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Fabrizio Casa racconta la genesi del suo romanzo fantasy Le Metamorfosi di Ghinta (edito da Fanucci), nato da una serie di partite al gioco di ruolo Amber.
[pubblicato su RiLL.it nel giugno 2004]
Quando vent’anni fa cominciai la mia prima avventura di Dungeons & Dragons (versione Basic), non avrei mai creduto che potesse finire così.
Intorno al tavolo della medesima casa (che è cambiata una sola volta) e insieme ai fidati compagni d’avventura (alcuni sono andati via, altri sono subentrati, ma la vecchia guardia non si è arresa mai) ho vissuto nella preistoria come nel futuro cibernetico, ho viaggiato sulle caravelle accanto a Cristoforo Colombo e ho partecipato alla corsa all’oro, sono stato accolto alla corte di Artù e ho girato i bassifondi della Lankhmar di Fritz Leiber.
Non sto tentando di emulare il Nexus-6 di Blade Runner, perché c’è una sostanziale differenza tra la sua e la mia esperienza: le navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione e i raggi B, che balenavano nel buio vicino alle porte di Tannhauser, Roy li ha visti con i suoi occhi, io le mie conoscenze le ho acquisite attraverso il gioco della finzione e della fantasia.
E, come un pilota annovera nel suo curriculum professionale le ore di volo o uno sportivo le sue presenze in campo, così nel mio personale palmares posso vantare, togliendo la pausa per le vacanze estive e le feste comandate, circa 700 martedì di gioco di ruolo, per un totale di oltre 2000 ore passate a essere di volta in volta mago, pistolero, cyborg, sacerdote, elfo, vampiro, folletto, nano.
Poi, un giorno, nella nostra smania di cambiare scenari e sistemi di gioco, abbiamo iniziato a giocare con gli universi di Amber. Allora non avevo ancora letto il ciclo di Zelazny cui il gioco è ispirato, e questo è stato un grande vantaggio, perché non mi sono trovato “ingabbiato” in percorsi narrativi conosciuti e in qualche modo obbligati: non c’è dubbio che, almeno per me, sia più facile passare dal gioco al racconto che non viceversa.
Quando abbiamo iniziato il role- playing di Ambra, il Master ci ha descritto il nuovo sistema di gioco (Amber può essere considerato il primo gioco di ruolo integralmente diceless, cioè senza dadi… il che - nei primi anni ’90, quando venne pubblicato - era qualcosa di assolutamente incredibile, quasi "spiazzante", per chi giocava di ruolo, NdP). Avevamo tutti le idee un po’ confuse e allora gli chiesi: “Quali sono i limiti alle nostre azioni?”
Lui mi ha risposto “Sei come un Dio” e io l’ho preso in parola.
Mai ho avuto, prima e dopo Ambra, l’opportunità di crearmi un personaggio con le caratteristiche, le valenze e i comportamenti di un dio, semidio o eroe epico che dir si voglia. E i modelli, per uno come me che ha amato gli studi classici, non potevano che essere i vari Apollo, Eracle, Odisseo.
Subito ho avvertito il limite delle tre ore settimanali che dedicavo al mio personaggio e agli eventi dentro cui si muoveva. Così ho iniziato ad arricchire lo scenario di gioco con narrazioni a se stanti, scambi epistolari con altri giocatori, arrivando a incontrarmi segretamente con alcuni di loro nel mondo reale per proseguire il gioco al di là del tavolo attorno a cui ci sedevamo ritualmente.
Conservo ancora gelosamente alcuni Tarocchi di Ambra che qualcuno di noi ha disegnato appositamente, insieme ad altri racconti e cronache raccolte da più parti.
Ma, più delle altre volte, sentivo che non mi bastava: in effetti mi accade sempre, quando vado a letto dopo aver partecipato a un gioco di ruolo, di faticare a prender sonno. Rimango intrappolato nelle trame avventurose che il mio personaggio sta tessendo e immagino futuri sviluppi, possibili azioni da mettere in atto. Un po’ come accade da bambini, dopo aver ascoltato una bella favola o, da grandicelli, quando si ha tra le mani l’edizione per ragazzi di un romanzo d’avventura avvincente. Quante storie ho sceneggiato mentalmente, quanti avversari ho affrontato, quali piani ho escogitato!
Nel gioco di Ambra questo riflesso condizionato si è trasformato in impellente esigenza e la mia mente si distraeva spesso dalla vita quotidiana per trasferirsi in quell’altro universo che prendeva forma da sé. Senza accorgermene ho oltrepassato dei limiti e, in una parola, mi sono “allargato” troppo. Fino a che la corda si è inevitabilmente spezzata.
Ricordo bene l’episodio che ha fatto scattare dentro di me il desiderio di continuare da solo, fuori dai meccanismi di gioco. Nella smania di trascrivere e raccontare a modo mio gli sviluppi delle nostre serate “amberite”, ho descritto una battaglia (che ne Le Metamorfosi di Ghinta ha un’importanza centrale). Mi piaceva, e con orgoglio ho fatto leggere il racconto ai miei compagni, attendendomi, come un bambino che mostra ai genitori la sua opera, elogi incondizionati.
Invece ho incontrato una reazione negativa, perché -ora me ne rendo conto- la mia non era stata la loro battaglia e le azioni che io avevo fatto compiere ad ognuno erano una mia forzatura, da alcuni di loro non condivisa.
Allora non l’ho capito e confesso che ci sono rimasto male. Ma, a mente fredda, posso dire che in quel momento si è strappato il sottile velo che separava il gioco collettivo dal mio passatempo privato. Così ho continuato l’uno e l’altro, con il risultato di chiudere quell’avventura non molto tempo dopo e di trovarmi con un plot narrativo che attendeva di essere portato avanti.
Un giocatore di ruolo esperto troverà ne Le Metamorfosi di Ghinta molti elementi del gioco di ruolo.
Il romanzo si basa quasi esclusivamente sull’intreccio tra i personaggi, con l’eccezione di qualche PNG (personaggio non giocatore) che abitualmente viene condotto dal Master.
Ognuno dei protagonisti possiede delle caratteristiche primarie (fisiche, emotive o psichiche) che derivano dal sistema di gioco.
Alcuni eventi e diversi dialoghi sono effettivamente accaduti e qualsiasi riferimento a persone e fatti della finzione ludica non è affatto casuale.
Gli intrighi, la competizione, i comportamenti a volte infantili o cruenti dei protagonisti sono gli stessi che venivano messi in atto dai giocatori.
In qualche modo, non ho fatto altro che seguire le caratteristiche che ognuno di noi aveva dato al suo personaggio, adattandole al mondo che stavo creando. Posso dire che i protagonisti del romanzo sono effettivamente molto simili a quelli che io ho riscontrato nel gioco, così come la loro interazione, i loro rapporti sentimentali e politici.
Non so quanto gli interessati concordino con me, e non mi stancherò mai di scusarmi per la violenza che in un certo senso ho fatto loro (i giocatori di ruolo sono molto gelosi dei propri personaggi). Ma ognuno è stato ricompensato: io con la pubblicazione di un romanzo, loro vedendo i propri personaggi diventare eroi di una piccola epopea.
Per una qualche magia, il romanzo è subentrato al gioco e ne è stata la sua naturale continuazione, senza alcuno sforzo da parte mia, che mi sono sentito, più che uno scrittore, un narratore di storie.
Da allora non mi sono più avventurato in quei territori, anche se sogno un gioco di ruolo sul ciclo di Darkover della Zimmer Bradley o su quello del Trono di Spade di Martin.
Beninteso, scrivo, anche se non fantasy, ma non ho smesso di sedermi al tavolo settimanale coi miei compagni di avventura. Scrivere è bello, ma giocare con la fantasia insieme ad altri lo è ancor di più.
Nella foto: Massimo Mongai, Luca Giuliano e Fabrizio Casa (da sinistra) alla presentazione de Le Metamorfosi di Ghinta, curata da RiLL all'interno del festival del fumetto e del gioco Romics 2001.
(fotografo: Umberto Francia)