C'era una volta un poliziotto a Vicolo del Cinque...

intervista a Carlo Lucarelli
di Marco Fortini e Alberto Panicucci
[pubblicato su RiLL.it nel dicembre 2003]

Nella Giuria Nazionale dell’VIII Trofeo RiLL (ed. 2002) c’era, fra gli altri, Carlo Lucarelli, forse il più famoso giallista italiano, autore per di più di trasmissioni TV di grande successo, come Blu Notte e Blu Notte - Misteri Italiani.

Visto che l’inizio del lavoro per il suo nuovo romanzo ce lo ha “strappato” per questo 2003, siamo riusciti (almeno!) ad incontrare Carlo lo scorso 24 giugno a Roma, a Trastevere, per un’intervista a 360 gradi davanti a un rinfrescante tè alla pesca… eccovi il report di quella chiacchierata, che speriamo risulti più divertente dell’incontro in chat con i lettori di Repubblica.it, svoltosi in quegli stessi giorni.


(A) Vorrei iniziare con una domanda che mi pongo ogni anno, quando leggo i tanti racconti che ci arrivano per il concorso (soprattutto i meno belli, a dire il vero). Ecco: perché una persona scrive, qual è la molla che scatta e qual è la cosa che spinge a continuare, magari anche al di là del successo che si ottiene?

Ci sono un sacco di molle che scattano. Una volta si faceva questa riflessione rispetto alle scuole di scrittura: perché la gente dovrebbe mettersi a scrivere e frequentare una scuola di scrittura per imparare a farlo? (questo lo dicevano alcuni scrittori, magari un po’ altezzosi..).

Direi che possiamo fare questo paragone: è come giocare a calcio. Lo fai nel campetto sotto casa tua perché ti diverti e perché ti fa stare bene.
Scrivere è la stessa cosa, a tutti i livelli lo puoi fare per due motivi: perché è divertente e perché ti piace una storia, hai voglia di raccontarla e la racconti. Credo che la prima molla sia questa.
Se poi hai altri mezzi racconti la storia con altri mezzi, se hai quello della scrittura la scrivi.
E poi fa bene perché comunque è uno sfogo, un liberarsi di qualche cosa. E questo è un livello base.

Chiunque può mettersi a scrivere, il problema è il passo successivo: “Ritengo che quello che ho scritto, che mi è piaciuto e mi ha fatto bene, sia degno di essere letto da qualcun altro”.
Qui scatta l’altra molla che porta quasi tutti a scrivere, quella di raccontare una storia a qualcuno. Prima te la racconti poi, quando te la sei raccontata, non ti basta: sei un narratore e hai voglia di raccontarla a qualcuno, vedere che faccia fa quando gliela racconti. Qui scatta l’altro livello.
E’ un livello che dovrebbe essere però selettivo, cioè si dovrebbe pensare: “Io ho una storia in testa e l’ho raccontata a me stesso; ora la racconto a qualcun altro. E’ una storia degna dell’attenzione del poveretto che mi sta davanti?”

E’ ciò che più o meno succede quando, normalmente, si parla con qualcun altro. Se mi viene in mente una cosa che so già essere noiosa o sciocca non la dico neanche, perché me ne vergognerei.
Molte volte con la scrittura non scatta questo pudore perché c’è la mediazione della lontananza.
Questo ovviamente non vuol dire che uno non debba partecipare ai concorsi (nessuno può impedire ad un altro di raccontarti una storia, ci mancherebbe!). Prima ci vorrebbe però una selezione interiore, ci si dovrebbe dire: “Con che diritto ora io impegnerò il poveretto che si metterà a leggere la mia storia? Gli sto raccontando qualcosa in cui credo, io per primo?”

Il problema è che molti non credono in quello che scrivono. Spesso capita che alcuni scrittori, prima di darti un loro lavoro, te lo spieghino. E’ un po’ come se volessero dirti: “So che ci sono dei difetti, so che fa un po’ schifo, però tu prova a leggerlo così”. Tutto questo è sbagliato, significa non credere in quello che si è fatto.

In conclusione, tu mi chiedi cosa scatta. Tante cose. Soprattutto dovrebbe scattare una pura voglia, quella di raccontare una storia a qualcuno. Molti però hanno altri moventi, alcuni scrivono perché vorrebbero essere scrittori. Dopo le trasmissioni di Baricco, ad esempio, tutti volevano essere come lui; non volevano scrivere, non volevano raccontare una storia. Volevano semplicemente essere come Baricco.

(A) Alcuni studiosi hanno parlato, rispetto ai lettori, della “sospensione della credulità” (chi legge crede a quel che viene raccontato, anche se magari non è realistico). In un certo senso, adesso, tu stai dicendo che esiste pure la sospensione della credulità dello scrivente, non solo del lettore.

Esatto. Molte volte è così.

(A) Quindi un meccanismo perverso!

Sì. O meglio: un meccanismo che dovrebbe essere sorvegliato prima di tutto da chi scrive.

(M) Altrimenti scrivere rischia di diventare come la grata del confessionale: non vedi il tuo interlocutore, quindi parli a ruota libera.

Infatti. Si dovrebbe ricordare che pubblicare una storia non significa solo stamparla su un libro ma anche “renderla pubblica”, nel senso letterale del termine. Quello che hai scritto non è più un tuo puro divertimento, non stai più giocando nel campetto sotto casa tua. Altrimenti è come se andassi a fare una partita fuori e fossi il primo a dire: “Guarda che non ho fiato, sono scarso e non me ne frega neanche un granché. Gioco solo perché spero di andare in Serie A”. Questo è un errore.

Sicuramente l’avrete visto anche voi, io l’ho visto in tutti i concorsi in cui sono stato in Giuria: nei premi si chiedono cose specifiche, ma spesso arriva una caterva di roba che non ha nulla a che fare con esse. Io ho visto arrivare fumetti in un concorso per radiodrammi!
Questo vuol dire che chi ti racconta la sua storia non sta pensando a te, pensa esclusivamente a se stesso. Anche questo è un errore. E’ come se io ti volessi raccontare una storia in Italiano, ma tu fossi svedese. Vuol dire che non me ne frega niente di te che stai ascoltando… e uno scrittore non fa così.

(A) Per quanto riguarda lo scrivere, tu hai dei rituali? Dei posti in cui ti vengono le idee, un po’ come Agatha Christie, che pensava le trame dei suoi romanzi nella vasca da bagno?

Io ho un rituale molto semplice: quando devo iniziare una cosa reimposto la pagina del computer, quindi non è un granché come rituale. Potrei usare un foglio predefinito e invece no, mi metto lì a rimettere i margini tutte le volte che apro un file. E’ l’unico rituale.

Quando scrivevo da ragazzino, magari a mano, ne avevo altri, ma non me li ricordo neanche più.
Ho smesso perché quando ti capita di dover scrivere molto, e di viaggiare molto, scrivi dovunque, in tutti i modi, e alla fine perdi ogni rituale. Comunque non sono il solo ad averli persi… anche se mi piacerebbe fare come Stephen King, scrivere tutti i giorni alla stessa ora, ma non ci riesco.

So però che molti miei amici hanno i propri rituali.
Andrea Pinketts inizia un romanzo solo in un determinato giorno; non so, il 16 ottobre lui inizia il romanzo, se passa quel giorno non scrive più. Lui il 16 inizia il libro, scrive una cosa qualunque poi, quando gli viene in mente qualcos’altro, continua.

(A) La paura della pagina bianca, del cursore che lampeggia sullo schermo, è diventata un topos letterario. Esiste veramente?

Sì, sicuramente esiste. Però più che la paura della pagina bianca (in sé), è la paura dell’inizio.
Credo derivi dal fatto che l’inizio è gravato da una serie di cose importantissime. Di solito si parte dall’idea che la scrittura derivi da un’ispirazione che viene dall’alto, quindi scrivere è una specie di rituale sacro.
In realtà non è vero: quando cominci a scrivere, l’inizio non è mai un inizio, quindi la pagina bianca non è mai una pagina bianca.
Se io devo iniziare un nuovo romanzo so che l’inizio è la parte più importante, sia per me che comincio a scrivere, sia per il lettore che comincia a leggere. L’inizio però non coincide con la prima volta che metto la mano sui tasti, perché io comincerò a scrivere una frase qualunque che sicuramente poi cancellerò; inizierò con una roba molto bella che dopo non mi piacerà e che riscriverò quando sarò arrivato a metà…

E’ un terrore che c’è, ma teoricamente è un terrore assurdo. La pagina bianca non c’è mai, deriva da una pagina bianca mentale, che hai pensato fino a quel momento, e da una pagina sporcata, che esisterà da quel momento in poi. Però so che esiste, perché pensiamo sempre di fare una cosa che sarà definitiva. Invece uno dovrebbe pensare che non c’è mai nulla di definitivo finché l’editore non viene a casa tua e ti porta via il libro… fino a quel momento tutto quello che scrivi è in continua elaborazione, quindi come fai a dare un inizio a questo procedimento?

(A) E, arrivato alla fine di un romanzo o di un racconto, tu cosa fai?

Anche in questo caso mi piacerebbe avere qualche bel rituale. Alcuni ne hanno: finiscono, festeggiano, escono… Simenon faceva delle robe stranissime.
Io invece no, perché di solito consegno il romanzo talmente tardi che ho addosso l’editore che mi vuol fare a fette.
E quando me l’hanno tolto, quando il romanzo è finito, da quel momento in poi da una parte mi sento più libero ma dall’altra ci sto male. Da una parte è una forma di libertà, dall’altra di nostalgia.

Se il romanzo che hai scritto funziona, provi la stessa sensazione di quando hai visto un film o hai letto un libro che ti è piaciuto: continui ad avere nella testa i personaggi, te lo ricordi, magari la mattina dopo te lo ricordi ancora; ti piacerebbe che continuasse.
Se il romanzo che hai scritto funziona, quando lo finisci in testa hai questa idea: te lo ricordi e ti chiedi “Ah, se lo avessi fatto in quell’altro modo!”

(M) Stamattina ho comprato il tuo nuovo libro, "Il lato sinistro del cuore".
Nella prefazione tu accenni a qualcosa che mi sembra strettamente legato al mestiere dello scrittore, cioè alla compagnia aerea che ti commissiona il racconto. Un aspetto, quello del lavoro su commissione, che normalmente il lettore medio ha difficoltà a immaginare. Perché ancora oggi resiste quest’immagine quasi romantica dello scrittore?

[Ride] Perché noi stessi diamo sempre quest’impostazione romantica. Ma in realtà non è così.

Ciò non vuol dire che lo scrittore debba essere da noi quello che, spesso, è negli Stati Uniti. L’idea del “professionista all’americana”, del tecnico della scrittura, è sbagliata, non è esattamente questo il nostro modo di vedere. D’altra parte è sbagliata anche l'idea dello scrittore romantico, che scrive esclusivamente sotto l'Ispirazione, che più è difficile, più è individuale, meglio è. Non è vero.
Esistono anche i narratori di storie, che siamo noi, un insieme di queste due cose.
La tecnica è importante, ma lo sono anche i motivi per cui racconti, cercando di fare letteratura.

C’era un grande narratore, Giorgio Scerbanenco, che diceva: Per scrivere basta averne voglia, come stirare: se non ne hai voglia lo fai male, se ne hai voglia lo fai bene.
Questa affermazione contiene l’idea che lo scrittore pensa sempre allo scrivere, non si siede e all’improvviso viene colpito da un fulmine. In tutta la tua vita, più o meno, pensi a delle storie e molte volte lo spunto ti può arrivare da qualunque parte.
Come è legittimo che, chiacchierando qua, uno di voi racconti un fatto e questo mi faccia venire in mente una storia che poi scriverò, allo stesso modo è legittimo che ci sia qualcuno che te lo chieda. Arriva e ti dice: “Vorresti scrivere una storia sui pesci?”
Tu non ci hai mai pensato prima ma, se fa parte delle tue cose, se ce l’hai in testa, allora racconti una bella storia sui pesci; che te l’abbia commissionata qualcuno non fa nessuna differenza. Se non ce l’hai in testa e la scrivi lo stesso, sarà una brutta storia sui pesci.

I racconti sono quasi tutti su commissione, perché è raro che ci si svegli la mattina e si scriva un racconto, hai sempre delle limitazioni. Se partecipi a un concorso ti devi attenere ad un genere e ad un numero di battute; se ti chiede qualcosa un giornale non puoi consegnare 100 pagine.
Molte volte questo avere dei paletti stimola la fantasia, è come se ti chiedessero qual è il film più bello che hai mai visto... sarebbe difficile rispondere. Se ti chiedessero invece qual è il film di fantasmi più bello che hai visto, sarebbe più facile: avresti il “territorio di caccia” in cui andare a cercare la più bella storia di fantasmi che ti viene in mente.
Molte volte, il fatto che venga imposto un paletto indirizza la fantasia su una strada; l’importante è che uno sappia qual è il finale a cui arriva la sua fantasia.

(A) E, direi, "Il racconto", che chiude questa raccolta, sembra proprio fatto su commissione: una sola stringata pagina… ma è geniale.

[Ride] Quello l’ho scritto per un concorso… un concorso in cui il racconto doveva stare in una cartolina postale, quindi avevo solo trenta righe di spazio, o meglio: io ero riuscito a farci stare trenta righe. Così mi è venuta in mente quella storia… se non me l’avessero chiesta, non mi sarebbe venuta in mente!

(M) Scendiamo invece più nel tecnico: si sceglie il genere che si scrive? E tu, hai scelto di scrivere gialli?

No, io credo di no. Non lo scegli. E’ come per il lettore, che non sceglie il genere di libri che gli piacciono. Scegli i libri che vuoi leggere, però non scegli il genere che ti piace. Dopo un po’ che leggi ti accorgi che preferisci una storia ad un’altra e, se poi ti chiedono perché, puoi anche metterti seduto a razionalizzare. Puoi dire che ti piace il modo in cui viene raccontata, che ti piace la sensazione che ti dà o che in questo momento ritieni importante sentirti raccontare certi argomenti.
E’ identico per chi scrive. Dopo un po’ che si scrive ci si accorge di scrivere determinate cose. Quando ci si ferma a pensare perché quelle e non altre, ci si risponde che si amano quelle storie, che in questo momento il noir, il genere serve a raccontare la realtà… e a quel punto la domanda non è più “perché scrivo quel genere là?”, ma “perché non scriverlo?”.

Sarebbe negativo, invece, dire: “Io sono un autore di gialli perché vanno di moda”. E’ sbagliato far prevalere, “a forza”, certi indirizzi, certe impostazioni.

Lo stesso discorso vale anche per i concorsi. C’è un molta gente che fa tutti i concorsi. Io non farei mai un concorso, che so, di racconti d’amore: non mi vengono in mente, non saprei come farli, non sono adatto. Però, l’avrete visto anche voi, ai concorsi arriva una quantità enorme di roba e di alcuni ti chiedi proprio perché l’hanno fatto.
A me, ed esempio, è capitato di leggere un racconto inviato ad un concorso “generico” e di rileggerlo, con due morti dentro, ad un concorso di gialli. Era esattamente lo stesso, semplicemente modificato e con un commissario dentro.
Non è che tutto valga tutto. Non si può scegliere il genere: se non è il tuo, non lo fare. Chi ti obbliga?

(M) Qualche tempo fa, nella prefazione de "L’almanacco del delitto", un’antologia di vecchi racconti gialli italiani della Sellerio, ho letto questa affermazione di Savinio, che mi ha colpito molto: “il giallo italiano è assurdo per ipotesi”. Tu cosa ne pensi?
E, secondo te, chi è il primo giallista italiano?

Prima di tutto, l’affermazione di Savinio era sbagliata.
Lui si riferiva al teatro giallo e sbagliava in pieno anche su quello.
Savinio ha scritto cose bellissime, ma in quel caso si era proprio bevuto il cervello, perché ha lasciato un’eredità dannosa. Ha fatto in modo che ancora adesso, ad esempio alla Bonelli, si pensi che dire “Mani in alto Frank!” sia più bello che dire “Mani in alto Francesco!”
Non è vero. Quindi ha davvero lasciato una brutta eredità.

Inoltre, quando Savinio scriveva quella frase, negli anni ‘30 credo, di fattacci ce n’erano tutti i giorni. Se avesse seguito la storia di Girolimoni, ad esempio, di un innocente accusato di essere un serial killer, di un poliziotto sbattuto lontano perché aveva scoperto il vero colpevole (che era un prete tedesco), allora solo quella storia gli avrebbe fatto capire che non è solo negli Stati Uniti che si ambientano i gialli, ma anche in Italia. Bastava che leggesse i giornali.

E’ vero però che il giallo classico è di tradizione inglese.
Agatha Christie è nata in Gran Bretagna e i suoi libri, con la polizia che indaga, con quella borghesia fatta in quel modo sono pensabili solo là, ma questo non vuol dire che anche da noi non ci fosse una letteratura che raccontava storie di questo tipo, come stiamo facendo noi adesso.
Quindi un noir italiano era possibile fin dagli anni ‘30. E’ chiaro che allora c’era il problema del regime, che lo impediva, ma dopo sarebbe stato possibile.

Per quanto riguarda, infine, il primo giallista italiano, mi sembra sia l’autore de "Il Cappello del prete"... ma non ricordo il nome (nemmeno noi!; NdM&P)

(M) Sellerio includeva tra gli autori dell’antologia anche Luciana Peverelli, che era in realtà una scrittrice di romanzi rosa. Ecco un’altra cosa che mi ha colpito: l’ingenuità di questi primi racconti e di questi scrittori italiani di giallo. Non sembravano molto convinti di quello che facevano nemmeno loro… non avevano le idee molto chiare e oscillavano tra Agatha Christie e l’hard-boiled school, senza provare ad esprimere una propria identità.

Secondo me uno dei primi ad essere concretamente un giallista italiano è De Angelis, che avrebbe potuto fare molto di più se non fosse stato ucciso dai fascisti.
Aveva iniziato un taglio che era molto “nostro”, con un commissario che non era un commissario che scimmiottava gli americani, ma era genuinamente italiano, con problemi tutti italiani. Avrebbe potuto continuare nel genere quello che, fuori dal genere, aveva fatto Gadda con "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana". De Angelis faceva quello, ma nel genere.

Il primo vero autore di noir italiano, però, è Scerbanenco. E siamo agli anni ’60, benché racconti cose che sarebbero potute accadere sicuramente già vent’anni prima.
Purtroppo c’erano un pregiudizio accademico (“questa non è letteratura, quindi non va scritta”) ed un pregiudizio di mentalità, secondo cui qui da noi certe cose non succedevano. E’ un pregiudizio, quest’ultimo, che è durato a lungo: ad esempio, a Bologna si è continuato a dire fino a Loriano Machiavelli che la città non era adatta per ambientarci dei gialli. Loriano era uno dei primi che lo faceva, poi a metà degli anni ‘80 siamo arrivati noi (qui Carlo si riferisce al gruppo di autori della zona bolognese, come Eraldo Baldini, Andrea Cotti, Gianfranco Nerozzi, Giampiero Rigosi e Simona Vinci, NdP), ma fino a quel momento si diceva: “Dai, è impossibile… a Bologna!”
Eppure, già dagli anni ‘70, e poi la strage alla Stazione, che avrebbe dovuto far pensare: “Se non le ambiento a Bologna queste cose, dove le ambiento?”

(M) Poi il giallo italiano ha assunto una coloritura per così dire municipale; è come se ogni città avesse un po’ le sue voci, forse a parte Roma, dove non sembra esserci ancore una “scuola”.

Beh, una scuola c’è anche a Roma, però essendo una metropoli si identifica meno facilmente come romana. Basti pensare ad autori come Di Cataldo, Santini e altri ancora.

(M) Per quanto riguarda invece le ambientazioni, perché molti tuoi romanzi si svolgono durante il Fascismo?

Essendo un momento storico che conosco (anche la mia tesi di laurea era sul Fascismo) mi è più facile raccontarlo; inoltre è un momento importante della storia italiana, non si può dimenticare. Lì ci sono le radici di realtà che viviamo adesso, molti dei nostri problemi vengono da quel passato irrisolto, quindi è interessante per me raccontarlo.
Poi c’è anche un risvolto esotico: è un modo per raccontare una storia proiettandola in un altrove molto riconoscibile e allo stesso tempo molto delimitato e connotato. E’ facile dare ad una storia un tocco di stranezza esotica ambientandola negli anni ‘30.

(M) E’ anche una sorta di rivalsa per tutti gli autori che non hanno potuto raccontare gialli proprio negli anni ’30?

Forse sì, anche. Ecco una risposta a Savinio: se i nostri libri funzionano, miei o ad esempio di Gori, allora vuol dire che Savinio si è sbagliato perché sono ambientati esattamente quando viveva lui.

(A) L’altro giorno ho sentito il tuo intervento alla trasmissione radiofonica "Atlantis", dove si parlava della letteratura del mistero. Tu dicevi che, nel tempo, in questo genere la soglia della paura è salita progressivamente, si è spostata verso l’alto, via via che si evolvevano le paure. Ma… se un giorno la paura finisse?

Sarebbe un problema. Non credo però che la paura finirà mai. Se finisse la paura vorrebbe dire che è finito il mistero, che conosciamo tutto. Sarebbe negativo, un po’ come se uno scrittore avesse la coscienza che quello che ha appena scritto è il capolavoro assoluto della sua vita e da lì in poi tutti i suoi libri saranno un po’ meno belli di quello. Sarebbe un dramma, significherebbe che dovrebbe smettere.
Qualcosa di simile vale anche per l’umanità: se ci dicessero che ormai sappiamo tutto non ci sarebbe più il mistero, senza il quale non si va avanti più di tanto.
Ma non credo che accadrà mai.

(A) Il tuo ultimo libro è una raccolta di racconti. Uno di questi è uscito anche su "Micromega", con cui hai collaborato più volte. E’ una rivista che negli ultimi due anni è stata anche un po’ sugli scudi… puoi parlarci di questa esperienza?

Beh, è stato importante. Conoscevo Paolo Flores d’Arcais, ma non approfonditamente, però quando mi hanno chiamato, prima per chiedermi un racconto, poi un’intervista, ho accettato con piacere perché erano sempre collaborazioni relative a temi che mi sembravano importanti, come la giustizia. Era il decennale di Mani Pulite.
Chi scrive non se ne sta certo lontano dal mondo: anche se scrivi romanzi (o romanzi di genere) vivi in mezzo alle cose. Se ti piacciono va bene, se non ti piacciono cerchi di rifletterci, magari scrivendo; un racconto pubblicato in un’antologia è semplicemente un racconto, pubblicato su una rivista che fa una specie di militanza diventa anche uno spunto di riflessione.

In realtà, però, quando si scrive si fa sempre la stessa cosa, non si fa nulla di diverso quando si scrive per una rivista come Micromega: ai fini del racconto non cambia nulla. Certo, io sono stato anche al Palavobis, ma questo va al di là della scrittura, ci sono andato come cittadino, per dire “ci sono anch’io”.

(A) Un’attività diversa dallo scrivere sono i programmi televisivi che fai da anni… come è nata l’idea di farli?

Mi hanno chiamato Carlo Freccero e Simona Gusberti, che volevano un programma sulla cronaca e volevano che a farlo fosse uno scrittore. E’ nata semplicemente così, io non ci avrei mai pensato.

(A) La puntata che hai amato di più tra quelle che hai fatto?

Ce ne sono tante. Una delle più belle è sicuramente quella sulla strage di Bologna, una di quelle che ci ha colpito di più. Anche quella su Ustica era una bella puntata o quella sulla Mafia, una delle ultime. Prima ancora c’è stata quella su Francesca Alinovi, un omicidio accaduto a Bologna… insomma, tante.

(M) C’è una puntata che non hai ancora fatto e ti riprometti di fare in futuro?

Beh, si ci sono tutte le puntate sui misteri vaticani che sarebbe stato carino fare, ma… [ride]

Ci sarebbe da vedere la storia più recente, come le stragi; ci sono anche una serie di piccoli casi di omicidi che non siamo riusciti a fare perché non avevamo sufficienti carte da guardarci. Vedremo se riusciremo a farli.

(A) Quello di scrittore è un lavoro che si fa da soli, invece un programma televisivo è anche un lavoro d’équipe, che sfrutta un mezzo che ha un suo stile e suoi tempi. Uno scrittore che va a fare televisione può incontrare quindi dei problemi, forse… tutto questo tu come l’hai vissuto?

In maniera non così drammatica.
Nel nostro programma la dimensione collettiva riguarda l’organizzazione del racconto, i filmati, le interviste... in questo caso il contributo degli altri migliora sicuramente quello che potrei fare da solo. In fondo è come fare una sceneggiatura, no? Tu fai una piccola parte e il resto passa ad altri.

Per quanto riguarda la scrittura pura, sono solo io che scrivo e poi racconto al pubblico quello che ho scritto. Non faccio niente di diverso dallo scrivere un romanzo… non saprei fare in un modo diverso: io racconto una storia esattamente come la scriverei per un racconto, l’unica differenza è mi fanno usare anche altri mezzi.

Inoltre bisogna essere un po’ più semplici, appena un po’, perché quello che ascolti è diverso da quello che leggi: in un romanzo avrei tanto spazio per descrivere un concetto, mentre in TV ne ho poco e devo essere certo di essere chiaro.
E’ questa l’unica differenza, perché la TV è talmente potente come mezzo di comunicazione da non potersi permettere di farla diventare ambigua: corri il rischio di dare una cattiva impressione o, ad esempio, di rovinare qualcuno per un semplice aggettivo (che magari, in un romanzo, potresti definire con altri quattro, dandogli così il giusto senso).
In televisione puoi usare un solo aggettivo perché dopo devi dire un’altra cosa. Questa è l’unica differenza rispetto alla scrittura.

(M) Forse esiste anche un passaggio successivo: uno scrittore di romanzi che fa televisione poi trae dal suo programma televisivo due libri, "Mistero in blu" e "Blu notte, misteri d’Italia". E’ un po’ un cerchio che si chiude?

Sì, forse è proprio così.

(M) Un passaggio più facile?

Sì, da una parte sì, perché ho ripreso lo stesso materiale. I testi li avevo scritti in una chiave più o meno letteraria, narrativa diciamo, e funzionano anche letti.
Manca invece tutta la parte delle interviste e dei filmati… e questo pone il problema di riuscire a rendere in una forma narrativa e originale qualcosa che normalmente vedi, come ad esempio un’intervista. E’ un tentativo che ancora sto facendo.
Ho scritto due libri tratti da trasmissioni televisive, e se ne pubblicassi un terzo cercherei di sperimentare di più in questo campo, mettendo anche le interviste, ma non trascrivendole e basta, cercando di trasmettere la “sensazione” che l’intervista comunicava.

(A) Una curiosità: all’inizio di "Blu notte, misteri d’Italia" parli di una lettrice, a cui dedichi, in modo bellissimo, il libro. Puoi dirci di più?

Non c’è molto da dire. E’ una bambina che, quando mi ha portato un libro da firmare, al Festival Letterario di Mantova, aveva fatto molta fatica, e si vedeva che non stava molto bene.
Il fatto che una piccola lettrice avesse fatto questa fatica (cercarmi, trovarmi…), e poi mi facesse firmare un libro dicendomi che le era piaciuto mi sembrava fosse una specie di simbolo del lettore, non quello semplice, che passa di lì, ma un lettore particolare.
Non ha detto nulla di speciale, ha detto semplicemente “Mi piace molto il suo libro”, ma in un modo che mi ha reso particolarmente felice.

(A) Torniamo al tema del “mestiere dello scrivere”… un esordiente, nel mondo del giallo o nel mondo letterario italiano, da dove deve iniziare, come deve fare per farsi pubblicare?

Dovrebbe scrivere meglio che può e poi cercare di farsi leggere. Sembra una sciocchezza ma è così.
Dovrebbe spedire quello che ha scritto, ma in maniera mirata, a concorsi, se ha scritto un racconto, oppure a editori o ad altri scrittori, scegliendo però persone vicine a quello che lui sta facendo: è inutile che chi ha scritto, ad esempio, un romanzo metropolitano lo spedisca a Sellerio, che non pubblica quel tipo di cose, come non ha senso mandare un noir storico a Fanucci.

C’era un editore, Marcos y Marcos, che secondo me faceva una giusta domanda: a chiunque gli chiedeva se poteva inviargli un proprio manoscritto chiedeva di citare cinque titoli che la casa editrice aveva pubblicato. Non saperlo significava che l’esordiente non sapeva cosa facesse Marcos y Marcos, quindi non aveva senso che gli inviasse qualcosa.
Questo consiglio vale per tutti, anche per gli scrittori. A me arrivano a volte manoscritti di poesia, con la quale non c’entro niente, non so dire neanche se è bella o brutta, non ne ho mezzi.

(A) E dei concorsi letterari tu cosa pensi, in generale?

Quando sono fatti bene funzionano.
Sono un buon modo per dare soddisfazione a chi scrive, per fargli dire “Io esisto” e sentirsi rispondere da chi lo ha letto “Sì, esisti”.
Quando sono seri sono un modo concreto per uscire dall’anonimato, per farsi vedere.
E poi, comunque, sono un modo per confrontarsi con la scrittura e il mondo esterno: hai scritto, hai mandato e hai un giudizio che devi accettare. Anche questo è importante.

In realtà, questo è un lavoro che dovrebbero fare le riviste e invece non lo fanno, perché qui da noi non ce ne sono tante, per lo meno conosciute. Alla fine qui in Italia la selezione, per uscire, per confrontarti, è affidata ai concorsi letterari o ai piccoli editori.

(A) Quest’anno tu sei proprio nell’organizzazione di un premio letterario collegato ad Arezzo Wave, un festival molto famoso in ambito musicale… cosa ci puoi dire?

E’ stato molto interessante, tutti i concorsi sono interessanti.
Lì sono arrivati tantissimi manoscritti, c’è stata una selezione e quelli rimasti alla fine erano belli… c’è un livello di scrittura abbastanza alto, in questo momento.

Il concorso di Arezzo Wave dimostra che due campi sempre considerati diversi, la musica e la scrittura, sono in realtà vicini. Chi ascolta un certo tipo di musica non è detto che non legga un certo tipo di letteratura, anzi molte volte chi ascolta musica come quella che c’è ad Arezzo Wave scrive.

Anche l’esperienza al Trofeo RiLL è stata interessante. E’ passato un anno, ormai, ma ricordo che anche in quel caso c’erano delle cose giuste.

I concorsi, penso, sono (anche) una testimonianza di quel che sta succedendo intorno a noi; consentono di vedere quello che c’è, che altrimenti si potrebbe scoprire solo leggendo i libri che sono in libreria, che però raccontano soltanto una parte minima del mondo della scrittura, non il mondo sommerso; i concorsi servono proprio a questo, a vedere cosa sta scrivendo e cosa sente la gente: sono un modo per capire cosa c’è sotto.

(A) Molti giurati del Trofeo RiLL, un anno fa, sono rimasti stupiti di quanto il tema della morte ricorresse nei racconti finalisti: protagonisti che erano dei morti, oppure persone che stavano per morire, non-morti che camminavano… secondo te questo riflette in qualche modo il momento che stiamo attraversando?

Non me ne stupirei, è uno degli argomenti più in voga. La letteratura fantastica o di genere serve sempre a raccontare l’inquietudine del momento, in un modo o nell’altro.

(M) E forse non è un caso che quest’anno sono aumentati i racconti “alla Blade Runner”, proiettati in un futuro da Grande Fratello, dove il lavoro è alienante, massificato…

Se vivi nel nostro mondo hai paura per quello che ci sarà, non sei sicuro del posto di lavoro, ti chiedi che succederà alle televisioni. Hai visto alcuni fatti e ti chiedi se non ci sia uno stato di polizia… Tutte queste paure passano anche nella scrittura, che diventa un sintomo rivelatore di quello che succede.

(A) Quest’anno non ti avremo in Giuria… perché stai iniziando il lavoro sul tuo nuovo romanzo, che ti porterà anche all’estero. Puoi darci qualche anticipazione? Quando uscirà? Di cosa tratterà?

Quando uscirà non lo so, devo ancora iniziare! Non ho una scadenza, quindi vedremo.

Sarà un romanzo ambientato in Eritrea nel 1895, durante il periodo del colonialismo italiano.
Avevo quest’idea di ambientare un romanzo da quelle parti da molto tempo e poi adesso è ancora più di attualità per fare una riflessione sul Nord e Sud del mondo: la guerra, il colonialismo, l’imperialismo…
Poi avevo in mente di scrivere un romanzo corale, di vari personaggi e mi piaceva immaginarli in una zona lontana, un po’ spiazzati, e vedere cosa facevano.

(M) Un’ultima domanda. So che ti interessi di musica, e questo traspare dai tuoi libri, che hanno spesso colonne sonore (penso ad "Almost Blue", un romanzo che si può anche ascoltare, ma anche ad altri, come quelli ambientati durante il Fascismo, dove ricorrono le canzonette del Ventennio).
Un nostro amico però ci ha parlato di un certo “Rap dell’Assessore” dove… TU canti!

[Ride]

(A) Carlo, come vedi qui c’è qualcuno che ha studiato!

Quando ero piccolino stavo in un gruppo, come tanti. Facevamo robe strane, era il periodo punk, ma c’è stato anche un periodo rap in cui abbiamo fatto qualche cosa senza essere dei rapper.
Uno di quei pezzi era appunto “Il rap dell’Assessore”, che prendeva soldi, tangenti… ma noi abbiamo fatto il pezzo il giorno prima che scoppiasse Mani Pulite, senza saperne nulla. Abbiamo fatto un concerto e la mattina dopo c’era sul giornale che avevano arrestato Chiesa.
Era un osservare la realtà, le mazzette le prendevano anche prima, noi raccontavamo quello che tutti sapevano.

(M) E il pezzo è reperibile?
Sì, purtroppo sì, perché fa schifo come le cose che facevamo noi.
Si trova su Vitaminic, assieme ad altre due cose assurde fatte da noi in tempi non sospetti.


Con questa imbeccata musicale (^___^) si chiude allegramente la nostra chiacchierata con Carlo Lucarelli, che ci saluta imboccando uno dei tanti intricati stretti vicoli di Trastevere, luogo ideale per la dimora di un giallista come lui o per storie di misteri, sparizioni e ombre (anche il 24 giugno, alle quattro del pomeriggio).

Cosa dite? Non abbiamo parlato del poliziotto e di vicolo del Cinque? Quelli del titolo?
Beh… continuate a leggere i racconti e i romanzi di Carlo Lucarelli: un giorno non lontano, magari, questo mistero vi verrà svelato. E, ovviamente, pensate a noi piccoli RiLLini, che per primi ve ne abbiamo parlato!

Questa intervista non sarebbe stata la stessa senza il sostegno paziente (ed avventuroso) di Marzia Mazzeo e Daniele Pagliuca. Né, probabilmente, sarebbe stata fatta senza la grande gentilezza e la puntigliosa disponibilità di Beatrice Renzi. Grazie a tutti, ragazzi!


Nella foto: Carlo Lucarelli e Marco Fortini in un momento di pausa dell'intervista (fonte e fotografo: Alberto Panicucci).

 

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