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di Mattia Prosperi
Secondo classificato al I Trofeo RiLL
[racconto presente nell'antologia Mondi Incantati, Novecento GeC, 2003]
Stone si grattò la testa calva. Negli ultimi giorni gli prudeva più del solito. Cercò di ricordare che sensazione si provasse a passarsi la mano fra i capelli. Non ci riuscì: era passato troppo tempo da quella dannata missione che l’aveva infarcito di radiazioni.
Fortunatamente ci aveva rimesso solo i capelli: avrebbe potuto andare peggio, molto peggio.
Il ticchettio della stampante echeggiò nel locale sotterraneo.
“Ancora un assestamento” osservò il collega studiando il geogramma.
“Già” convenne Stone.
“Guarda qui: la faglia si sta polverizzando.”
“Che dicono i tettonici?”
“Sicurezza! Non riesco a strappargli altro.”
“Siamo anche noi della Sicurezza!” protestò il collega.
“Vaglielo a spiegare tu”, disse Stone scuotendo la testa.
Leeve s’incamminò.
La sua casa e quella di Erika distavano una sola fermata di sotterranea, ma lui amava passeggiare.
“Che sole! Sempre peggio” non poté esimersi dal mormorare, cercando di ripararsi gli occhi con una mano. La strada era deserta: pozze di luce macchiavano l’asfalto e l’aria tremolava per il calore.
Ormai era l’unico che osava stazionare all’aperto, a parte Alex. Ma Alex era costretto a farlo, se voleva andare a scuola.
“Almeno funzionasse lo schermo antiozono!” continuò. “Ma quando si decidono a rinforzarlo?”
Superò la porta magnetica ed entrò in casa.
“Leeve! Te la sei fatta a piedi, vero?” chiese la madre notando le scarpe impolverate del ragazzo: troppo impolverate per i pochi metri che separavano la loro casa dalla stazione.
“Sì” confessò lui seguendo lo sguardo di lei.
“Ancora giri fuori, con questo tempo?”
“Ma mamma...”
“Lo sai che è pericoloso... domani prendi la teletras” lo ammonì.
“Sempre la via sotterranea: alla fine diventeremo talpe! Io VOGLIO stare fuori”, protestò Leeve.
“Ne abbiamo già parlato...”
“Ma perché non andiamo a Proxima?”
“Ehi! Lo sai che non abbiamo abbastanza soldi” esclamò la madre, irritata.
“Però... Ah, lasciamo stare!”
Cenò ed andò a studiare. Al di là dei vetri opacizzati, un sole gigantesco galleggiò per un attimo sull’orizzonte e fu rapidamente inghiottito dalla terra. Leeve ripose i libri, prese le pillole per il sonno e si adagiò sul letto.
Qualcuno gli scosse la spalla. “Anche questa nuova regola degli orari, ci si mette!” brontolò il padre. “Leeve, svegliati! L’alba retrocede di altre tre ore: motivi di assestamento, dicono. Non sanno più che inventarsi, questi maledetti della Sicurezza.”
Il ragazzo gettò uno sguardo cisposo all'orologio. “Ma sono solo le quattro!” mugugnò.
“No, secondo loro sono le sette. E anche secondo il sole” disse il padre indicando la finestra. L’astro stava emergendo dall’orizzonte come una palla infuocata.
“Almeno ci dicessero la verità” commentò la madre “Lo sappiamo tutti che non funziona più niente.”
Leeve si vestì di malavoglia, raccolse i libri e, con la testa ancora ovattata di sonno, scese in strada.
Prese la teletras.
“Ciao Alex, come va?”
“Una schifezza, e tu?” rispose l’altro.
“Al solito, peggio del solito... a proposito, quand’è che parti?” chiese Leeve con uno strano tono.
“Non lo so. Fra un po’ di tempo, non molto, comunque. Stiamo preparando le ultime cose.”
“Eh! Beato te. I miei neanche vogliono sentirne parlare” lo interruppe lui. “Ieri ho accennato a Proxima e per poco mia madre non mi strozzava.”
“Vedrai che prima o poi si muoveranno anche loro; qui sta per scoppiare tutto” concluse Alex.
Entrarono in classe. Fuori il bidello era affaccendato nella pulizia dei filtri per l’aerazione: la TV aveva annunciato la solita bufera di fumo del meriggio. Il bidello era infagottato da capo a piedi nella tuta. Si udì in lontananza uno strano rumore, quasi un colpo di tosse prolungato. Il bidello continuò a lavorare ai filtri. Il rumore cessò.
Leeve superò un’interrogazione.
Un’improvvisa folata di vento-fumo strappò il filtro dalle mani del bidello. “Maledizione!” mormorò il bidello, mentre il sudore gli ruscellava all’interno della tuta. Il filtro era rotolato lontano.
Suonò la ricreazione, e Leeve poté fumare in bagno: “Una volta tanto quel rompiscatole del bidello non c'è”, disse scherzando con gli amici.
Il vento stava montando. “Meno male, si è incastrato laggiù” pensò il bidello. “Forse riesco a riprenderlo.” Lentamente si apprestò a recuperarlo. “Sono solo pochi metri”, disse.
Il vento nero gli sbatté contro, insinuandosi nella tuta che si gonfiò come un palloncino.
Leeve tornò a casa, cenò, dormì.
Arrivò il fine settimana: poi di nuovo lunedì e di nuovo a scuola. Il bidello era ancora a fare due passi.
“Ciao ma’ ” esclamò Leeve rientrando a casa. “Posso andare da Alex oggi?.”
“Mmm... Sta al di là dell’ultima stazione” obiettò la madre.
“Solo pochi metri al di là” osservò il ragazzo.
“Okay... Okay. Cercate di studiare però.”
“Ehi! Lo sai che non me lo devi neppure dire” la rassicurò lui, e sgattaiolò in camera...
La città era stata divisa in due parti dal crollo fagliatico dell’anno precedente: la teletras spezzata in due tronconi e con essa anche i collegamenti verso il mare. Se di mare ancora si poteva parlare!
Il resto del paese non stava certo meglio: i contatti si mantenevano ormai solo per via radio.
Alex abitava proprio vicino alla faglia: una ragione di più per affrettarsi a migrare verso Proxima. La maggior parte della gente se ne era già andata. Quasi tutti quelli che potevano permetterselo erano migrati su Proxima: il pianeta GIOVANE E SANO, come lo descrivevano le pubblicità martellanti.
Ed era vero: su Proxima gli uomini stavano costruendo un nuovo mondo, ed erano decisi a conservarlo nel miglior modo possibile.
E la Terra? La vecchia e decrepita Terra? Solo chi non aveva abbastanza soldi continuava a popolarla. E qualche vecchio nostalgico.
La famiglia di Leeve apparteneva alla prima categoria. Entrando a casa di Alex, Leeve notò i pacchi ammonticchiati in ingresso, e non poté trattenere un po’ di tristezza; gli dispiaceva veramente che l'amico se ne andasse. Avvertì anche, suo malgrado, una punta d’invidia.
Passò una settimana, ed Alex comunicò all’amico la data della partenza.
“Tra due giorni?!? Ma avevi detto che ci sarebbe voluto ancora un po’ ” esclamò Leeve incredulo.
“Lo so... Però i miei hanno trovato un posto libero su un volo... Avremmo dovuto aspettare ancora un mese...”provò a giustificarsi l’altro.
Leeve si rassegnò. “Ok, tanto prima o poi dovevi partire.”
Giù nel sottosuolo c’era una gran confusione e gli addetti alla sicurezza scuotevano gravemente la testa: “Ehi, qui finiamo veramente male. Stone! Guarda nel monitor: che cavolo sta succedendo là sotto?”
“ASSESTAMENTI?” ironizzò l’altro.
Il collega gli offrì del caffè sintetico; bevvero in silenzio.
“Domani parto pure io” disse Stone. “Su questa bomba non ci voglio restare un minuto di più.”
“Sono d’accordissimo” rispose l’altro. “Ma come la mettiamo con la relazione? Io non me la sento di lasciare tutto così.”
“Non lo chiedere a me. Chiedilo ai tettonici. Lo sai anche tu che tra un paio di... mesi succederà quello che succederà... è inevitabile, amico.”
“Già, meglio non pensarci...”
Titolò il foglio.
ASSESTAMENTI, scrisse.
Alex partì con lo Shuttle delle sei, e Leeve tornò a casa nero. Veramente nero.
“Leeve! Si può sapere che hai? Sei strano!” lo interrogò il padre.
“Eh! Cos’ho!” grugnì, incassandosi nelle spalle. Rimase chiuso in stanza per tutto il giorno.
Arrivò di nuovo la domenica, e Stone era già su Proxima ad abbronzarsi. Leeve tornò a scuola e cercò di non pensare al bel pianeta; un ultimo e violento confronto verbale con i suoi lo aveva fatto calmare un poco: pareva che suo padre fosse riuscito a racimolare i soldi per il viaggio. Si era impegnato anche la camicia, aveva detto.
E Leeve ricominciò ad uscire: “Non è pericoloso” diceva a sé stesso. “E poi non me ne frega niente.”
Il vento nero soffiava sempre più spesso, non solo nel meriggio, ma anche durante la notte. Lo sentiva sbuffare attraverso i vetri della finestra: una volta gli sembrò addirittura che tentasse di scardinare gli infissi, di insinuarsi nella sua stanza con artigli tenebrosi. Ma era solo un sogno: quando si svegliò il sole l’aveva spazzato via. Aumentavano anche i fumi dalla terra, le crepe, i cedimenti. Ed i mostri.
“Ahh! Un mostro!” esclamò Leeve gettandosi sulle spalle di Erika.
“Scemo!” rise lei, e lo abbracciò. Erika, una dei pochi AFFEZIONATI come lui. “Allora? Ancora non ti muovi da qui?” gli chiese. “Guarda che alla fine rimaniamo solo noi due!”
“Magari!” rispose lui. “Ti accompagno?”
“Sì. Non prendiamo la teletras, però. Andiamo a passeggiare nel romantico giardino nero vicino casa mia. Arido, tossico e appena appena radioattivo. Ti va?” chiese con aria maliziosa. Erika amava il pericolo. Ne era eccitata. A lui piaceva l’eccitazione di Erika. Leeve la accompagnò a casa. Attraversarono il giardino nero, ma non si fermarono.
Erika era figlia di un pastore, uno degli ultimi rappresentanti della vecchia religione: la madre era morta da tempo. La chiesa del pastore era stata distrutta dal crollo fagliatico, ma già da molti anni veniva aperta solo saltuariamente: da quando erano iniziate le migrazioni su Proxima gli uomini si erano costruiti un nuovo credo, conforme alla loro rinnovata vita. Ma il buon pastore rimaneva ancorato alla cara Terra ed alla sua missione religiosa.
“Ciao” disse Erika salutandolo con un bacio.
“Ciao” rispose Leeve.
Passarono altre due settimane, arrivò la fine del mese. Leeve accese la TV.
“Abbiamo trasmesso le ultime notizie. Arrivederci e buon week-end.”
“Arrivederci, se non spostate l’ora ancora più avanti. Così praticamente ci svegliamo la sera del giorno dopo” disse Leeve spegnendo la TV.
Si preparò per la scuola, anche se ormai non aveva più senso.
Suonò la prima ora: matematica.
Suonò la seconda ora: fisica.
Ricreazione.
La terza ora non ci fu, l’insegnante di lettere era partita.
Quarta ora, lingua straniera, anch’essa senza insegnante.
Quinta ora, scienze: il professore tenne una lezione sulla geologia e l’ecologia. A metà della spiegazione iniziò ad urlare, con sguardo allucinato. Il vicepreside (il preside aveva dato le dimissioni da oltre un mese) fu costretto a trascinarlo via.
Non videro più l’insegnante di scienze.
Non videro più nemmeno il vicepreside.
Leeve accompagnò di nuovo Erika. Decisero di non avventurarsi all’aperto e si arrivarono verso la teletras. Salirono. Le porte magnetiche si richiusero. Il veicolo partì.
“Hai visto che tempo?” chiese Erika. “Il vento continua ad aumentare e ci sono continue emissioni di gas”.
“La TV non ne ha parlato” rispose lui.
“Già, per loro la Terra è ancora ricoperta da prati e fiori, e non c’è nessun problema... Che cavolo... sta succedendo?”
La vettura ebbe uno scossone e la velocità aumentò.
“Si deve essere scassato il modulatore di controllo!” urlò Leeve aggrappandosi al sedile. “Erika! Il freno manuale!”
“Non ci arrivo!”
“Aspetta! Ecco! Tiralooo!”
La teletras sbandò in una curva e toccò la parete destra del tunnel: lo stridìo delle lamiere li assordò. Poi sbandò nel senso opposto. Il locomotore fu trafitto da una traversina che un improvviso smottamento aveva divelto dal pavimento. I vagoni si rovesciarono, trascinandosi sulle rotaie come animali feriti a morte.
Erika sbatté la testa e perse i sensi, Leeve fu catapultato in avanti.
Suonò il campanello della porta.
“Finalmente quello sciagurato arriva” disse la madre andando ad aprire. “Ma adesso mi sente!”
“Mamma!” gemette Leeve. I vestiti erano a brandelli, un ginocchio sanguinante, le mani escoriate e la faccia nera di fuliggine. “La teletras! Un incidente... ci siamo salvati per un pelo.” Adagiò Erika fra le braccia di sua madre e si accasciò a terra.
“Allora oggi è il gran giorno!” disse Leeve sollevando una valigia.
“Sì, hai avvisato Erika di farsi trovare all’ingresso dello spazioporto con il padre?”
“Certo, mamma!” sorrise il ragazzo, ed uscì zoppicando: il ginocchio gli doleva ancora ed anche le mani gli bruciavano.
Era passato solo un mese dall’incidente della teletras. Quell’incidente aveva però indotto i genitori ad accelerare le pratiche per l’emigrazione.
Ed anche il padre di Erika si era convinto: la missione religiosa aveva ceduto il passo all’amore per la figlia. Una scelta mitigata dalla consapevolezza che una missione con il solo missionario non aveva più alcun senso. Ora tutto sarebbe andato a posto. Il tempo di guarire.
Le due famiglie si trovarono allo spazioporto verso le dieci. “Ma quando arriva?” esclamò trepidante Erika. Poi lo videro. Fu prima un puntino, poi un cilindro affusolato che fendeva l’aria abbacinante di luce.
Lo Shuttle iniziò la procedura di atterraggio.
Intanto si era alzato il vento nero.
Lo Shuttle si posò sulla pista. I motori si spensero. “Cinque minuti all’imbarco” gracchiò dall’altoparlante la voce di un controllore di volo.
Il vento aumentò d’intensità. Una leggera scossa della terra.
Leeve, il padre, la madre, Erika ed il pastore si avviarono verso lo Shuttle, con passi ansiosi.
“Non facciamo scherzi” pensò Leeve.
Il vento divenne più forte. La terra tremò ancora.
Si affrettarono verso l’elevatore, insieme agli altri passeggeri. Un gruppo di hostess li accolse all'interno.
Lo Shuttle vibrava sotto l’impeto del vento sempre più impetuoso. La pista di atterraggio fu percorsa da un lungo brivido. Lo Shuttle ondeggiò.
Poi la terra si spaccò, profonde fenditure saettarono come fulmini verso la navicella. Fiotti di lava riempirono le fenditure. Lingue violacee di fiamma eruttarono dalla terra.
Un lungo rumore. Un tuono rimbombante, senza fine.
Una fenditura raggiunse la base dello Shuttle.
Il veicolo rimase per un attimo in bilico sulla voragine.
Poi iniziò a cadere, lentamente.
La Terra si aprì per accoglierlo.
ASSESTAMENTI?
Mattia Prosperi è nato nel 1978 a Roma, dove vive.
Laureato in Ingegneria Informatica, è un appassionato lettore, in particolare di Borges, Garcia Marquez, Bulgakov, King e Tolkien.
Ha partecipato a molti concorsi letterari, vincendone anche alcuni (“C’era una volta e c’è ancora…”, ARCI Ragazzi di Cesena, 1992; “…”, indetto dal Dopolavoro delle Ferrovie dello Stato, 1999).