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Quattro chiacchiere con Emmanuele Somma, direttore editoriale della rivista di informatica DEV
di Alberto Panicucci e Francesco Ruffino
[pubblicato su RiLL.it nel maggio 2010]
Emmanuele Somma è uno dei responsabili della casa editrice Infomedia, specializzata in pubblicazioni del settore informatico. Fra queste, spicca DEV, la più antica rivista italiana di programmazione, "attiva" da quasi vent'anni.
Il progetto editoriale di Infomedia ha avuto in realtà, qualche tempo fa, un momento di stasi, da cui ha preso però è ripartita questa nuova gestione... cui anche RiLL (e i racconti del Trofeo RiLL) contribuiscono in piccola parte.
Quale occasione migliore, quindi, per una chiacchierata a tutto campo con Emmanuele, mettendo in primo piano la comune passione per il fantastico e la fantascienza in particolare?
Emmanuele, cominciamo dall'inizio. Presenta in breve DEV, Infomedia e il vostro progetto editoriale attuale.
Uno dei motivi per cui abbiamo voluto far rinascere Infomedia, probabilmente anche il motivo più serio e fondato, è quello di “rappresentare” la “cultura” del programmatore. Crediamo che i programmatori odierni siano la realizzazione di quella classe sociale che Alan Turing più di 50 anni fa immaginava.
Turing non può essere considerato il padre dei computer forse, ma è sicuramente il padre dei linguaggi generici di programmazione, ed è stato il primo ad immaginare che ad un certo punto un consistente gruppo, una “classe sociale”, avrebbe fatto della programmazione non solo la propria professione, ma addirittura un vero e proprio modello culturale. Anche se in embrione, gli elementi c’erano tutti e Turing, che per tanti motivi aveva una grande sensibilità verso le dinamiche di piccoli gruppi sociali, se ne rendeva benissimo conto.
Quando sei un programmatore (o un sistemista) questa è una cosa talmente naturale che non puoi pensare che non sia nota, poi ad un tratto ti svegli, e spesso accade bruscamente, e ti accorgi che molti attorno a te non ti considerano né uno scienziato, né un creativo, un professionista o un artista ma poco più che un contabile, una bestia strana, che serve ma che in fondo ha un profilo prettamente operaio: un manovale della società dell’informazione.
Questo è poi estremizzato in una società classista e conservatrice come l’Italia, dove specialmente i cosiddetti manager informatici, anche per motivi generazionali, non condividono affatto la passione per l’informatica e spesso non ne comprendono la cultura.
Ecco, Infomedia nasce innanzitutto per rivendicare il ruolo “culturale” del programmatore, che a partire da Alan Turing ha scientificamente costruito il proprio mondo di relazione, e per un programmatore dire “costruire il proprio mondo” ha un valore molto pragmatico, linea dopo linea di codice.
Se l’Italia fosse una società meno bloccata di quella che è non ci sarebbe proprio bisogno. Come fai a non vedere che il successo in campo economico è ormai indissolubilmente legato ad avere una non casuale competenza nella computer science? Cosa ha prodotto la nostra società di rilevante negli ultimi tempi a livello globale che non lo sia?
E non dobbiamo pensare solo alla lunga teoria di "capitani d'azienda", dall'ormai "vecchio" Bill Gates a Steve Jobs, a Brin e Page, persone di chiaro ed innegabile successo. Si pensi però anche a Linus Torvalds e Richard Stallman, che stanno nel mondo moderno in una posizione di privilegio anche nel mondo culturale e filosofico, per quanto le accademie tardino a comprenderlo.
Molto del movimento culturale legato a quella 'libera cultura' che oggi sta riverberando anche nel mondo tradizionale della creatività, grazie alla diffusione delle licenze Creative Commons, si deve essenzialmente alla trasposizione delle idee nate nel mondo della programmazione venti anni fa, già a partire dal 1984.
In Italia la situazione è molto differente. Dopo il periodo pionieristico e appassionato della prima ondata di programmatori, in assenza di uno sbocco industriale, la cultura dell'informatica è andata nel tempo regredendo invece che aumentando. Le nuove leve sono uscite dalle università con la promessa di facili guadagni e di carriere veloci, ma hanno dovuto fare i conti con una società indifferente, quando non contraria, alle innovazioni portate dall'informatica e anche un po' dal livello molto basso delle competenze tecniche che le nostre università hanno distribuito ai loro laureati. Poi gli italiani in genere sono bravi e intraprendenti, sopperiscono con l'impegno, l'autonomia e l'inventiva. I migliori hanno trovato la propria strada, troppo spesso all'estero, ma qualche volta anche in Italia, e qualche volta "portando" l'estero in Italia, come testimoniano alcune start-up che si sono trovati i fondi in America e mantengono la forza lavoro in Italia. Ma senza dubbio questo è uno spirito di intraprendenza e di passione verso questo lavoro che trascende le opportunità che ci dà questa nazione.
L'informatica è una scienza "leggera" (come direbbe Calvino): il programmatore non deve confrontarsi con i limiti fisici come chi progetta automobili o ponti. Serve molta fantasia per fare questa professione? La letteratura fantastica può aiutare?
Che dire... come ti dicevo c'è modo e modo di fare questa professione.
Io vedo piuttosto che gran parte di quelli che si specializzano nell'informatica pretendono di farlo.
E poi scusa, l'idea che sia una scienza che non si confronta con i limiti fisici non mi trova d'accordo, anche se rischio di inimicarmi lo spettro di Calvino. È proprio dell'informatico superficiale quello di poter dire che "tutto si può fare", perché in fondo in fondo basta avere una "macchina di Turing" e tutti gli approcci sono equivalenti.
È un'informatica un po' naive... purtroppo fin troppo viva nella mentalità dei manager IT.
La fantasia è importante, ma è altrettanto importante la disciplina.
Sono piazzate sul piano come differenti dimensioni, si può immaginare qualcosa di grandioso, ma senza una capacità realizzativa è nulla, non esiste. Sotto certi punti di vista la programmazione costruisce meccanismi fantastici pratici, è in un certo senso letteratura (perché è scritta) fantastica (perché è immaginata) funzionante (perché gira). Se ci pensi... un prodotto di programmazione, il codice, può essere un bel prodotto di fantascienza.
Quali pensi siano gli aspetti della fantascienza che maggiormente colpiscono e attraggono gli informatici (intesi in senso lato: programmatori, sistemisti, "smanettoni", produttori, progettisti...)?
Nella fantascienza si vive in un modello semplificato della realtà quotidiana, in cui per semplificare l'interazione sociale non valgono alcune regole. L'autore è quindi libero di esplorare delle alternative che sarebbe oggettivamente complicato situare in un contesto di verosimiglianza a partire dal nostro normale quotidiano. Proprio perché è fuori dal nostro quotidiano, lo scrittore di fantascienza deve imparare a cogliere i tratti distintivi del disegno, senza inutilmente perdersi nei dettagli che diventano inutili ai fini della funzione.
Guarda un po': ogni progetto informatico, per quanto complesso, è necessariamente un modello semplificato della realtà, in cui, in buona sostanza, diventa vincente imparare a risparmiare sui dettagli che non aggiungono molto significato al disegno complessivo. Più riesci a risparmiare dettagli, senza ledere la funzionalità del meccanismo, più "guadagni". Alcuni hanno imparato così bene a risparmiare dettagli nei progetti informatici che sono stati in grado di costruirsi proprio su questo un proprio modello di business, e vincente.
A mio avviso più di qualsiasi altra forma letteraria la fantascienza è la più metodologicamente affine al mondo della programmazione, perché condividono la stessa sensibilità all'astrazione sistematica. E questo molto al di là del fatto che, specie nella fantascienza classica, esista un vasto campo di idee prettamente 'informatiche' che gli autori hanno esplorato. Fantascienza e informatica sono metodologicamente connesse.
Ci sono punti di contatto o somiglianze tra lo sviluppatore (lo "scrittore") di programmi informatici e un autore letterario?
Come ti ho detto secondo me sì. Probabilmente però c'è un aspetto che li contraddistingue.
L'autore letterario, ancora oggi, vive la propria opera come un'applicazione unica e spesso individualistica. Complice forse anche un modello di business strettamente "proprietario", non si è ancora mentalmente aperto ad una vera condivisione della propria creazione intellettiva.
Nel campo della programmazione questo è un atteggiamento perdente. È raro che un programmatore pensi di costruire tutto da sé (oddio... ce ne sono e ne conosco... ma questi è più facile catalogarli nelle patologie psichiatriche che nella nostra professione). Il fatto che una "cultura" informatica come quella Unix, ad esempio, sia a quarant'anni dalla nascita così viva e feconda, e probabilmente quella che soppianterà le altre in prospettiva, rende questo discorso di un'estrema evidenza, seppur non sia possibile completamente epurarlo dal fattore "software libero". In tutte le altre "comunità" di programmazione, persino in quelle relative ai mainframe, la forza della "produzione condivisa" è innegabile, e anche quando sono preponderanti gli aspetti commerciali e proprietari. L'esternalità creata da Internet, poi, ha probabilmente disinnescato ogni possibilità alternativa.
Ovviamente esperimenti del genere non sono affatto nuovi nel campo della letteratura, in generale. Si pensi all'uso delle firme collettive in alcuni romanzi pure di successo. Ma forse quello che ancora manca è un modello di business (o di non-business, come quello di Infomedia) in cui si possa, anche come autore di fantascienza, "salire sulle spalle dei giganti". Non so bene cosa possa voler dire... ma sarebbe interessante pensarci.
A tua memoria, l'informatica ha mai anticipato la fantascienza (o viceversa), negli sviluppi e nelle possibilità tecniche?
Credo che tutti gli autori (almeno del filone più hard e scientifico, di cui mi sono sempre interessato) hanno sempre trasformato quelle che potevano essere vaghe possibilità in descrizioni concrete e pragmatiche. Queste poi possono essere state con il progredire della tecnologia il modello per l'effettiva realizzazione di nuova tecnologia.
Ma ci sono casi emblematici in cui non è stato (ancora) possibile districare il racconto fantascientifico dalla realizzazione informatica, e anzi la storia stessa della programmazione diventa essa stessa racconto fantascientifico.
È il caso ad esempio del progetto Xanadu di Ted Nelson, sui modelli di scrittura transclusivi (di cui l'ipertesto, e quindi il www, non è che una semplificazione, e pure grossolana).
Nato come progetto di programmazione, già a partire dagli anni '60, trovando spazio nelle pubblicazioni tecniche dell'ACM, la sua realizzazione non è praticamente mai terminata meritandosi la definizione, data dalla rivista Wired, di "più lunga storia di vaporware dell'industria informatica". Eppure è un racconto di fantascienza ancora incredibilmente molto valido.
Consiglierei a tutti di goderselo.
E tu che rapporto hai con la fantascienza?
Un rapporto che non esiterei a definire paradossale. Non sono stato un gran lettore di fantascienza, se si esclude Asimov (in particolare l'affascinante Fondazione), fino alla fine dell'università (e sì invece che sono stato un lettore voracissimo, specie dei classici).
Non sono certamente riuscito a stare lontano dal cyberpunk, al momento giusto, però. Né da Pournelle, per una serie di motivi che sono abbastanza chiari a chi, come me, ha vissuto l'informatica dei primi anni '90. Ma niente che mi avesse suscitato una vera connessione intima tra le due cose.
Poi però quasi casualmente mi sono imbattuto in Heinlein (grazie ad uno scambio con Eric Raymond, uno dei padri nobili del Software Libero, che molti non sanno aveva una column su una rivista di fantascienza). A quel punto è cambiato tutto. Non solo sono diventato un voracissimo lettore di fantascienza, ma mi sono interessato appunto a seguirne i legami con la mia professione.
Continuo a seguire questo filo rosso che li lega, anzi mi farebbe piacere se qualcuno potesse indicarmi altre relazioni e collegamenti.
Sono sempre molto curioso.