Riflessi di Porpora

di Giacomo Colossi
Secondo classificato al XVI Trofeo RiLL
[racconto presente nell’antologia Riflessi di Mondi Incantati, ed. Giochi Uniti, 2010]


The end of laughter and soft lies
The end of nights we tried to die

The Doors, “The end

Le betulle sulle rive del lago iniziano a vestirsi di smeraldo. Si riflettono nello specchio d’acqua gelida e danzano lente insieme al vento del nord, che le muove dolcemente, accarezzandole con pigrizia malinconica e nobile.
Le margherite sbocciano nell’erba che comincia a crescere, in mezzo al muschio umido che sa di terra e selva, tra i sassi tondi scolpiti dall’eternità dei tempi.
Un merlo saltella tra i rami di un cespuglio di fiori gialli che declina verso una spiaggia di sabbia grigia. Piccole onde regolari ritmano il lento nascere di questo giorno che mi ritrova in questo stesso posto, per quanto tempo ancora non so.
Vivo qui da sempre, da tanto tempo. Jim canta nelle mie orecchie... This is the end, beautiful friend. This is the end, my only friend...
Anche lui lo ascolto da sempre.

Il villaggio sorge su delle palafitte in riva al lago, quarantasette capanne di legno con tetto in lamiera e plastica, un camino interno per riscaldarsi dal lungo e freddo inverno di questa terra selvaggia.
Mio padre va a caccia e a pesca e coltiva un orto, mia madre tiene la casa, ci prepara da mangiare e ci istruisce. È l’insegnante del villaggio, la sola che tramanda le nostre tradizioni, la nostra storia, la cultura e la religione.
Io imparo, ascolto, leggo gli antichi libri ingialliti che lei, mia madre, custodisce in una capanna, la biblioteca, con cura amorosa, per noi, per noi ragazze e ragazzi; ma io non credo a mia madre. Non credo a ciò che dice. Non a tutto, almeno.

Il primo l’ho visto una mattina di circa sei mesi fa. Ero uscita presto con la canna da pesca costruita da mio padre per andare a catturare pesci per il pranzo. Mi ero sistemata su una roccia, in un punto in cui un piccolo torrente si getta nel grande lago, un posto che mi ha consigliato mio zio, grande pescatore di lucci.
Il sole stava salendo da dietro una bassa collina ed il cielo era di una profondità turchese commovente. Era autunno, ascoltavo Jim da una vecchio registratore a nastro...
Can you picture what will be. So limitless and free. Desperately in need of some stranger’s hand. In a desperate land...
Il galleggiante di sughero scivolava leggero sulla superficie a specchio e ogni tanto andava sotto per poi riaffiorare, saltellare, a dimostrazione che i pesci che nuotavano in quell’acqua trasparente erano intelligenti.
Ma è stato quando il galleggiante è andato definitivamente sotto che, a meno di cinquanta metri da me, nascosti tra due rocce, ho visto due occhi neri come il cielo senza stelle e senza luna. Due occhi da lemure, due diamanti neri incastonati in una sagoma umana rossiccia, dai contorni imprecisi.
Quel giorno sono tornata a casa di corsa, senza pesci e senza canna da pesca. L’ho gettata verso quell’ombra furtiva che, veloce come un gatto, è scappata a nascondersi nella foresta.

Quando sono arrivata a casa e ho raccontato cosa avevo visto mia madre mi ha preso in disparte e mi ha detto che non avrei dovuto dirlo a nessuno, a nessuno dei miei amici, a nessun parente, nemmeno a mia sorella. Mi ha guardato dritto in faccia, con occhi velati da non so quale mistero e poi ha sussurrato: “Ricordati chi siamo e che viviamo qui da sempre. Ricordatelo. Quelli sono soltanto fantasmi. Non esistono, Irene. Non esistono!”

Mia madre dice che il nostro Dio ha creato ogni cosa, l’intero Universo visibile ed invisibile. È lui che ci ha fatto nascere qui, è lui che ci ha donato questa grande e fertile terra, con il lago, il fiume, le praterie, le montagne tutte intorno, le foreste, gli animali, il cielo sopra le nostre teste. È lui che ci protegge.
Mia madre dice che i frammenti di cristallo della grande isola non hanno alcun significato, sono resti naturali dovuti alla normale erosione rocciosa; ma Benko dice di no. Benko dice che sono i resti di un’antica casa.
Una casa che ci conteneva tutti, un tempo.

Benko vive nell’ultima palafitta a nord e la sua piccola barca la tiene sempre ormeggiata vicino ad una roccia nera. Benko non è ben visto dai miei genitori e nemmeno da tutti gli altri adulti. È un agnostico, uno che non segue i sacramenti e che coltiva solo la terra, non pesca e non va a caccia. È vegetariano e mangia quel tanto per sopravvivere. È magro e piccolo e fuma sigarette fatte di foglie e fiori di una strana pianta che solo lui coltiva.
Benko spesso parte per le montagne e rimane lontano dal villaggio per interi giorni. Nessuno lo fa, soltanto lui ha il coraggio di andarsene e ritornare quando vuole, col suo zaino color corda in spalla, il sacco termico per dormire, una bussola digitale ed un bastone di quercia come solo compagno di viaggio.
È un uomo solitario e mite, Benko, e sono abbastanza grande per capire il perché non piaccia agli altri: è per le parole che dice, fanno pensare. Sono le storie che narra che turbano. A mia madre dà i brividi, Benko Celindo Mor.

Il secondo l’ho visto oggi. Stavo salendo sulla collina delle querce per raccogliere un po’ di legna piccola da portare a casa. Attraversavo una radura disseminata di margherite, violette e papaveri rossi, con una fascina sulle spalle, un paio di occhiali da sole sugli occhi e un cappello di paglia in testa… e pensavo alla festa di Nostro Signore, la più importante festa religiosa del villaggio, che il sacerdote avrebbe celebrato tra poche ore, al tramonto.
Volevo arrivare a casa in tempo per i preparativi, ma qualcosa si muoveva tra i cespugli di ligustro che crescevano alla base di due grandi olmi secolari.
Ho pensato subito ad un animale, ad un lupo o ad un orso e d’istinto la mia mano destra è corsa all’accetta affilata attaccata alla cintura di cuoio dei pantaloni.
I cespugli ondeggiarono lenti e due uccelli se ne uscirono e volarono via.
Poi mi resi conto del silenzio che mi aveva avvolto. Un silenzio innaturale. Nemmeno il vento parlava più.
Tutto era immobile, il tempo... fermo. Aspettava, anche lui.
Il solo rumore che sentivo era quello del mio cuore. Pulsava nelle tempie, nei polsi, nel collo e nel petto. Pulsava e pulsava e la mia mano stringeva l’accetta d’acciaio, la mia mano sudava e i miei pensieri si offuscavano.
La paura stava vincendo.
Quando l’ho visto, per un istante infinito ho pensato solo alla morte.
Mi sono immaginata con il ventre squarciato e il mio sangue che schizzava ovunque, la testa che precipitava giù dalla collina, i miei occhi sbarrati che osservavano il mondo rotolare fino al lago.
Era alto, scarlatto, fluttuante, gli stessi occhi che mi avevano già osservata tempo prima. Ha emesso qualcosa di incomprensibile, un verso gutturale e sordo, non so da dove, ed il cuore mi è piombato in gola.
Poi se ne è andato via ed io sono rimasta lì in silenzio, impietrita, sudata, e solo dopo mi sono accorta di essermi pisciata addosso.

A casa non ho detto niente. Le parole di mia madre ormai le conosco a memoria: devo solo stare zitta e non parlare con nessuno, devo solo convincermi di avere visto degli spettri che non possono farci nulla. Invisibili sono e invisibili devono restare. Sono solo riflessi: riverberi di un mondo che non esiste.

Per calmarmi, per non pensare, per far finta che tutto sia normale, faccio quello che fa mia nonna, da quanti anni non lo so... mi ficco gli auricolari nelle orecchie e ascolto Jim...
And all the children are insane. All the children are insane. Waiting for the summer rain. There’s danger on the edge of town. Ride the King’s highway...
Mia nonna Giulia lo ascolta fumando sigari di salvia selvatica. Dice che così si assapora meglio il brano di Jim, unica registrazione su nastro rimasta nel villaggio.
Esiste da sempre.
Io stavolta lo ascolto per dimenticare quegli occhi, che esistono, che non sono il barbaglio di niente. Sono veri, reali come questa musica, e quei corpi... molli, simili ai fantasmi delle fiabe, ma veri, vitali.
Jim canta... Ride the snake... To the lake... Io mi muovo, lentamente ballo.

Dopo il pranzo esco e dico a mia madre di non aspettarmi. Non ne posso più delle sue mezze parole. Mia madre non vuole parlare con me. Ho diciassette anni ma mi tratta come una bambina. Mi nasconde tante cose, mi racconta solo ciò che conviene venga raccontato. Ma io sono stanca di bugie e verità parziali.
Forse l’unico che mi può aiutare veramente è Benko.

La capanna di Benko è un rudere. Il tetto in lamiera è arrugginito e pieno di buchi, la plastica si è deformata, le assi di legno stanno marcendo e lui non le sostituisce. I pannelli solari sono ridotti malissimo. Se non si mette al lavoro tra un paio d’anni della sua casa non rimarrà nulla; ma sono certa che a lui non importa granché della sua casa e del villaggio e di noi tutti.
Benko deve sapere cose che noi nemmeno immaginiamo.
C’è qualcosa che mi ha sempre attratto di lui, la sua parte oscura, la sua libertà, la sua energia nevrotica, la sua volontà di andare contro corrente costi quel che costi.
Oggi però non è in casa e la sua barca non c’è. Che fare?

Decido: entro ugualmente nella sua capanna.
La porta cigola quando la apro. Il sole è alto e caldo. Dentro, il solito camino di pietra grigia e metallo, un tavolo di plastica, un letto, una cucina elettrica, una libreria con decine di libri, fogli di carta sparsi su un comò, matite, lampade a olio, una radio rotta, una calcolatrice scarica, una cartina geografica appesa sul muro a nord, con segnati decine di punti rossi sulle montagne della valle ed un punto nero con il nome del nostro villaggio.
Sulla carta geografica riconosco una frazione di Isola, l’isola grande che sorge davanti al nostro villaggio. Anche sull’isola è segnato un punto, blu, con un nome che ho sentito pronunciare solo da Benko: Casamadre.
È il luogo più importante, dice, uno di quei posti che sui nostri libri non vengono mai citati, come tutti quei puntini rossi sulla cartina geografica del nostro mondo, della nostra valle incastrata tra le montagne ed il lago.
Ma io lo so, lo so bene che i nostri libri non dicono niente, raccontano solo la storia sbagliata, quella che per anni ha insegnato mia madre, quella che non sopporto più, che non dice, non spiega, che evita le domande, che non vuole risposte. Secondo quei libri siamo qui da sempre, secondo Benko no.
Lui dice che siamo arrivati qui, ma non sa dire da dove e da quanto tempo.

Benko dice che per poter annientare completamente un popolo gli devi togliere la storia, la memoria, i ricordi. Devi seppellirlo tutto dentro l’oblio del tempo. Non si rialzerà mai più, e se un solo suo pensiero scivolerà fuori dall’Inferno in cui l’hai scaraventato, allora dovrai solo delegittimare quel pensiero. E così quel popolo morirà per sempre. Benko dice che è ciò che hanno fatto a noi.

Mio padre sostiene che Benko è pericoloso e che finirà male e che gli dobbiamo stare alla larga perché ciò che predica, ciò che scrive su certi quaderni, è del tutto falso, pura invenzione della sua mente malata. Ma io non gli credo.

Quello che dice Benko, quello che fa, mi affascina da sempre, e adesso che per la prima volta ho messo piede in casa sua avverto la necessità di capire, di sapere chi sia veramente quell’uomo.
Sono convinta che ciò che lui sta facendo riguarda anche la  mia vita. I suoi viaggi, le sue ricerche, queste cartine, hanno a che fare con la domanda a cui nessuno vuole dare una risposta: perché siamo qui. Ma non è oggi che otterrò spiegazioni da lui. Oggi lui non c’è e non so quando ritornerà.
Mi giro per uscire fuori dalla sua capanna ed è allora che li vedo. Sono appoggiati su una mensola, proprio sopra la porta di ingresso. Sono due quaderni. Mi guardo attorno, sbircio dalla finestra e poi prendo una sedia, la appoggio alla porta e salgo.
So che non dovrei farlo, ma l’impulso che mi spinge a prendere quei quaderni è irrefrenabile. Voglio leggerli. Li prendo con la mano destra e li spolvero con la sinistra. Sono due quaderni ingialliti e dalla copertina marrone.
Scendo dalla sedia, li metto nei pantaloni ed esco da quella casa, con il cuore in gola. Ma sono certa che Benko me li avrebbe dati.
Prendo la via per la spiaggia. Il caldo di questa giornata di aprile è gradevole ma mi fa sudare, oppure è il rimorso che mi fa gocciolare le ascelle e la fronte.
Tra i vari pensieri che mi si accavallano nella testa ve ne sono di terribili, che né la mia famiglia né il consiglio degli anziani potrebbero tollerare.
La mia voglia di andare via di qui, di scappare, di valicare le montagne che ci inchiodano sulla riva di questo lago, di affrontare l’ignoto, la associo ormai alla necessità che ho di conoscere i posti che ha conosciuto Benko, al desiderio di oltrepassare i confini fisici di questa terra in cui vivo da reclusa.
E solo Benko mi può aiutare, solo lui mi insegnerebbe la strada per allontanarmi, solo lui avrebbe parole certe da dirmi. Lo ha già fatto, una sola volta, con un ragazzo che è poi stato rinchiuso tra le mura di casa, e per averlo fatto Benko ha dovuto subire il giudizio del tribunale del villaggio, che gli ha promesso l’esilio in caso fosse accaduto di nuovo. Ma Benko lo rifarebbe.

Sulla spiaggia non c’è nessuno. L’acqua verde azzurro del lago è ferma e invita a bagnarti. Tolgo la maglietta e rimango con il seno all’aria. È tutto così gradevole e bello e... vietato.
Prendo i due quaderni dai pantaloni e mi stendo sulla sabbia, a pancia in giù. Penso a Benko, penso agli occhi neri che ho visto, penso alla mia famiglia e poi guardo uno dei quaderni.

A casa, la sera, a cena, non parlo. Sto pensando alle venti pagine che ho letto oggi. Ogni tanto guardo mia madre che parla con mio padre, poi faccio scorrere gli occhi su mia sorella, poi sui mobili della casa, sulle finestre, poi abbasso gli occhi sul piatto e osservo la minestra di fagioli fumanti.
I fagioli scuri e gonfi galleggiano nel brodo rosso e allora chiudo gli occhi e rivedo la scena descritta a pagina 7. La rivedo e la rivedo e poi rialzo lo sguardo e mia madre mi sta guardando e sta dicendo qualcosa, ma non sento la sua voce. Scivola su di me e mi attraversa, ma non la sento. Mio padre parla e mi guarda e mia sorella smette di mangiare e mi osserva con quei suoi occhi azzurri e grandi, troppo grandi e dolci per poter sostenere a lungo quel suo innocente sguardo. Un brusio vibrante è l’unico rumore che le mie orecchie sentono, un fruscio misto a rumori secchi e formicolii ai timpani, a visioni di lucciole, sì lucciole, tante piccole lucciole colorate, prima del buio. Del buio e del duro pavimento che precipita su di me.

Il dottore ha detto che devo mangiare più carne. Mia madre l’ha preso in parola e ogni due giorni mi cucina della selvaggina cacciata da mio padre. Hanno preso tutti un bello spavento, ma loro non sanno perché mi sono sentita male.
I quaderni di Benko li ho nascosti sotto il letto, tra la rete e il materasso. Spero che mia madre non li trovi. Le dò sempre una mano quando si rifanno i letti, anche adesso che sono ufficialmente malata, deperita. Sono troppo magra, dicono, tutta occhi e seni. Ma non ho nulla, solo una gran voglia di scappare via di qua.
Ma per andare dove? Dio mio...!

Il sole alto delle dieci penetra dalla finestra e la mia stanchezza per questa casa si fa sentire. Voglio uscire. Sono satura di questi odori, dei tre giorni passati in questo letto, del continuo andare e venire di mia madre, delle sue domande, dei silenzi indagatori di mio padre, del suo incedere lento, sempre aggrappato alle parole di sua moglie, di mia madre che sa sempre quel che bisogna fare, quel che si deve fare, sempre, in ogni occasione della vita, in ogni circostanza, qualunque essa sia. Il suo saccente carattere mi irrita da sempre.
Prendo i quaderni da sotto il letto, indosso una maglietta e un paio di jeans ed esco. L’aria del mattino mi piace, è fresca, mi scompiglia i capelli ormai lunghi fino alle spalle. Vorrei solo andarmene da qui, ma ormai so che non ci è consentito. Osservo le montagne intorno a me, il lago, e penso ad una prigione.
Ascolto Jim... The blue bus is calling us. The blue bus is calling us. Driver, where are you taking us?... e leggo Benko...

“Casamadre era fatta di metallo trasparente, simile al cristallo. Era più resistente di qualsiasi altro metallo. La sua struttura veniva attraversata dalle onde gravitazionali, entrava in risonanza con loro, vibrava, e questo accendeva i suoi propulsori antimateria...”
Sollevo la faccia da quelle pagine e ascolto Jim... The killer awoke before dawn. He put his boots on. He took a face from the ancient gallery. And he walked on down the hall... e osservo le increspature bianche delle onde che si lanciano sugli scogli.
Vedo i miei pensieri che nascono e repentinamente si infrangono sulle imperfezioni della mia anima, del mondo, sugli orrori del nostro vivere, sul pianto dei bambini e sulle urla delle madri, sul sangue versato e sul dolore, sul male che non si cancella mai, che ritorna, sul tormento che non viene mai diluito con niente, in questo universo incomprensibilmente lontano, distante dall’uomo, freddo.
Mi aggrappo solo ad un concetto d’amore, antidoto al nulla eterno, ad un sentimento che diluisce la blasfemia di questa vita da larve, da predatori destinati a diventare prede. Dove sia Dio non lo sa nessuno. Io almeno non lo so.
Leggo...
“La guerra durava da venticinque anni. Le bombe cadevano sui rifugi. Ma durante le guerre la scienza fa passi da gigante, e noi fummo i primi a realizzare e provare la macchina. Ora siamo qui perché quella macchina non ha funzionato...”
Chiudo il quaderno e scruto in fondo al lago mosso, come a voler cercare una risposta, un qualche segnale, un gancio cui aggrapparmi per farmi portare via, via da qui, lontano, in un altro posto. Ma non esiste quel posto. Lo so.
Siamo inchiodati qui... e per sempre.

A casa mia madre ha già preparato il pranzo. Mio padre è in bagno che si lava le mani e mia sorella è già seduta al tavolo, affamata.
Non ho fame. Mi siedo vicino a mia sorella e le accarezzo la testolina. Ha sei anni ma ragiona come una grande. Mi fa un sacco di domande su tutto e io cerco di darle risposte diverse da quelle che danno mia madre e mio padre.
Quando anche i miei genitori sono seduti a tavola parlo: “Casamadre era un vascello temporale. Volevamo fuggire dalla guerra per trovare un posto, sulla Terra, indietro nel tempo, nel Pleistocene, un posto in cui si potesse vivere in pace, un posto vergine, un posto senza guerre in cui vivere felici, senza interferire con i Neanderthal, i Cro-Magnon, i Sapiens. Un posto dove insediare la nostra gente, perseguitata per decenni da dittature orribili. Avanti non si poteva andare, c’erano solo guerre. Però c’è stato un errore...”
Mio padre osserva mia madre e si fa serio, nel suo solito modo, piegando le labbra verso destra. Mia madre sa che deve rispondermi adesso.
“Chi te lo ha detto?”, dice con voce calma.
“Non ha importanza” le rispondo io.
Mio padre smette di mangiare e appoggia le posate sul piatto. Mi fissa come mai ha fatto prima, penetrandomi con lo sguardo, come a voler raggiungere la mia anima, per imprimervi qualcosa di assoluto, e dice: “Ora che lo sai cosa ci hai guadagnato? Non puoi andartene. I puntini rossi sulla cartina nella casa di Benko sono la frontiera di questo posto. Lui è arrivato fino lì e ha capito che oltre non si va. Ci ho provato anch’io, sai? Esiste un muro, una specie di vortice temporale che ricaccia indietro tutti. Qui siamo arrivati, e qui resteremo.”
“Perché non me lo hai detto prima?”, gli rispondo io, guardandolo dritto negli occhi. Non lo riconosco, mi sembra di parlare con lui per la prima volta.
“Perché volevo... che tu sognassi ancora...”, mi risponde con dolcezza esasperata, con lo sguardo perso di chi non sa più cosa dire. Poi si alza ed esce di casa.
Mia madre piange, mia sorella ci guarda ma non capisce. Io capisco solo ora.
Capisco tutto. Ed è troppo tardi per cancellare la verità, adesso.
Cerco il volto di mio padre oltre la finestra della casa, ma non lo trovo.
Vorrei abbracciarlo, mio padre.

The ancient lake, baby. The snake is long. Seven miles. Ride the snake...
È la sola canzone che si è salvata dopo che Casamadre è andata distrutta arrivando qui, non so quanto tempo fa. Forse secoli fa.
Non invecchiamo, o forse sì, ma molto lentamente.
Mio padre mi ha detto che Benko è pazzo perché non accetta la verità.
Ora gli credo. Siamo intrappolati in una crepa temporale, come acqua nella fessura di una roccia. Ho giurato che non dirò nulla a mia sorella, e a nessun altro.
I fantasmi rossi, dice mio padre, non sa chi siano. Forse sono riflessi porpora di uomini che ci stanno cercando, o di altri che si sono persi prima di noi, o dopo di noi. O forse sono solo fantasmi.

Mia madre vuole che diventi la prossima insegnante del villaggio.
Credo che le dirò di sì.


Giacomo Colossi è nato nel 1963 a Brescia.
Laureato in Matematica, insegna alle scuole superiori. Il suo canale Youtube (giacomo colossi) raccoglie i cortometraggi realizzati dagli studenti del suo istituto, realizzati sotto il coordinamento suo e della collega Vilma Razzi.
In ambito letterario, ha vinto o è stato finalista in decine di concorsi nazionali. Con “Riflessi di porpora” si è classificato al secondo posto al XVI Trofeo RiLL, nel 2010.
Ha pubblicato il romanzo di fantascienza “Marte anno zero” (Europa Edizioni, 2014) e “Mondi nell’ombra” (2015), antologia che raccoglie una parte dei suoi racconti, molti dei quali premiati in concorsi letterari.
Il suo prossimo romanzo uscirà nel 2016.

 

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