Un'altra vita

di Michele Piccolino
Quarto classificato (ex-aequo) al VII Trofeo RiLL

Quando arrivò lì dentro impiegò un po' a raccapezzarsi.
Provò a fare qualcosa. Stimolò una certa zona e percepì una risposta. Era una specie di immagine. Ma non veniva dai banchi di memoria, era ancora troppo presto per collegarsi a quelli. L'immagine proveniva da fuori la struttura. Dunque aveva sensi che gli permettevano di studiare l'esterno. Era già qualcosa.
Innanzitutto doveva stabilire tutti i collegamenti primari e capire come funzionava. Non era facile ma con un po' di tempo ci sarebbe riuscito.
Iniziò con il sistema motorio. Tentò stimolando una terminazione e attese. Un'appendice di lato si alzò. La osservò meglio con lo stesso sistema di prima: era pallida, con un giunto fisso nel mezzo, e terminava con altre cinque appendici più corte e sottili. Allora allacciò un collegamento stabile con quella parte perché era sicuro che gli sarebbe tornata utile.
Continuò in quel modo dato che stava andando bene.
Sollecitò un'altra terminazione che muoveva altre due appendici motorie. Queste non riuscì a sollevarle, c'era qualcosa che glielo impediva. Provò ancora. Sentiva che le estremità si muovevano un poco finché non incontravano un ostacolo. Non capiva. Forse non si era connesso bene. In fondo non aveva esperienza di cose del genere. Lasciò perdere e ritornò a concentrarsi su di sé.
Toccò un altro punto ed ebbe la percezione di una vibrazione. Anche questa aveva una fonte esterna. Ottimo, aveva scoperto un altro senso. Evidentemente la struttura ne possedeva più di uno.
Si predispose a studiare meglio l'ambiente intorno a lui, così avrebbe capito cos'era che limitava i suoi movimenti. Lo spazio intorno a lui era chiuso. Si trovava parallelo rispetto al piano, adagiato su un qualcosa di morbido. Indirizzò il senso visivo davanti a lui: c'era una coltre uniforme e spessa di colore scuro che più su, all'altezza delle due appendici che riusciva a muovere, diventava candida e più sottile. Non poteva percepire il resto della struttura, anche se sentiva attraverso i sensi che c'era ed era pienamente efficiente. Era evidente che questa doveva essere nascosta sotto quella coltre.
Provò allora a muovere una delle appendici inferiori spingendo verso l'alto e spuntò una sporgenza che spezzava l'uniformità di quella superficie. Sì, si trovavano lì sotto.
Decise di passare all'azione. Si sentiva già abbastanza sicuro del controllo che aveva raggiunto.
Con un gesto deciso afferrò un lembo della coltre che ricopriva la struttura e lo sollevò fino a spingere di lato tutto quanto. Gli arrivò allora l'immagine delle altre due appendici. Erano più lunghe e robuste. Provò a muoverle e notò che anch'esse erano divise in due parti giunte all'incirca alla metà da uno snodo.
Prima di avventurarsi nell'esplorazione dello spazio esterno decise che era meglio avere una cognizione più esatta della struttura. Per farlo adoperò una delle due appendici superiori che all'estremità aveva delle terminazioni molto sensibili. Passò l'appendice lungo tutta la struttura tastando qua e là. Quando ritenne di aver raccolto una mole sufficiente di dati si fermò a fare mente locale.
La struttura che lo ospitava era formata da una parte centrale piuttosto tozza da cui dipartivano in basso due appendici che terminavano con una base piatta; più su, appena il corpo centrale finiva, c'erano di lato altre due appendici, più piccole però. In cima, infine, c'era una specie di sfera in cui avevano sede buona parte delle terminazioni che aveva adoperato fino a quel momento.
Continuò ad agganciarsi a tutte le terminazioni che gli capitavano a tiro. Prima quelle principali, poi sarebbe passato ai banchi della memoria e del comportamento. Questi gli sarebbero stati certamente preziosi, ma non sarebbero serviti a nulla se non fosse riuscito a padroneggiare i movimenti della struttura.
Non aveva ancora capito come questa dovesse spostarsi. Magari strisciava come uno schifosissimo Wreton. Sarebbe stato molto più comodo se avesse volato, ma sul fatto non nutriva molte speranze. Non si sarebbe stupito se avessero scelto apposta la più disgraziata creatura dell'intero universo proprio per fargli dispetto.
Provò a darsi una spinta con tutte la appendici che aveva a disposizione. S'era fatto una mezza idea che proprio queste fossero deputate alla locomozione della struttura. Scivolò un poco di lato fino a quando il sostegno della base morbida sotto di lui venne a mancare. Si ritrovò sul piano, coricato di lato. Capì che quel pianeta aveva una dannatissima forza di gravità.
Era al punto di partenza. Ma doveva usare le appendici per muoversi, di questo ormai si era fatto una convinzione.
Si rizzò e si mise in posizione poggiando su tutte e quattro le appendici. Si mosse avanti e indietro con quel sistema, strusciando sul piano in maniera piuttosto scomoda, poi ci rinunciò. Era chiaro che la struttura non si muoveva in quel modo, se così fosse stato le appendici avrebbero avuto tutte quante la stessa lunghezza. Ed invece quelle più in basso erano decisamente più lunghe, e robuste. Fu quell'ultimo particolare a fargli balenare in mente un sospetto. E se la struttura avesse dovuto poggiarsi esclusivamente su quelle due? Certo, gli sembrava poco pratico affidare la stabilità di tutto quanto a due sole appendici, però non era da escludere.
Allora provò a rizzarsi su quelle due. Si aiutò con le altre due appendici, quelle superiori, aggrappandosi come poteva.
A dispetto di quanto credesse riuscì a mettersi dritto. Impiegò un po' a trovare un assetto soddisfacente, ma scovato il collegamento che comandava il senso dell'equilibrio trovò che stare eretto su quei due affari non era poi così difficile.
Si mosse un po' per aumentare il suo grado di sicurezza. Per quanto bizzarro, quel sistema di locomozione non era male. Non dava la possibilità di sviluppare una grande velocità, tuttavia pareva garantire un buon controllo. Provò a saltare e a flettere le appendici, compiendo gesti bruschi e violenti per vedere fino a che punto poteva spingersi, poi si fermò e prese a guardarsi intorno.
Adesso poteva rendersi conto bene dell'ambiente intorno a lui. Era di quattro lati, con due aperture verso l'esterno entrambe chiuse. Una di queste era quella da cui filtrava la luce: vi si accostò per guardare meglio.
Fuori c'erano quelli che sembravano degli edifici, piuttosto bassi e piccoli, gli uni attaccati agli altri. In basso c'erano strani veicoli che procedevano con una lentezza esasperante lungo un camminamento stretto. Ai lati di questo c'erano delle creature che si muovevano sulle appendici inferiori, proprio come la sua struttura. Lasciò perdere quella visione e ritornò a concentrarsi su se stesso.
Una volta padrone del sistema motorio doveva procedere con il collegamento al secondo livello, quello più profondo e complesso. Incominciò a collegarsi stabilendo connessioni a casaccio.
Venne investito da una massa enorme di dati. Troppe cose e troppo velocemente, tutto si confondeva nella uniformità di una mole di informazioni sconosciuta e, al primo impatto, incomprensibile.
Bloccò il flusso di dati e attese un po'. Doveva andarci cauto. Rischiava di collassare. Aveva sottovalutato la capienza e la potenza dei banchi di memoria della struttura. Per quanto inferiori, quelle creature erano comunque ben dotate.
Ricominciò da capo, stando attento a non farsi travolgere di nuovo dai dati in arrivo. In un attimo questi arrivarono portati da un flusso perfettamente gestibile.
Era un'esperienza ipnotica. Immagini, suoni, odori, pensieri, simboli, desideri, sensazioni, ricordi, sapori, astrazioni, sentimenti, sogni si accavallavano nella sua mente per poi ritornare ognuno al posto proprio. L'importante era riuscire a categorizzare le varie informazioni e comprendere la loro provenienza per potere, quando fosse stato necessario, attingervi con facilità.
Ci prese gusto. Imparava in fretta. Aumentò il flusso, lasciò che i dati arrivassero più speditamente. Dopo i primi, le connessioni e le classificazioni erano più semplici, poteva permettersi di assorbirne una quantità maggiore in un tempo minore. Dopo un po' ritenne opportuno mettersi alla prova.
Si guardò intorno e si soffermò su quello che vedeva.
In un angolo c'era un oggetto adagiato contro una parete. Si avvicinò e lo prese. Era un violino. Il suo violino. O meglio, della struttura che lo ospitava. Ma quella distinzione era ormai inutile. La struttura gli apparteneva e lui sarebbe stato sempre prigioniero di essa. La pena comminata dalla Yordha consisteva proprio in questo.
Guardò ancora lo strumento musicale. Poi, con un gesto sicuro e familiare, se lo mise sotto il mento e, appena ebbe preso l'archetto, incominciò a cacciare delle note da quelle corde.
Il notturno di Chopin, pensò ascoltando quella melodia che le sue dita producevano da sole.
Posò il violino dove l'aveva preso. Si sedette sulla sponda del letto e si mise un attimo a riflettere.
Se voleva sopravvivere doveva continuare a vivere come la struttura aveva sempre vissuto prima del suo arrivo. Sapeva come fare, aveva tutte le informazioni necessarie. Solo così nessuno si sarebbe mai accorto della sostituzione. Non osava pensare a quale sorte avrebbe finito per fare se si fosse lasciato sfuggire qualcosa della sua reale natura. Probabilmente lo avrebbero ucciso. Oppure l'avrebbero ficcato in uno di quegli istituti, come diavolo si chiamavano, ah sì, manicomi. Rabbrividì al solo pensiero. Chissà quanti come lui erano stati scambiati per pazzi. Se avesse cercato, magari avrebbe trovato qualcuno del suo pianeta.
Forse però era meglio lasciar perdere. Troppo rischioso e complicato. Niente di più facile che quelli della Yordha scegliessero un pianeta differente per ogni condannato.
Quello che doveva fare era restare in parte, ritagliandosi il suo spazio, lasciando perdere le improvvisazioni e seguendo il copione che la struttura aveva sempre rispettato.
Anzi, doveva smetterla di pensare alla struttura come ad una cosa diversa da sé.
Lui era la struttura. Punto.
Quando ebbe abbandonato quei pensieri il suo sguardo incrociò i propri occhi riflessi nello specchio sopra il comò di fronte al letto.
Finalmente poteva vedersi. Si riconobbe. Il volto riflesso corrispondeva all'immagine depositata nei banchi di memoria.
Aveva dei bei capelli ondulati, come gli diceva sempre sua madre Pauline, i tratti gentili che gli venivano tutti dal ramo dei Koch, i suoi parenti di Stoccarda. Per fortuna non aveva preso il nasone bitorzoluto di suo padre Hermann. Gli occhi neri e vispi davano l'impressione di una intelligenza viva e sfaccettata.
Era strano pensare quelle cose. Adesso poteva contare anche sulle informazioni e i caratteri di un'altra personalità, quelli della struttura. Ormai gli appartenevano. Per il momento, percepiva chiaramente il confine che divideva il suo essere e quello che era stato della struttura, ma col tempo questo sarebbe diventato sempre più indistinto fino a quando non sarebbe scomparso del tutto.
Osservò ancora l'immagine nello specchio.
Il fatto di trovarsi all'interno di un ragazzo di quindici anni gli facilitava di molto le cose. Un ragazzo cambia, in fretta, e senza preavviso. Da un giorno all'altro si risvegliano in lui forze prima sopite, che nessun indizio poteva far neppure sospettare. Un ragazzo può diventare qualsiasi cosa. Era libero. Non poteva contare sull'esperienza di un individuo più maturo, aveva ancora molto da imparare. Ma questo era un vantaggio. Poteva crearsi un proprio bagaglio di esperienze cogliendole di prima mano, senza farsi ingannare dai pregiudizi acquisiti da un altro e semplicemente riversati in lui.
Sì, era veramente libero. E quella libertà l'avrebbe messa a frutto. Non fosse altro per fare un torto a quelli della Yordha che non ci avevano pensato due volte a bollarlo un criminale irrecuperabile e a scaricarlo come un rifiuto in quel mondo sottosviluppato. Gliel'avrebbe fatta vedere di che pasta era fatto.
Guardò la bussola magnetica che teneva sul comodino. Gliela aveva regalata suo padre quando aveva cinque anni. Ci teneva parecchio e la portava sempre con sé. Aveva preferito portarsela appresso invece che mandarla a Milano con tutta la sua roba.
I suoi erano in Italia e l'avevano lasciato lì a Monaco perché terminasse il Luitpold Gymnasium. Stava di casa presso uno zio, ma non ci si trovava granchè bene. A dire il vero un ragazzo di quindici anni raramente sta bene in qualsiasi posto. Troppa smania di crescere. E in lui questa smania adesso era diventata doppia.
Aveva una vaga idea di come impostare il proprio futuro, troppe incognite non glielo consentivano. Una cosa però la doveva fare subito: andare a scuola quella mattina. La vita doveva continuare a scorrere come se nulla fosse cambiato. Anche se era cambiato tutto.
Il sole di fuori era già abbastanza alto. Magari era già in ritardo. Al Luitpold erano severissimi, non poteva permetterselo. Non si sentiva in vena di inventare scuse fin dal primo giorno del suo arrivo lì. Per raccontare bugie bisogna sentirsi sicuri e lui sicuro proprio non ci si sentiva.
Aprì la porta e uscì nel corridoio. In casa non c'era nessuno a quell'ora del mattino. Suo zio aveva il turno di notte all'ospedale e non sarebbe tornato che verso l'ora di pranzo.
Guardò la pendola in fondo al corridoio. Erano le sette, aveva tutto il tempo per prepararsi. Ritornò in camera sua e si piazzò di fronte allo specchio.
Era un ragazzo curato, gli piaceva presentarsi bene alle persone. Le sue scarpe erano sempre lucide, il passo misurato e sicuro, i capelli ben lisciati. Avrebbe continuato a fare così. Almeno per un po', perché a lui queste cose proprio non interessavano.
Si vestì con calma, facendo attenzione ai particolari. Impiegò un po' più del solito a fare il nodo alla cravatta perché doveva ancora familiarizzare con i movimenti delle dita, però alla fine il risultato fu più che soddisfacente. Dall'armadio prese la sua giacca nera e se la infilò.
Questa assurgeva a simbolo di tutte le difficoltà economiche che la sua famiglia stava affrontando in quegli ultimi anni. Aveva bisogno di una giacca nuova, quella vecchia diventava ogni giorno più sbiadita, più unta, le cuciture sulle spalle si facevano vieppiù visibili e marcate. Non poteva chiederne una nuova ai suoi genitori proprio quando loro avevano lasciato la Germania dopo il fallimento dell'azienda del padre. Era già successo anni prima, ad Ulm, quando lui era soltanto un bambino.
A Milano speravano che andasse diversamente. A lui la lontananza dei genitori faceva molto comodo. Aveva tutto il tempo di impratichirsi con il suo ruolo senza destare sospetti. Così avrebbe ingannato anche quelli della Yordha che sicuramente avrebbero controllato tutte le fasi del suo inserimento.
Quelli speravano che facesse una brutta fine. Era fermamente deciso a deluderli.
Una volta pronto uscì di casa chiudendo la porta con la chiave che lo zio gli aveva lasciato.
La vista delle scale gli strappò un sorriso. Da quelle parti non sapevano niente di televettori e cose del genere. A dire il vero, era sicuro che quelle creature primitive ignorassero un mucchio di cose.
Appena in strada prese a destra e, dopo aver svoltato l'angolo, imboccò la Prannerstrasse che doveva percorrere tutta fino alla Felderrn halle. Poco lontano c'era il Luitpold Gymnasium.
Era primavera inoltrata, non faceva freddo. La gente si muoveva in fretta: le donne prendevano la direzione della Marienplatz dove c'era il più importante mercato della città; gli uomini raggiungevano il posto di lavoro; gli studenti si affrettavano a varcare la soglia delle proprie scuole temendo una ramanzina in caso di ritardo. Lui era tra questi ultimi. In effetti era tardi, doveva accelerare il passo. Era un peccato, avrebbe preferito indugiare di più nell'osservazione di quelle creature.
Nonostante la fretta però non poté fare a meno di notare alcune cose.
Innanzitutto i loro mezzi di locomozione. A parte qualche tram sferragliante nelle vie principali, erano esclusivamente a trazione animale. In strada giravano per lo più carrozze trainate da cavalli e biciclette spinte dal proprio conducente. Guardò in alto più di una volta ma non vide nessun mezzo volante. Non ce n’erano, i banchi di memoria non ne facevano menzione in nessuna parte però la cosa gli sembrava così assurda che stentava a crederci.
In secondo luogo le altre creature come lui. Non c'erano grandi differenze tra le une e le altre, anzi a lui sembravano a prima vista assolutamente identiche. Soprattutto doveva ancora capire bene la distinzione tra maschi e femmine. Sì, era chiaro che la riproduzione fosse il frutto dell'unione di due distinte creature, ma il sistema gli sembrava poco pratico. Per come la vedeva lui, un individuo bastava e avanzava per metterne al mondo un altro.
La distinzione tra bambini, adulti e vecchi era evidente che si basasse sull'età.
Le proporzioni tra le varie creature non variavano molto, lui era più piccolo di altri ma più grande di altri ancora. Insomma, le sue misure non rappresentavano un handicap. Anche perché sarebbe cresciuto ancora, concetto, quello della crescita, che lo sorprese non poco.
Infine gli edifici. Bassi, tremendamente bassi. Davano un'idea di fragilità e di vecchiume. Si stupiva che non crollassero con la semplice rotazione del pianeta.
Dopo un tragitto che gli parve interminabile giunse finalmente al Ginnasio. Gli ultimi studenti stavano entrando alla spicciolata sotto lo sguardo vigile e severo del preside che sorvegliava l'ingresso.
A occhio e croce, per quello che aveva potuto capire dai banchi di memoria, quella scuola lo interessava come l'anatomia dei frunz di Lorck. C'erano quelle due materie, Filosofia e Storia. Favolette per scemi. Per non parlare del Greco e del Latino. A chi mai potevano interessare due lingue astruse che ormai non parlava più nessuno? Roba da pazzi. E volevano farle studiare proprio a lui. Se lo potevano scordare.
Alla prima occasione avrebbe mollato tutto quanto e sarebbe passato a qualcosa di più interessante. Le discipline scientifiche, per esempio. Quello sì era pane per i suoi denti. Era ferratissimo in materia. Con le conoscenze che aveva poteva fare parecchia strada su quel pianeta di ignoranti. Sarebbe stato divertente. Sicuramente a quelli della Yordha la cosa avrebbe fatto poco piacere. Ma se ne sarebbe infischiato. Come aveva sempre fatto, d'altronde.
L'androne d'ingresso era piuttosto buio e puzzava in maniera indefinibile. Proprio sulle scale che portavano al piano superiore incontrò Hans Giebenrath, un suo compagno di classe. Questi a vederlo ancora fuori dell'aula rimase stupito.
"Buongiorno Bertie" gli disse prendendo fiato: Giebenrath aveva una gran pancia: "Stamattina sei in ritardo."
"Già, mi sono svegliato tardi. Succede" rispose evasivamente, senza neppure guardarlo in faccia continuando a salire a due a due gli scalini.
"Strano. Sei sempre così puntuale…", commentò affannosamente l'altro, che faticava a stargli dietro.
"Ecco, lo sapevo, il primo che incontro è un dannatissimo impiccione…", pensò infastidito.
"Te l'ho detto, succede. Ma adesso sbrighiamoci, perché non ho nessuna voglia di stare a sentire Reuss."
"Certo, certo…"
Reuss era il professore di civiltà classiche. Un tipo all'antica, come richiedeva la materia che insegnava. E maledettamente pignolo, quanto può esserlo solo uno che vive tra i libri di autori che disputano sui resti di civiltà morte da un pezzo.
Per fortuna la porta dell'aula era ancora aperta, voleva dire che erano in tempo. Appena entrarono il professor Reuss rivolse loro un mezzo sguardo di disapprovazione ma si limitò solo a quello. Poi chiuse la porta e si sedette dietro la cattedra.
Intanto lui si era piazzato nel suo banco, il quarto della fila centrale, e aveva cacciato fuori della cartella il taccuino degli appunti e la matita. Aveva sempre fatto così ed era giusto continuare a farlo.
C'erano tutti, quella mattina. Non c'era un banco vuoto. La nuca bionda di Lauscher era di fronte a lui come al solito e dietro di lui c'era sicuramente quel fanfarone di Kolb, poteva giurarci. Erano in ventotto in quell'aula e faceva un caldo incredibile.
Il professor Reuss prese il registro e incominciò a sciorinare l'appello. Era evidente che tutti fossero presenti, ma lui lo faceva lo stesso. Un maledetto pignolo, per l'appunto.
"Arnulf?", disse con voce stentorea il professore.
"Presente" echeggiò ad un angolo dell'aula.
Intanto lui aveva preso un fazzoletto e si asciugava il sudore sulla fronte e sul collo, poco curandosi che la cosa era alquanto sconveniente di fronte a tutti quanti. Ma tant'era, aveva caldo e il sudore gli dava fastidio.
"Blumen?", continuò imperterrito Reuss.
"Presente" fu la scontata risposta.
"Brien? Bürger? Calwer? Diestfellen?"
C'erano tutti quanti, tutti al loro posto. Che la facesse finita con quella litania stucchevole e passasse alla lezione, che a strazio non scherzava neanche quella, ma almeno era qualcosa di concreto.
"Ebërle?"
"Presente."
Naturalmente…
Doveva stare calmo e far buon viso a cattivo gioco. Non sarebbe durata troppo e lui aveva tutto il tempo che voleva. Una vita intera, addirittura.
"Einstein?"
Eppoi si sarebbe tolto un mucchio di soddisfazioni. Ne aveva bisogno. Il suo morale aveva ricevuto un brutto colpo con la condanna della Yordha. Che bastardi… ma gliela avrebbe fatta vedere… a loro e tutti quanti gli altri…
"Einstein? Albert Einstein?"
Si riebbe da quei confusi pensieri e alzando il braccio rispose:
"Sì, presente."

 

Michele Piccolino, classe 1972, vive ad Ausonia (Frosinone) con la moglie Giovanna e i figli Giuseppe e Giovanni. Avvocato, insegna presso la Facoltà di Economia dell’Università di Cassino.
Ha partecipato a molti concorsi letterari, di fantascienza e mainstream, riportando spesso importanti piazzamenti o vincendoli.
Con
Un'altra vita è giunto quarto al VII Trofeo RiLL, nel 2001; in seguito, è giunto in finale in svariate altre edizioni del concorso. Nel 2014 ha vinto il XX Trofeo RiLL con il racconto La Maledizione del premio Di Biasio Agresti Salottolo Illiano De Scisciolo” (che ha dato il titolo all'antologia Mondi Incantati di quell'anno).
Inoltre, con “Il Tocco di Roscia” è stato fra gli autori vincitori di SFIDA 2016, altro concorso bandito da RiLL.
Suoi racconti sono usciti in numerose antologie. Con le edizioni Tabula Fati ha pubblicato il romanzo “La Creatura senza nome” (2010) e le antologie di racconti mainstream “Il pettine lungo il fiume e altre storie improbabili” (2013) e “La guida spirituale e altre storie di Cavafratte” (2015).
Ha organizzato nel 2002 e nel 2003 il premio Douglas Adams, per racconti di fantascienza umoristica.

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