Il peso degli Angeli

di Guido Alfani
Vincitore del VI Trofeo RiLL
[racconto presente nell'antologia Viaggio a Mondi Incantati, Nexus Editrice, 2005]


Era tarda sera quando mi mandarono a chiamare perché mio padre stava morendo. Mi dissero che il prete gli stava somministrando l’estrema unzione proprio in quel momento. Abbandonai sullo scrittoio le carte che stavo consultando, e mi precipitai verso le stanze dei miei genitori: non volevo assolutamente arrivare troppo tardi. Avevo qualcosa da dirgli, prima che spirasse.
Si erano raccolti tutti nel salotto adiacente alla sua camera. Mio cugino Vincenzo mi rivolse un cenno col capo, e disse che il vecchio mi stava aspettando. Quella sera, indossava un ampio mantello, nel vano tentativo di nascondere la sua deformità. Io la fissai ostentatamente. Fin da quando eravamo adolescenti, mi erigevo in tutta la mia notevole statura e lo deridevo per la sua figura contorta. Di solito, a quel punto scoppiavamo entrambi a ridere, lui perché era convinto che presto la mia schiena avrebbe ospitato un’escrescenza più ributtante della sua, io perché sapevo che si illudeva.
La gobba, per così dire, è un dono di famiglia. Tuttavia, è alquanto strano che mio cugino l’abbia ereditata. Tra gli Ziani, infatti, essa si trasmette di norma dal padre al primogenito maschio, fin da quando il mio trisnonno Giovanni Maria, che diede inizio alla nostra fortuna di mercanti, non ricevette in visita l’Angelo del Signore.
“Giovanni Maria” gli disse l’angelo “il Signore ha posto su di te i Suoi occhi, e mi ha comandato di vegliare sulla tua vita, e su quella dei tuoi discendenti. Se tu lo desideri, d’ora innanzi io sederò sulla tua spalla sinistra, ti consiglierò sussurrandoti all’orecchio e farò in modo che tu compia sempre scelte corrette. Tuttavia, ti avverto: la benevolenza divina è un grande peso da portare, per un mortale. Accetti?”
Il mio antenato, mi è stato detto, si rinchiuse nella sua camera in preghiera e meditazione per tre giorni e tre notti, senza toccare cibo né acqua. Quando ne uscì, stremato dal digiuno, accettò piangendo l’offerta, dando se stesso in sacrificio per il bene dei propri familiari. L’angelo sparì, e subito egli avvertì un peso sulla spalla sinistra, così che in capo a una settimana le sue ossa si curvarono terribilmente, distorcendo la sua figura prima dritta come un fuso e premendo su un lato della sua schiena, dove spuntò una gran gobba. Tuttavia, da allora le sue decisioni si rivelarono sempre azzeccate, ed egli divenne ben presto uno degli uomini più ricchi di Venezia.
Quando il suo primo figlio maschio, Giovanni Ludovico, ebbe raggiunto la maturità e si fu formato l’esperienza necessaria a prendere nelle proprie mani l’attività paterna, l’angelo si trasferì sulla sua spalla, e così la gobba. Il mio trisnonno, riacquistata la postura eretta, si ritirò dagli affari, fece erigere una chiesa in segno di ringraziamento all’Altissimo e trascorse il resto della vita piamente nella sua villa di campagna.
Nelle generazioni successive, la gobba continuò a spostarsi, di schiena in schiena, lungo la linea maschile della famiglia. Fino ad arrivare o, meglio, a non arrivare, a me, che all’età di trent’anni sono ancora uno degli uomini più avvenenti di Venezia.

Mentre entravo nella stanza di mio padre, chiudendomi delicatamente la porta alle spalle, i miei pensieri erano rivolti ai primi anni della mia vita, in cui lui mi portava sulla spalla sana e mi spiegava pazientemente come deve comportarsi un bravo mercante, quali navi deve armare, quali capitani scegliere, che spezie trasportare. Io lo ascoltavo, rapito, come se mi stesse raccontando una favoletta. Nonostante i suoi impegni, mio padre ha sempre avuto tempo da dedicare alla mia istruzione. Inoltre, mi ha fornito i migliori tutori e maestri che le ingenti risorse della famiglia potevano offrirmi. “Così” mi diceva “potrai presto dedicarti al commercio e, Dio volendo, essere la colonna della famiglia.”
Io studiavo con impegno ed interesse, ed i miei maestri mi lodavano in continuazione. Ricordo perfettamente gli sguardi pieni d’orgoglio che, in quei casi, mio padre mi rivolgeva. E ricordo anche qualcos’altro, qualcosa di indefinibile e, credo, invisibile agli occhi di tutti, tranne che ai miei: un luccichio, una… brama, che a volte coglievo nei suoi occhi fissi su di me.
Ho iniziato giovanissimo a occuparmi degli affari della famiglia, e con grande successo. Tuttavia, la gobba non si è mai spostata dalla schiena di mio padre, così che anche il mio successo diciamo… mondano è continuato. Mio padre, all’inizio, mi guardava con condiscendenza, dicendomi che non ero ancora pronto e che di certo Dio conosceva le mie grandi capacità, ed attendeva che maturassero pienamente. Col passare degli anni, però, è divenuto inquieto. Lo capisco: come tutti i suoi antenati dai tempi di Giovanni Maria, aspettava ansioso il giorno in cui avrebbe potuto liberarsi del peso degli affari ma, soprattutto, del peso dell’angelo che gravava sulla sua spalla. Così, negli ultimi tempi egli era astioso nei miei confronti, nonostante che io apparissi a tutti come il più devoto dei figli.
Povero vecchio. Povero, stupido vecchio.
Lo vidi, rintanato sotto le coltri, il respiro ridotto ad un rantolo. Il puzzo di morte che aleggiava nella stanza era quasi palpabile. Mi avvicinai, inginocchiandomi al suo fianco e prendendogli la mano. “Padre mio” lo chiamai, ed egli rivolse su di me uno sguardo sofferente, ma perfettamente lucido.
“Vattene” mormorò.
“Padre mio, ho una confessione da farvi.” Socchiuse gli occhi, e mi guardò con attenzione, mentre continuavo: “Ricordate il buon monaco Pietro da Rivarotta, a cui voi chiedeste di impartirmi lezioni di erboristeria e di medicina?”
Aspettai che il vecchio facesse un segno d’assenso, poi continuai: “Un giorno, egli mi parlò di un’erba dalle grandi virtù, descritta da Ignazio da Canterbury, che cresce solo sull’isola di Inghilterra. Pietro la chiamava spiritella. Con essa è possibile preparare un decotto che consente di tenere lontane le influenze inferne.”
Guardai mio padre e gli sorrisi dolcemente, pregustando la sua reazione a ciò che stavo per rivelargli. Lui continuava a fissarmi con uno sguardo da basilisco.
“Io pensai: e se questa erba prodigiosa avesse anche un’altra proprietà, mai scoperta perché, di norma, inutile? Se, cioè, oltre alle influenze inferne, fosse in grado di tenere lontano anche quelle superne? Così, me ne feci mandare una gran quantità, ed iniziai ad assumerne il decotto a scopo… preventivo. Grazie al generoso appannaggio che mi avete concesso, ho avuto modo di procurarmela durante tutti questi anni.”
A quel punto, gli sorrisi ancor più dolcemente, poi avvicinai il viso al suo e sputai fuori quel che tenevo celato da lunghissimo tempo: “Fin da quand’ero in fasce avete cercato di scaricare su di me la vostra disgrazia. Mi avete privato dell’infanzia; io vi ho privato della vecchiaia. Spero che il vostro angelo vi segua anche nella tomba.”
Guardai, soddisfatto, il vecchio che veniva invaso dall’ira. Un accesso di tosse scosse tutto il suo corpo, ed io pensai: “Adesso puoi anche crepare.”
Ma non se ne andò, non ancora. Il bastardo aveva, anche lui, qualcosa da dirmi. Me ne resi conto, con grande inquietudine, vedendo la soddisfazione perversa che, sul suo viso, sostituì rapidamente la rabbia. Cercò di parlare, ma fu interrotto da un nuovo accesso di tosse. Quando si fu ripreso, mi fece segno di avvicinarmi. Poi, mormorò al mio orecchio: “Figlio mio… perdonami. Perdonami per aver dubitato… e per aver dubitato della tua povera mamma… ah, Caterina! Fra poco saremo di nuovo assieme…”
“Cosa intendete dire?” lo interruppi, bruscamente.
“Tu… non hai la gobba. Nemmeno un cenno. Così, io ho pensato… che la virtù della tua povera mamma avesse vacillato… ah, Caterina, Caterina! Come ho potuto dubitare di te?”
Lo fissai, inorridito. Cominciavo a intuire cosa voleva dirmi il vecchio.
“Così, continuò, ho pensato a tuo fratello.”
Non capivo. Io non avevo fratelli.
“Tuo cugino Vincenzo… è il frutto del mio peccato con tua zia Clotilde… ti prego, Marco! Devi volergli bene… è per questo che ho fatto in modo che cresceste assieme…”
Lo presero di nuovo le convulsioni. Io feci il possibile per soccorrerlo. Non doveva crepare, no, non doveva farlo.
“Tre giorni fa… quando ho sentito che si avvicinava la fine… ho chiamato il notaio. Ho cambiato il mio testamento… ho lasciato tutto… tutto… a Vincenzo.”
Mi guardò, mi sorrise, e disse, con voce più chiara: “Perdonami, figlio mio.”
Poi, un nuovo accesso di tosse lo prese. Non riusciva a fermarsi, e vidi che il suo volto stava diventando bluastro. Mi riscossi dallo stato di stupore e frastornamento in cui mi avevano precipitato le sue rivelazioni, e iniziai a scuoterlo. Lui chiuse gli occhi.
“Padre” mormorai, poi, con urgenza: “Padre!” e ancora “Padre, padre! Svegliatevi!”, iniziando a gridare: “Svegliatevi, vi prego! Me lo dovete…”, mentre lacrime d’ira rigavano le mie guance. Poi, braccia robuste mi trassero lontano dal suo capezzale, mentre il medico, accorso prontamente, constatava che non c’era più nulla da fare: era spirato…
Mi condussero fuori dalla stanza. Mentre varcavo la soglia, sentii un suono secco, come uno schiocco sonoro, poi un altro, ed un altro. Il medico levava grida di stupore. Le ossa storte e deformi della schiena di mio padre si stavano raddrizzando.

Smisi di prendere il decotto di spiritella, ma fu inutile. In capo ad una settimana, mio… fratello Vincenzo sfoggiava orgoglioso una gobba di dimensioni triple rispetto alle precedenti.
Il testamento di mio padre venne letto il giorno dopo la sua morte. Non mi ha lasciato nulla.
Le donne che mi giurarono sulla loro anima il proprio amore, che mi ripeterono più volte, al vertice della passione, che potevo fare di loro ciò che volevo, mi hanno chiuso la porta in faccia.
I miei amici fedeli, che spesso colmai di doni, sono spariti.
Nessuno vuole avere a che fare con un mercante senza una nave e senza un soldo.
In questi ultimi giorni, ne sono convinto, ho sentito il peso della vendetta di Dio, di cui ho rifiutato la generosità respingendo l’angelo della mia famiglia. L’unica cosa che mi conforta è che nel posto in cui mi sto per recare non lo incontrerò di certo.
Il cappio è già pronto, ben assicurato a una trave di robusta quercia.

 

Guido Alfani è nato a Castellamonte (Torino) nel 1976 e vive con la sua famiglia a Milano.
È professore ordinario di Storia Economica presso l’Università Bocconi. È anche ricercatore affiliato presso lo Stone Center on Socio-Economic Inequality di New York, lo Stone Center for Research on Wealth Inequality and Mobility di Chicago, il CAGE Research Centre di Warwick, e il Center for Economic Policy Research (CEPR) di Londra.
Si occupa di storia economia e sociale e di demografia storica, con particolare attenzione alla disuguaglianza economica e alla mobilità sociale, alla storia delle epidemie e delle carestie e ai sistemi di alleanza sociale. Ha pubblicato numerosi articoli e monografie scientifiche, tra i quali, in italiano: “Il Grand Tour dei Cavalieri dell’Apocalisse. L’Italia del lungo Cinquecento” (Marsilio, 2010); “Pandemie d’Italia. Dalla Peste Nera all’influenza suina: l’impatto sulla società” (Egea 2010, con A. Melegaro); “Come déi tra gli uomini. Una storia dei ricchi in Occidente” (Laterza, 2024).
Ha vinto la terza e la sesta edizione del Trofeo RiLL, rispettivamente con i racconti “Inferno” e “Il peso degli angeli”.
È anche arrivato quarto nel 1999 (con “Il Principe e Cenerentola”) e secondo nel 2001 (con "Storia di Draghi e Negromanti").
(biografia aggiornata al settembre 2024)

Leggi l'intervista a Guido Alfani realizzata in occasione del trentennale del Trofeo RiLL.


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