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La prefazione di Franco Cardini, eminente storico italiano, all’antologia di racconti ucronici Se l’Italia, (ed. Vallecchi, 2005).
[pubblicato su RiLL.it nel luglio 2005]
Che la storia non solo si possa, ma si debba scrivere al condizionale, con tutti i “se” e i “ma” possibili, l’ha sostenuto - confutando legioni di professori e professoresse che per intere generazioni hanno aduggiato gli allievi sostenendo il contrario e discettando sul senso della storia, le leggi della storia, la ragione della storia, il vento della storia, il tribunale della storia e altre spiacevolezze - uno dei più grandi, liberi e geniali studiosi del nostro tempo: quel David S. Landes dell’Università di Harvard al quale dobbiamo la famosa Storia del tempo, quel capolavoro ch’è Prometeo liberato. La rivoluzione industriale dal 1750 ad oggi e soprattutto La ricchezza e la povertà delle nazioni, un libro che dovrebbe costituire lettura obbligatoria nelle scuole se non fossero troppi i Padroni del Vapore interessati a che il mondo vada ancor peggio di come sta andando adesso.
Perché lo scriver la storia al condizionale, lungi dal costituire uno sterile esercizio di fantasia - poco attendibile per giunta: ché, per redigere una pagina di verosimile ma falsa storia, è necessario conoscer quella vera molto meglio di quanto sarebbe sufficiente per scriverne cento di storia “vera” o sedicente tale -, giova proprio alla comprensione reale ed effettiva della realtà del passato? Per la precisione, non c’è bisogno di scriverla, la storia al condizionale: basta esercitare sui singoli fatti un’attenzione critica tesa a comprendere quanto fragile sia in ogni istante lo scarto che separa quel che avrebbe potuto avvenire ed è in realtà avvenuto e quel che potendo accadere non è però successo. Ma solo in tal modo, “con i se”, si possono far emergere le infinite possibilità del passato in termini sia di scelte da parte di singoli e di gruppi, sia di accadimenti “fatali”, si può cogliere l’infinita variabilità dei processi che conducono alla determinazione di percorsi umani, di istituzioni e di strutture e al loro differente esito. In ogni momento, dall’infinito mare dei possibili, ne affiora uno che, solo, si compie: e che compiendosi dà luogo a un altro infinito oceano di possibili e così via.
La storia è un lungo cammino fatto di sentieri che di continuo si biforcano, e quel che alla nostra dabbenaggine appare come una linea consequente e consecutiva di fatti l’uno collegato all’altro (magari logicamente) è, invece, una sequenza puntiforme d’infinite fratture (e senza logica alcuna). Non c’è nulla di più sciocco della frase, di solito pronunziata con ponderata solennità, che “sarebbe bastato un nulla, e la storia sarebbe stata diversa”: la storia è continuamente diversa rispetto a come potrebbe, in un rapporto di uno all’infinito.
Ed ecco allora l’ucronia, o storia controfattuale, o storia virtuale. La quale si distingue o dovrebbe distinguersi dalla fantastoria (quando non avviene, ciò dipende dal fatto che non tutti quelli che in tali “generi” si cimentano sono poi in grado di sostenere la sfida) in quanto parte da un determinato momento di storia realmente accaduta e, inserendo in essa anche una sola, impercettibile variabile, costruisce una storia alternativa che a sua volta segue una sua parabola d’infiniti fatti a loro volta esito di scarti successivi.
L’autore di fantastorie può sbizzarrirsi nella creazione d’infiniti universi fantastici, dove però di solito - e qui sta l’antistoricità, l’aporia, il controsenso-nonsenso, l’anacronismo - personaggi e magari cose si comportano come se vivessero in una realtà coeva a quella dell’autore o in una delle realtà storiche effettive con la quale egli ha maggior familiarità.
L’autore ucronico, al contrario, è tenuto al rigoroso rispetto della verosimiglianza storica ed è condannato a un immenso, infinito gorgo d’irrealizzate possibilità dalle quali mai emerge un percorso alternativo sicuro. Una volta dichiarato che se una certa cosa fosse andata diversamente la storia avrebbe potuto/ dovuto esser diversa, l’ucronista si condanna alla fatica di Sisifo di narrare una sola tra le infinite variabili possibili, che di per sé non avrebbe alcuna possibilità di realizzarsi superiore a nessun’altra e che di per sé non conduce a nessun punto d’arrivo e non prova nulla.
È qui che scivola l’ingenuo quanto odioso ottimismo moralistico di chi sentenzia che la storia “avrebbe potuto essere diversa” e dal mutamento di un fatto o di una condizione che in quel momento lo interessano pretende di pervenire a conclusioni assolutizzanti. I Professori di Scienza Democratica che ci hanno riempito le orecchie e le scatole con le loro tanto banali quanto improponibili analogie, per esempio quella ridicola tra Hitler e Saddam Hussein, per suggerirci che un mancato attacco all’Iraq all’inizio del 2003 sarebbe stato un errore paragonabile ai trattati di Monaco del 1938, che dettero nuova forza a Hitler ed ebbero come effetto finale lo scoppio della seconda guerra mondiale, saltano a piè pari da un presupposto ucronico - il fallimento delle trattative monacansi - a un risultato non ucronicamente assunto come relativo, bensì antistoricamente dichiarato come certo e assoluto: una rapida guerra preventiva dichiarata al dittatore e la sua immediata sconfitta, che avrebbe così risparmiato al mondo sei anni di sofferenze.
Ma la plausibile premessa, in questo modo, viene utilizzata come alibi per una conclusione la necessarietà della quale è inaccettabile: non meno plausibile sarebbe stato difatti uno sviluppo che avrebbe potuto condurre a una più stretta ed effettiva alleanza russo-tedesca, a un ingresso della Russia nel sistema d’alleanze dell’Asse e a una spartizione russo-giapponese, cui avrebbe potuto aggregarsi l’Iran, del continente asiatico: insomma a una finale vittoria di nazisti e comunisti alleati contro il mondo libero.
Il vero ucronista è condannato all’eterno scetticismo sull’esito delle cose umane: si può ipotizzare che quanto è accaduto non sia mai successo, ma non si potrà mai formulare alcuna verosimile ipotesi di accadimenti differenti la quale possa a sua volta proporsi come effettiva alternativa concettuale a quel ch’è accaduto.
Quel che nella storia è accaduto non ha alcun titolo di maggior verosimiglianza ripetto alle infinite cose che avrebbero invece potuto succedere, se non questa: che è avvenuto.
Renouvier ha parlato dell’ucronia come di una “utopia dei tempi passati”. È questa fragilità concettuale della storia che ci sorprende, ci preoccupa, potrebbe magari perfino farci disperare: se ancora credessimo che sia possibile vivere nel migliore dei mondi possibili, o che quel che accade è bene in quanto accade, ed accade in quanto è bene. L’ucronia ci libera dal fardello della necessità storica. E ci affida alla libertà: che spesso è come trovarsi senza strumenti di bordo, su una fragile imbarcazione in mezzo all’oceano in una notte senza stelle.
L’uomo non è mai solo, ha detto qualcuno in vena di belle frasi. Forse bisognerebbe ribattere che l’uomo non è mai libero. Non del tutto, non quanto talvolta s’illude di essere. Per fortuna?
Si ringrazia per la disponibilità alla pubblicazione la Vallecchi editrice, e in particolare la sig.ra Sebastiana Gangemi.
Grazie anche per il supporto ad Andrea Di Meglio di KAOSonline.