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di Fabiola Falconieri
Terzo classificato al X Trofeo RiLL
Vincitore del voto on line dei naviganti del sito di RiLL
[racconto presente nell'antologia Ritorno a Mondi Incantati, Nexus Editrice, 2006]
“Quando la lingua degli antichi padri che abitavano le pendici del Monte Ebaleb fu conosciuta, amata e parlata da tutte le genti, quella divenne la Lingua Universale come noi la conosciamo, amiamo e parliamo. Fu allora che la pace ed il progresso si diffusero tra le genti civili, che praticavano la Lingua, e la loro supremazia si impose su tutte le altre specie animali, incapaci di impararla.”
Da “Storie delle nostre genti”, AA.VV., Archivio Documentale Universale
Dunque era possibile che fra i prigionieri catturati nell’ultima incursione vi fosse un interprete.
Doveva appurarlo immediatamente, un interprete era troppo prezioso e raro per lasciarlo nelle mani di quelli del Servizio Igiene e Sicurezza, che avrebbero potuto consegnarlo a qualche zoo sperimentale o assegnarlo a chi sa chi dopo l’addestramento. Tra l’altro non erano nemmeno tanto accorti da impedire che si suicidassero.
Questa attitudine dei prigionieri al suicidio era la cosa più sorprendente e, naturalmente, nel caso di un interprete, la più indesiderata. Neanche qualche mese prima avevano perso così un intero gruppo di lavoro. Dopo mesi di ricerche ed accurate selezioni erano riusciti a mettere insieme quattro di loro che, incredibilmente, erano tutti in grado di comprendere la Lingua Universale. Sembrava che comunicassero anche fra di loro con uno dei loro codici. Forse, questo era stato lo sbaglio: non impedire che comunicassero fra di loro. Avevano potuto mettersi d’accordo, passarsi la polvere di mano in mano, e farla finita tutti insieme, con il veleno per i pidocchi che quei fessi del SIS avevano utilizzato per disinfestarli.
Invece, bisognava far sentire loro che erano completamente isolati. Dovevano avere chiaro in testa che o ubbidivano o non ci sarebbero state altre opzioni. Doveva essere assolutamente certo che ogni gesto, il cibo, il riposo, la morte, la fine della prigionia, sarebbe stato impartito o concesso, ma non avrebbe mai potuto dipendere da una loro scelta. Non c’è altro: questo è l’addestramento che funziona, persino meglio della punizione, del dolore fisico. Invece quei quattro avevano potuto ritrovarsi e decidere della loro morte, tutti insieme, come in un rito di gruppo, primordiale e salvifico.
Tempo e lavoro sprecato.
E questo è semplicemente inaccettabile, in stato di guerra. La cosa non era passata liscia, naturalmente, così da allora, nel caso “venisse individuato un prigioniero con caratteristiche rilevanti a fini strategici” poteva esserne fatta immediata richiesta con “formula di priorità ed esclusività per lo Stato Maggiore”, Protocollo di Guerra 636; e da quel momento in poi non erano più affari che riguardavano il SIS.
Da allora, non ne avevano individuati altri. Aveva esaminato centinaia di prigionieri e non ne aveva trovato uno in grado di rispondere appropriatamente a degli stimoli linguistici. Urlavano suoni destinati a rimanere incomprensibili in mancanza di un interprete e, intanto, tutte le ricerche e gli studi strategici avevano subito il totale arresto. Ancora non era stata messa insieme una mappatura affidabile di tutte le lingue parlate dal nemico, anche se ormai era chiaramente deducibile, dai dati raccolti, che alcune lingue erano più diffuse, o più importanti, di altre.
Capire questo era stato un grande passo in avanti. I processi che consentivano il passaggio da un codice ad un altro rimanevano, tuttavia, in gran parte oscuri.
La scoperta della coesistenza di tante lingue così differenti li aveva colti intellettualmente impreparati. Nella Lingua Universale un interprete è semplicemente “colui che spiega attraverso l’uso di parafrasi”, mentre era divenuto necessario mettere a punto una metodologia specifica di decodifica.
Un tempo, prima della Lingua Universale, dovevano essere esistiti popoli dai diversi idiomi. Un mondo caotico, chissà, paragonabile a quello del nemico, dove forse erano anche esistiti interpreti in grado di utilizzare più codici. Ma quel tempo apparteneva alla leggenda e quella abilità primitiva era divenuta obsoleta, persa nello scorrere dei millenni. Era la Lingua Universale il patrimonio comune della civiltà su tutto il pianeta, nel mondo.
Un triangolino di luce arancione aveva preso a lampeggiare sul suo monitor. Qualcuno stava chiedendo autorizzazione all’accesso. Autorizzazione accordata.
Un soldato era entrato trascinandosi dietro il prigioniero, che camminava a fatica ed aveva le mani ammanettate al collare, come da regolamento. Era un esemplare femmina e sembrava in pessime condizioni. Era venuto anche il veterinario, come richiesto.
“Dottore, grazie per essere venuto, so che siete piuttosto impegnati allo zoo sperimentale.”
“Non più di voi allo Stato Maggiore, caro Colonnello. Dunque mi dicevano che voleva un parere medico sul prigioniero.”
“Sì, se ha riportato ferite o altro.”
“No, ad un semplice esame visivo, a parte ecchimosi ed escoriazioni diffuse sugli arti. È una femmina di circa trent'anni, piuttosto deperita. Mi dicono che rifiuta il cibo.”
“Dobbiamo considerarla una forma di suicidio?”
“Possiamo sempre metterla in alimentazione forzata.”
“Vediamo prima se ne vale la pena.”
Il veterinario non aveva ben chiaro il senso di ciò che il Colonnello aveva appena detto. Quella femmina non sembrava avere tratti peculiari, ed alla fine un terrestre valeva l’altro. Il Colonnello, intanto, si era girato ad osservare la terrestre, attentamente, senza riuscire a liberarsi dal senso di disagio e ripugnanza che sempre provava quando era di fronte ad uno di loro. Era come se un disegnatore eccentrico si fosse divertito a deformare i lineamenti della sua gente per realizzare dei pupazzi inquietanti. I visi troppo allungati, con il pelo lungo sulla testa, a volte tagliato in forme bizzarre, le orecchie carnose ed i nasi estremamente sporgenti. E poi la pelle dai colori improbabili, quasi rosa o giallastra, o scura come bruciata, contribuiva al loro aspetto innaturale ed estraneo.
L’esemplare era di carnagione, capelli, occhi chiari. Aveva una simmetria nei lineamenti del viso che, in qualche modo, lo rendeva meno sgradevole di altri. Continuava a fissarsi le mani come se non capisse che parlavano di lei.
“Capisci la nostra lingua?”
Continuava a fissarsi le mani, pallide e contratte.
“Capisci la nostra lingua?”
Ad un cenno il soldato le aveva premuto un erogatore contro il braccio sinistro.
“Sì.”
Prima che la punizione fosse impartita, la donna si era affrettata a rispondere. Aveva le pupille dilatate ed il volto esangue. La bocca contratta in una smorfia di paura.
Il Colonnello le mostrò l’erogatore. “Allora, sai cos’è questo?”
La donna non sapeva come si chiamasse quell’oggetto, sapeva che le avrebbe inflitto un dolore lancinante al braccio se non avesse risposto.
“Credo di sì.”
Il veterinario ed il soldato la fissavano mentre il Colonnello le girava intorno, lasciando trasparire una certa soddisfazione.
“Conosci la Lingua Universale, quindi. Come l’hai imparata?”
Una lingua universale, cioè parlata da tutti. Da tutti chi? Gli uomini sulla Terra? Qual era la risposta corretta a questa domanda? Sarebbe stata punita ancora se avesse dato la risposta sbagliata?
“Non capisco.”
“Ma capisci la mia lingua, capisci quello che dico?”
“Sì, un poco.”
“Sì, un poco, vediamo quanto poco. Fa’ un passo in avanti!”
Questo era un ordine: doveva fare qualcosa, ma cosa? Nella sequenza di suoni c’era qualcosa che non conosceva. Cosa voleva dire unpasso? Cercava di collegare quei suoni ad un significato, o di trovarne uno, come sapeva fare, attraverso una qualche analogia morfologica o fonetica, ma niente, niente.
“Guardami” il Colonnello avanzò di un passo con il dito indice sollevato in aria. “Questo è un passo in avanti.” La donna barcollò, un passo in avanti.
“Fa’ due passi in avanti.” Chiaro e semplice: due, passi.
“Fa’ tre passi.” Ancora tre, la donna riuscì a barcollare per altri tre passi.
“Molto bene, anche i numeri. Molto bene.”
Superando la ripugnanza, le aveva preso la testa fra le mani per costringerla a guardarlo in viso. Lei sentiva il contatto, umido e viscido, e l’alito, sgradevole e caldo.
“Io credo che tu sia in grado di capire molte cose. Io credo che tu capisca dove ti trovi, io credo che tu capisca che la tua razza non potrà venire nel nostro sistema solare a riprenderti, io credo che tu capisca che stai iniziando la tua nuova vita, e che la tua nuova vita dipende da noi.”
Parlava lentamente, quasi sillabando, e lei lo capiva, ed era terrorizzata.
“Avrai tutto il tempo per capire ancora meglio. Alimentazione forzata ed isolamento.”
Ad un cenno, il soldato l’aveva trascinata via.
Il Colonnello doveva mettersi immediatamente al lavoro, ora, c’erano molte cose da fare, intanto poteva iniziare subito col veterinario: “Dottore, vorrei poter contare sulla sua collaborazione per mantenere in vita il prigioniero e, soprattutto, in grado di lavorare, naturalmente. Mi pare inutile sottolineare l’importanza ed il riserbo dell’operazione.”
“Certo.” Il dottore stava evitando di guardarlo in viso.
“Abbiamo bisogno che lavori bene, che sia docile, e credo che la medicina ci possa dare una mano a ridurre le resistenze durante l’addestramento, senza compromettere le facoltà intellettive, naturalmente. D’altra parte allo zoo sperimentale avete fatto molti progressi nella comprensione della loro fisiologia, dobbiamo farvi i complimenti, noi militari!”
“Non è stato poi così difficile” il veterinario non era sicuro se aggiungere altro. “Sono così” fece una breve pausa “così simili a noi.”
“Mi pare inutile sottolineare il riserbo e l’importanza dell’operazione, naturalmente, dottore.”
Isolamento, isolante, isolato, isolare, isola, sola.
Da quanto tempo era lì in quella cella cubica dalle pareti, soffitto, tutto verde?
Sola, isola, isolare, isolato, isolante, isolamento.
Forse era sveglia, ora. Forse. Erano loro che decidevano quando farla dormire, mangiare, camminare. Era ingrassata o dimagrita in tutto quel tempo? Quanto tempo?
Isolamento, isolato, isola.
Dove erano finiti gli altri catturati insieme a lei, quegli esseri umani che aveva visto trascinare via, che aveva sentito urlare? Forse anche loro erano rinchiusi in cubi verdi, con lo spazio appena sufficiente a stare in piedi, una specie di branda verde, una divisa da prigioniero verde. Chiuse gli occhi, non ne poteva più di tutto quel verde.
Ed eccoli che ritornavano, ricordi e colori di un altro mondo, di un’altra vita, quando tutto quello che sarebbe poi accaduto non era nemmeno stato immaginato. Erano ancora con lei, erano dentro di lei, erano tutto quello che restava di lei. Studiava lingue all’Università e voleva fare l’interprete; sua madre che sorrideva; il telegramma, che diceva che aveva vinto una borsa di studio all’Organizzazione Linguistica Mondiale.
Ecco, tutto era cominciato da lì, quando aveva accettato di lavorare per loro al “Progetto Sybille”. Dio, c’erano le migliori teste in quel progetto.
Non aveva potuto non accettare, era un onore per qualcuno giovane ed inesperto come lei lavorare con i migliori.
Cinque anni di lavoro durissimo e segreto, da non poter confidare a nessuno, nemmeno a sua madre, nemmeno a quelli che le volevano bene. Eppure non aveva mai avuto paura, in tutto quel tempo. Dietro quella scrivania sempre in disordine la guerra sembrava lontana, anzi lontanissima. La violenza e la morte venivano consumati a distanza di anni luce, mentre sulla Terra la gente dormiva, mangiava, camminava come sempre. La metropolitana la portava tutti i giorni al lavoro e lei continuava a lavorare e a credere che i suoi studi ed il suo lavoro avrebbero, prima o poi, salvato l’umanità.
Ogni tanto arrivavano anche sulla sua scrivania i bollettini dei soldati deceduti ma, più orribile, delle persone scomparse inspiegabilmente, cioè catturate. Come quei quattro colleghi dati un giorno per dispersi: era successo circa due anni prima, ma solo ora comprendeva l’orrore della cattura, della prigionia, della tortura. Prima no, prima di divenire “un prigioniero”, lei era solo una ricercatrice che faceva la sua parte in un gruppo di brillanti linguisti e matematici che, sotto la copertura di un qualche incarico universitario, lavoravano alla decodifica di un codice non terrestre. Segnali intercettati, impulsi che venivano meticolosamente catalogati, confrontati, che rivelavano pattern significativi, che dovevano essere stati emessi da un qualche essere pensante, che dovevano essere portatori di un qualche messaggio, che venivano dal nemico.
Se qualcuno avesse potuto vederla, ora, avrebbe visto una donna accovacciata in un angolo di una cella verde, dal volto disfatto, sorridere, con gli occhi chiusi, un sorriso di grande soddisfazione.
C’erano riusciti, adesso lo sapeva. Adesso sapeva quanto erano stati bravi a decodificarne il vocabolario essenziale, a descriverne i paradigmi combinatori fondamentali, persino a ricostruirne la fonetica. Si trattava di un lingua fortemente sintetica e, una volta capito il meccanismo prefisso/ radice/ suffisso, era stata soprattutto una questione di pazienza, costanza e meticolosità. Ma adesso che sapeva quanto era brava a capirla e parlarla, non aveva nessuno, né un motivo, per felicitarsene.
Isolamento, isolante, isolato, isolare, isola, sola.
L’umanità non l’avrebbe ringraziata per questo. Ormai dovevano tutti averla data per dispersa, forse morta. Forse non sarebbe venuto in mente a nessuno che sarebbe stata proprio lei a tradire. Perché era questo che, prima o poi, sarebbe successo.
Il Colonnello l’avrebbe costretta a tradurre le lingue terrestri, almeno quelle che conosceva. Strategie militari, conoscenze scientifiche, rapporti tecnici, che documenti avevano in mano? Grazie al suo ottimo lavoro di linguista, una porta sarebbe stata pericolosamente aperta al nemico. Forse i suoi cari e gli amici non l’avrebbero mai saputo ma, prima o poi, la vergogna e la disperazione avrebbero cancellato quei ricordi colorati. Colori ed affetti dal mondo tradito, addio!
Stava cedendo, avrebbe ceduto, lo sapeva.
Sola, isola, isolare, isolat-
Silenziosamente, la cella era stata aperta ed un soldato era apparso e l’aveva trascinata fuori.
“Bene, oggi è il tuo giorno importante” gli angoli della bocca del Colonnello sembravano piegarsi in una specie di sorriso “oggi inizierai a lavorare per noi.”
Le avevano liberato le mani e le avevano iniettato qualcosa nel braccio, ed ora non riusciva a controllare un tremito leggero e convulso. Sentiva caldo e un fischio sottilissimo dentro la scatola cranica.
“Conosci questi oggetti?”
Nella direzione indicata c’era un specie di ripiano e sopra al ripiano c’erano quegli oggetti stranamente familiari, erano dei libri. Sembravano edizioni economiche, dei tascabili, come quelli che ormai quasi non si trovavano più, che da ragazzina comprava dal giornalaio quando era in vacanza al mare. Come, come erano arrivati fin lì?
“Sì, sono…” quale parola avrebbe dovuto usare per indicare quegli oggetti nella Lingua Universale? “Servono a conservare documenti, le storie.”
“Bene.” Il Colonnello ne aveva preso uno dalla copertina giallo ocre, un poco consunta, e glielo stava mostrando.
“Conosci questo codice?”
Glielo stava mostrando dalla parte sbagliata, sul retro. In basso sul fondo era scritto qualcosa in caratteri piccolissimi: Finito di stampare a Roma, maggio 2004.
Sì, conosceva quella lingua, era Italiano.
Fra tutte le lingue del mondo, quella era la lingua con la quale le avevano parlato, e l’avevano amata, fin da piccolissima. Forse qualcuno ancora si stava chiedendo che cosa le fosse successo, stava piangendo per lei, in quella lingua. Era la lingua con la quale ancora riusciva a mettere in fila parole sue, quando la testa non le ronzava e le mani non le tremavano.
Prese il libro e lentamente lo voltò sul fronte, per leggerne il titolo. Grossi caratteri rossi dicevano: Poesia Italiana, dalle origini ad oggi. Una riga sotto, più piccolo, era specificato: Una raccolta antologica.
Tremava e voleva urlare che era tutto uno sbaglio, che si erano sbagliati, che dovevano lasciar perdere, che lì non c’erano segreti militari, armi strategiche, tecnologie da sabotare, che era solo un libro di poesie. Voleva pregarli, supplicarli di lasciar stare, che era solo un libro di poesie. Invece il Colonnello ripeté: “Allora, conosci il codice?”
Rispose di sì ed aprì, lentamente, una pagina a caso. Avrebbe tradotto, come volevano loro, anche se poi non avrebbero saputo che farsene e la loro guerra non sarebbe avanzata di un passo verso la gloria. Ecco, la profanazione, lo stupro della sua vita si stava consumando così, senza un senso.
Avrebbe tradotto, anche se poi l’avrebbero ammazzata.
Avrebbe tradotto, ma ora non riusciva neanche a leggere quelle parole che le apparivano sfocate e confuse sulla pagina.
Faceva caldo, caldo sulle tempie e sugli occhi che le bruciavano. Con uno sforzo tale da farle venire le lacrime riuscì a mettere a fuoco i caratteri e le parole e, sillabando a bassa voce, come faceva da bambina, finalmente, tra le lacrime, riuscì a leggere:
Chiare, fresche, e dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che-
S’interruppe. Lacrime e lacrime, scendevano e cadevano, le bruciavano sul viso. Come, con che parole avrebbe tradotto questo? Col dito teneva il segno, riprese a leggere:
-sola a me par donna.
S’interruppe ancora, tornò indietro tenendo il segno col dito e lesse ancora: sola a me par donna. E ancora: sola a me par donna. Sola a me par donna.
Fabiola Falconieri è nata nel 1962 e vive nei pressi di Roma, dove trascorre un’esistenza apparentemente complessa divisa tra l’ufficio, il supermercato e la metropolitana.
Ha una passione, niente affatto segreta, per le lingue e le letterature del mondo (più o meno vanno bene tutte).
In tenera età, mentre assiste alla serie televisiva “UFO”, decide che da grande avrebbe fatto l’astronauta e sposato un alieno carino: nasce così l’amore per la fantascienza.
Divenuta grande, impara bene l’inglese e trova lavoro presso una società di corsi di lingua all’estero. Dopo un po’ si diploma in comunicazione aziendale all’Istituto Europeo del Design di Roma e, quasi dieci anni dopo, cambia tutto e passa a lavorare all’ENEA, dove attualmente impiega gran parte del suo tempo e delle sue meningi nella redazione di testi tecnico/ scientifico/ divulgativi. Incredibile a dirsi, le piace pure.
Nel tempo libero studia per laurearsi in Lingue e Letterature moderne all’Università "La Sapienza".