vanno messe in conto le lunghe ore indispensabili per acquisire competenza nel software, ma non bisogna scordare che si lotta costantemente contro gli errori di sistema (più frequenti di quanto si pensa), la necessità di costanti update, le incompatibilità, i costi di manutenzione. Tutti elementi che portano via altro tempo e che sembravano allontanarmi sempre più dal mio scopo, cioè produrre arte.
Concettualmente non ho nulla contro l’arte digitale: computer e software sono strumenti come tanti, con i propri limiti e i propri punti di forza, e come tali possono essere molto divertenti e di grande ispirazione. È solo che, alla fine dei conti, preferisco che il risultato dei miei sforzi sia un dipinto, non una serie di 0 e 1. Io limito il digital painting quasi unicamente agli schizzi e alle bozze per impostare la prospettiva. È una tecnica in cui non sono molto bravo, e provo la più grande invidia per gente come Justin Sweet e Todd Lockwood, capaci di creare opere in digitale virtualmente indistinguibili dai loro dipinti ad olio! Forse un giorno mi deciderò a seguire un corso, imparando quali strumenti mi servono e come usarli.
Osservando i tuoi lavori si avverte un sense of wonder fatto di realismo, simboli e infiniti dettagli. Un racconto dentro il racconto, come se il solo illustrare una situazione non bastasse. Come nasce questo desiderio?
Frank Kelley Freas diceva che lo stile è dato dalla somma degli errori abituali di un artista. Se ho uno stile posso affermare che non esiste per scelta cosciente, ma è qualcosa che raggiungo cercando la soluzione migliore per una data storia o tema. Allo “stile” sono arrivato per caso o cercando il modo migliore di usare gli acrilici, colori insolubili su cui si può dipingere senza timore di perdere lo strato inferiore. Potremmo dire che utilizzare questi colori abbia influenzato il mio modo di avvicinarmi alla pittura, e immagino che sia questo che la gente chiama il mio “stile”. Ma devo dire che quando mi trovo in mezzo a una mostra delle mie opere ho l’impressione di vedere il lavoro di tre persone diverse, tanto spaziano per media e soggetti diversi - nature morte, figure umane dipinte dal vivo e altre nate unicamente dalla mia fantasia...
È una sensazione che mi piace.
Qual è la parte più difficile del dipingere?
La conclusione: capire quando un lavoro è finito è la cosa più difficile.