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Intervista all’attrice e regista teatrale Lisa Ferlazzo Natoli, in occasione della manifestazione romana "Urania. Stregati dalla Luna"
di Alberto Panicucci
[pubblicato su RiLL.it nel luglio 2009]
La città di Roma ha dedicato nelle ultime settimane una serie di eventi al quarantennale della conquista della Luna.
Gli appassionati di musica hanno potuto apprezzare, ad esempio, le esibizioni di Ennio Morricone e Moby, entrambe nella cornice a Piazza del Popolo. Per chi ama la fantascienza, invece, particolarmente interessante è stata la manifestazione che ha tenuto banco per tre settimane al Teatro India: Urania. Stregati dalla Luna - Nella città delle storie disabitate.
Per una ventina di giorni, in pratica, sul palco e nelle diverse sale del teatro la fantascienza è stata al centro dell’attenzione, con mostre, conferenze, spettacoli. Ecco quindi, fra gli altri, gli incontri e le tavole rotonde con scrittori e critici italiani, come Alan D. Altieri, Gianfranco De Turris, Giuseppe Lippi (nonchè con i giurati del Trofeo RiLL Giulio Leoni e Massimo Mongai). E poi le proiezioni di film e telefilm, e gli show teatrali… alcuni dei quali sono stati curati dall’attrice e regista Lisa Ferlazzo Natoli.
Noi RiLLini abbiamo avuto modo di conoscere e apprezzare il lavoro di Lisa in occasione di Nuovi Tempi, Altri Mondi, la giornata che il Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma ha dedicato lo scorso 13 giugno ai giochi (di ruolo e da tavolo) e alla letteratura fantastica. In quell’occasione Lisa si occupò di adattare alcuni racconti premiati al Trofeo RiLL, realizzando uno show teatrale tanto riuscito quanto intenso (almeno, per noi che siamo gli organizzatori del concorso).
Gli spettacoli messi in scena per “Urania. Stregati dalla Luna” si pongono sulla stessa falsariga, per di più all’interno di una manifestazione che a Roma ha avuto buona visibilità e si è svolta in una cornice decisamente prestigiosa.
Quale occasione migliore, quindi, per un’intervista?
Due parole, prima di cominciare, su Lisa Ferlazzo Natoli.
Formatasi alla Royal Academy, ha avuto fra i suoi maestri Luca Ronconi e Carmelo Bene, nonché il danzatore e coreografo Merce Cunningham (scomparso giusto in questi giorni).
Ha messo in scena e interpretato opere di Cechov, Rilke, Brecht, Sandro Penna e Sciascia. Come regista ricerca sempre la collaborazione tra attori, musicisti ed artisti visivi, realizzando quindi rappresentazioni “contaminate”, ma proprio per questo più originali.
Ma veniamo alle domande e alle risposte…
Lisa, partiamo dall’inizio. Gli spettacoli per “Urania. Stregati dalla Luna” non sono stati “semplici” reading (come del resto anche quelli per “Nuovi Tempi, Altri Mondi”).
Puoi spiegare ai nostri lettori che tipo di lavoro portate in scena?
Innanzi tutto si tratta di spettacoli concertati e “musicali”, ovvero fortemente caratterizzati da un impasto tra parole e musica e tra voci diverse.
Sono immaginati certamente per uno spettatore dal vivo, e infatti la loro “ambientazione” è una specie di stazione radio post-atomica abbandonata, dove si mischiano elementi futuribili a vecchi divani e grammofoni, gli abiti fine anni ‘40 e le luci ispirate a Blade Runner di Ridley Scott, in un impasto di luci fredde e calde. Sono però anche concepiti come “racconti radiofonici”, densi di rumori, con suoni e musiche stratificate, come in un sistema di macerie da cui “risalgano” queste narrazioni, quasi provenissero da un futuro remoto. Mi viene davvero da pensare ai “modelli” di mondi raccontati da tanta fantascienza, e alla domanda “cosa accadrebbe o cosa sarebbe accaduto se…”; una domanda che Dick non cessa di fare nei suoi libri.
Il lavoro di Gianluca Ruggeri, che ha progettato e diretto tutta la struttura musicale del progetto, è stato fondamentale per riuscire a far sì che le rappresentazioni fossero un viaggio anche attraverso suoni e musiche ispirate a tanto magnifico cinema, da Herzog a Kubrick e Ridley Scott, ma anche la musica di Bach o i paesaggi sonori di tanta sperimentazione contemporanea.
Quanto alle riduzioni, sono state molto peculiari.
Ad esempio, La salvezza di Aka, di Ursula Le Guin, sorta di fantascienza “archeologica”, è stato immaginato proprio per Manuela Mandracchia (la protagonista di quel romanzo è una donna) e, con lei, un coro-brulichio di voci, che rappresentano gli incontri del personaggio, ma anche la memoria antica del pianeta e tutto il suo sistema di storie. La “narrazione”, appunto.
Quanto a Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?/ Blade Runner, di Dick, è stato riportato tutto alla prima persona, come se Deckard non uscisse mai dal proprio incubo tra sonno e veglia, tra la propria identità e l’elisione di questa di fronte agli androidi.
Durante le diverse serate, a “Urania. Stregati dalla luna” avete proposto sia brani tratti da romanzi che racconti, opere fantascientifiche ma anche classici della letteratura (Leopardi, Ariosto, Calvino...). Con quali criteri li avete scelti?
Cercando di proporre una selezione limitata ma che potesse render conto dei “modelli di mondo” che la fantascienza propone, raccontando storie, e della riflessione sociologica, politica, cognitiva che questo genere sempre adombra.
Nelle serate intitolate I racconti ritrovati abbiamo scelto sei diversi racconti di grandi maestri: Asimov, Simak, Brown, Herbert, Bradbury e Clarke. Questi sono davvero il cuore della nozione di “storia disabitata” (tanto per citare e così spiegare il sottotitolo della manifestazione, NdP), ovvero un mondo che via via si svuota dell’uomo, della sua presenza, anche solo della sua memoria o che, in un’inversione di sguardi, viene visto dagli occhi di un alieno, cioè quel che resta dopo la scomparsa dell’uomo o ciò che fiorisce quando l’uomo si è trasformato in altro.
Quanto al Canto ai pianeti, con Massimo Popolizio, abbiamo scelto di muoverci tra l’alba della modernità e un ‘900 fantasmagorico, tutto italiano, proprio per raccontarne la matrice antica, greca (Luciano di Samosata, Savinio), la sete di conoscenza che ha dato vita alle prime indagini sulle stelle (Galileo), il prezzo pagato per quello sguardo e il risultato fantastico e perturbante che un universo metamorfico (Calvino, Manganelli) ci ha lasciato in eredità. In mezzo a queste letture, due “voli”: quello di Leopardi del Pastore errante, che proprio guardando la luna riflette sul tempo dell’uomo, e quello di Marinetti di Viaggio sull'Italia, sorta di sonata folle e roboante sul rapporto tra uomo cielo e paese.
L’obiettivo degli spettacoli era divulgativo (cioè far conoscere le opere proposte a un pubblico più vasto di quello degli appassionati) oppure quel che vi interessava era soprattutto rileggere e re-interpretare, proponendo i testi in una nuova veste?
Direi entrambi. E credo che una cosa non dovrebbe essere possibile senza l’altra: si è davvero divulgativi se si opera una scelta, se si rende viva una materia e si fa venire voglia a chi è nel pubblico di andare a ritrovare o a scoprire l’originale.
Cosa vuol dire adattare al teatro un racconto? E perchè può essere necessario un adattamento teatrale per un buon testo letterario, già apprezzabile ed efficace nella lettura “privata”?
Domanda complessa assai!
Innanzi tutto perchè la lettura, ovviamente, permette un movimento “oscillatorio” (ad esempio tornare più volte su qualche passaggio, o leggere col proprio “tempo emotivo”) che il teatro non concede né conosce. Poi perchè a teatro la parola, quand’anche solo musicale, è un corpo, sonoro vivissimo tattile, e deve rispettare le immagini e i pensieri attuali, nati là per là, sul palco, nella messa in scena, e che vanno articolati secondo una drammaturgia che crei uno spazio e un tempo, un’epoca.
In generale, quale tipo di testo risulta più adatto per una “teatralizzazione”?
Monologhi, dialoghi, testi con molte descrizioni o più scarni…
Direi che dipende dal gioco giocato.
Faccio un esempio: il racconto di Herbert che abbiamo scelto. Una scorta di semi ha moltissime immagini e descrizioni, di quello si nutre, con quello racconta la mutazione degli uomini su un nuovo pianeta. Ora, in questo caso bisogna “asciugare”, perchè il tempo dell’ascolto ha meno resistenza, ma allo stesso tempo proteggere quel modo di scrivere, difendendo appunto l’immaginario, addirittura chiarendolo, anche attraverso un attore molto concreto, capace di “vedere” le cose.
Alla fin fine, non c’è un tipo di racconto più adatto di un altro, c’è solo buona letteratura, letteratura che stimola più di altra, che meglio di altre sa - ad esempio - dare un’ambientazione “fisica” al racconto (Henry James in questo è maestro) o avere un “odore” peculiare, che la scena riesca a conservare.
Rispetto al discorso (generale) sull’adattamento teatrale, i racconti di fantascienza presentano delle specificità?
Credo abbiano soprattutto un “linguaggio-mondo” da rendere immediatamente “credibile” al pubblico. Per farlo bisogna intendere l’operazione compiuta dallo scrittore.
Ad esempio: ne La salvezza di Aka è Sutty, la protagonista, lo sguardo portante. Quindi sarà lei a raccontare, e sono quel mondo in cui lei arriva e le sue storie a portare il “senso” del testo. Questo mondo va immediatamente fatto vivere e vedere al pubblico, come una terra sconosciuta in cui si sbarca, differente quel tanto da ciò che conosciamo da spostarci gradualmente verso un margine sempre più alieno, e senza che quasi questo sia percettibile.
D’altronde la fantascienza fa ormai parte di un immaginario condiviso, e quindi bisogna far attenzione a non “normalizzare” troppo la lingua e la storia, lasciando sempre quel “perturbante”, quella “inversione dello sguardo” che la caratterizza e la rende feconda.
Fra i testi proposti nella rassegna figurano anche opere di Leopardi, Calvino, e altri classici. In che misura è diverso il lavoro di un attore e di un regista su tali testi rispetto a quelli più moderni?
Senza inoltrarci in questioni di lingua e drammaturgia, direi, in generale e istintivamente: nessuna. Nessuna nella misura in cui ogni singolo autore, antico o moderno che sia, mette in campo un linguaggio specifico, quindi da affrontare sempre come se non avessimo altra bussola che l’aderenza alla sua lingua. O anche nessuna perchè le parole e i sensi bisogna “masticarli” tutti uno ad uno, nella maniera più fluida possibile, andando al di là degli schemi: trattare Shakespeare come lingua antica e “alta” e invece Dick come lingua contemporanea e colloquiale, ad esempio, quando magari è proprio l’opposto quel che bisogna fare, a seconda della lettura che si e' scelta.
L'adattamento è stato realizzato solo da te?
In che misura ti sei interfacciata, ad esempio, con gli attori, le loro idee o "caratteristiche", o con i musicisti che accompagnavano gli show?
Gli adattamenti in realtà sono stati realizzati da mia madre, Silvana Natoli, ed è sua anche l’idea del festival, perchè è un’esperta e appassionata di fantascienza e di tutte le sue derive filosofiche, scientifiche e mitologiche.
I suoi adattamenti sono poi stati “rivoltati” e trasformati a quattro mani tra noi due, man mano che l’idea di messa in scena mi si chiariva, e ancora trasformati, tagliati in parti e riscritti nel lavoro con gli attori, che da sempre io chiamo a “prendersi carico” dei testi, anche perchè la concertazione e la coralità fra loro solo così possono uscir fuori.
Inoltre c’è stato un dialogo continuo tra musicisti e attori: le proposte fatte dai primi spesso hanno radicalmente cambiato le interpretazioni dei secondi; a volte gli attori stessi hanno fatto proposte musicali, accolte e trasformate ancora dai musicisti... ecco, è stato un piccolo cantiere di verifica e confronto, con una direzione chiara ma senza risultato garantito a priori.
Che rapporto hai con la letteratura fantascientifica?
Di amore ed enorme attenzione fin dalla prima adolescenza; accanto alla letteratura greca e a quella russa ha formato una parte molto consistente del mio immaginario. Questo perchè la fantascienza mette in campo mondi possibili, ma lo fa con l’operazione del “modello sperimentale”: costruisce interamente un mondo e lo mette alla prova, inverte lo sguardo fin quasi a far scomparire l’uomo e a farlo vacillare; crea una mitologia in un futuro che ha il sapore di passato remoto, facendomi quasi girare indietro per vedere se è da li che provengo.
Insomma “forma” il lettore anche su un piano cognitivo, perchè costruendo modelli “falsi” si approssima incredibilmente a un discorso “vero”.
Lo scorso 13 giugno, al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma, tu e i tuoi attori avete “teatralizzato” i racconti del Trofeo RiLL.
Il ventaglio dei generi in quel caso era un po’ più ampio (non solo fantascienza), e la gran parte degli autori erano esordienti, non classici della letteratura, di genere e non. Che effetto ti ha fatto quell’esperienza? E come la rapporti a quella di “Urania. Stregati dalla Luna”?
L’esperienza è stata estremamente divertente, innanzitutto perché abbiamo dovuto affondare le mani in racconti così diversi tra loro, immaginare la messa in scena e renderli al meglio nel famoso travaso dalla pagina al palco. Ero anche curiosa di conoscere e metter mano su autori giovani e storie che non conoscevo.
La differenza più macroscopica di “Urania” rispetto all’iniziativa al Teatro Quarticciolo - a parte il fatto che se si ha in mano un maestro del suo campo tutto è più fluido - è stata la continuità del progetto, tutto legato ad un tipo di letteratura. Quindi le scelte sono state fatte per portare avanti un discorso e metterlo in rilievo, al di là dei singoli testi e della loro bellezza.
Come appassionata, e come professionista che mette scena storie di questo tipo, ritieni che abbia ancora senso - oggi - la distinzione tra i generi (fantasy, fantascienza etc...)?
Da una parte penso che le distinzioni per generi sono utili solo a chi ne deve scrivere o far uso; insomma, come tracciare dei campicelli artificiali per orientarsi meglio.
D’altro canto, bisogna ben capire perchè un autore ricorra proprio alla fantascienza per dire una certa cosa: perchè non potrebbe dirla, ad esempio, scrivendo gialli.
Ci sono campi linguistici ed immaginari che vengono prediletti e attivati perchè più flessibili e disponibili a “prendere forma” in una certa direzione. Leonardo Sciascia ha scelto di scrivere molte storie in forma di giallo proprio perchè quel genere, così apparentemente chiaro nelle sue regole, gli permetteva - fra le righe - di dire altro. Era interessato al principio dell’indagine, fino al limite di un sistema inquisitorio, alle strutture giudiziarie e al tema dell’assassinio... ed ecco che i gialli gli si presentano come “forme” perfette per parlarci (in realtà) di rivoluzione, mafia, clero corrotto. Ugualmente, Dick è ossessionato dal tema dell’identità e del soggetto, e quindi costruisce “modellini fantascientifici” per far sì che l’uomo vi si perda come in un continuo gioco di specchi deformanti. Se avesse scritto storie di ambientazione contemporanea probabilmente avrebbe fatto solo cattiva letteratura psicologica…
Nella foto, un momento dello spettacolo teatrale incentrato sui racconti del Trofeo RiLL al Teatro Biblioteca Quarticciolo, lo scorso 13 giugno (foto di Carola Ghilardi).