Giochi di Ruolo e Letteratura... in che senso?

Qualche riflessione sul tema, post-Italcon 2004
di Alberto Panicucci
[pubblicato su RiLL.it nell'aprile 2004]

Da ormai dieci anni mi capita, organizzando il Trofeo RiLL ma non solo, di parlare della relazione che c’è tra giochi di ruolo e letteratura.
Come penso sia noto a tutti, il Trofeo RiLL è un concorso letterario, e per “definirlo” non serve metterlo in relazione col mondo dei giochi di ruolo (anche perché, banalmente, il premio non si rivolge, né si è mai rivolto, “solo” ai giocatori di ruolo, ma a tutte le persone che amano scrivere).
Ciò nonostante, il legame col mondo dei giochi di ruolo salta fuori spesso per svariati motivi, primi fra tutti che a ideare il concorso furono un gruppo di appassionati di giochi di ruolo, che ancor oggi gran parte di chi gestisce il Trofeo è un giocatore di ruolo (o lo è stato), e da questo discende una certa familiarità con questa forma ludica, familiarità che ci porta a sottolineare gli aspetti narrativi (letterari) del gioco di ruolo.

Presentando le attività di RiLL a Italcon 2004, trentesima convention degli appassionati e dei professionisti del Fantastico, però, mi sono reso conto di come l’affermazione dell’esistenza di un collegamento tra giochi di ruolo e letteratura non è né immediata né facilmente spiegabile a chi non si interessa (anche) di giochi, pur occupandosi di letteratura.

Così ho pensato di scrivere questo articolo.

Il punto di partenza, credo, è il concetto di gioco di ruolo.
Questi nascono negli anni ’70 come evoluzione dei wargame, tramite un processo di progressiva riduzione della “scala” (la miniatura che prima rappresentava un battaglione passa a rappresentare un drappello e, infine, un singolo soldatino/ personaggio, “tenuto” dal giocatore). Ma proprio questa scala 1:1 (un giocatore, un personaggio) fa emergere presto la natura intrinsecamente interpretativa del gioco di ruolo, connessa all’immedesimazione del giocatore nel suo personaggio (un cavaliere medievale, un pistolero, un jedi, un legionario romano... a seconda dell'ambientazione). E, visto che si gioca in gruppo e che il Master (l’arbitro) propone per ogni partita un canovaccio (un abbozzo di trama) di partenza, lasciando ai giocatori di svilupparlo interagendo (parlando) fra loro, si finisce a dare vita (giocando) ad una strana contaminazione fra letteratura e teatro.
Perché i giochi di ruolo sono, in definitiva, i giochi in cui ci si racconta una storia, ma creandola insieme, essendo ogni giocatore insieme “scrittore” e “interprete” (e questo, prima di tutto, è molto divertente, fatemelo dire!)

Naturalmente, questo mio discorso è abbastanza semplice e schematico. In molti giochi di ruolo l’elemento simulativo prevale su quello narrativo, e l’attenzione si focalizza soprattutto sul regolamento, che cerca di rappresentare nel modo più realistico e preciso possibile la miriade di azioni che ogni personaggio può fare (incantesimi e loro effetti, combattimenti…). D’altronde, nel piccolo grande mondo dei giochi di ruolo, c’è spazio, all’altro "estremo", per i cosiddetti giochi di narrazione, in cui l’accento è posto al massimo grado proprio sull’interpretazione dei personaggi e la creazione di storie particolarmente sviluppate ed efficaci da un punto di vista narrativo.

In poche parole: l’espressione “giochi di ruolo” contiene al proprio interno una miriade di modalità diverse di gioco, ognuna delle quali, comunque, ha come come caratteristica basilare il far finta di essere..., punto di partenza per la narrazione di gruppo e quindi di ogni partita.
Anche per questo, personalmente, ritengo che la novità più importante degli anni ’90 sia stata l’affermazione del gioco di narrazione, della bellezza cioè del giocare col fine di raccontare (“ci siamo resi conto che i giochi di ruolo sono una macchina per raccontare storie, che è proprio quel che ci piace fare!”, disse una volta in un’intervista a RiLL Luca Giuliano, uno dei principali autori italiani).

Ma allora? In che modo gioco di ruolo e letteratura sono correlati?
Si tratta, in sostanza, di una relazione bidirezionale: da una parte, opere letterarie (di genere Fantastico e non) sono state fonte di ispirazione per la realizzazione di giochi di ruolo, dall’altra il punto invece è se da esperienze di gioco di ruolo è possibile trarre dei risultati letterari interessanti.

Io credo che, per evitare di fare confusione, occorre chiarire subito che sia il Gioco di Ruolo che la Letteratura sono una forma di espressione (un “linguaggio”). Ognuna delle quali ha delle proprie specificità e caratteristiche, che devono essere ben padroneggiate nel momento in cui si passa dall’una all’altra. Da questo discende che ogni buona trasposizione è, necessariamente, un tradimento, o perlomeno un adattamento al nuovo linguaggio espressivo scelto.

Per fare un esempio, e rendere il discorso meno astratto, basta guardare al rapporto cinema/ letteratura: film come Rebecca - La prima moglie, Eyes Wide Shut, La leggenda del pianista sull'oceano, AI Intelligenza Artificiale e, se vogliamo, anche il jacksoniano Signore degli Anelli tradiscono in varia misura l’originale letterario, ma sono (perlomeno a mio avviso) dei film (meglio, opere cinematografiche) godibili e ben fatte.
Il processo di innovazione dell’originale è inevitabile: perché diversa è la forma d’Arte scelta, diversa è la mano dell’autore… e si spera che questo in qualche modo “si veda”!
(al contrario, per inciso, svariati miei amici appassionati di Harry Potter sono rimasti delusi dal primo film della serie, trovandolo “solo” una correttissima - ma fredda - illustrazione dei romanzi della Rowlings).

Tornando al passaggio letteratura/ gioco di ruolo, credo ci siano molti esempi di ottima trasposizione (penso a Il Richiamo di Cthulhu, ispirato all’opera lovecraftiana, al manuale base di On Stage!, in riferimento al teatro shakespeariano, ad On Stage! Epico, basato sulle gesta dei Cavalieri della Tavola Rotonda, sino al più recente gioco di ruolo dell’Orlando Furioso).
E, in tutti questi casi, risulta evidente che gli autori adattatori avevano non solo un’adeguata competenza sul mondo letterario di partenza, ma anche una salda conoscenza dei “fondamentali” del “linguaggio di arrivo” (in primis del tipo di regolamento più adatto all’ambientazione).

Passando poi alla questione del passaggio gioco di ruolo/ letteratura, il discorso si fa un po’ più complicato, e merita un approfondimento particolare.

Lasciate da parte cattive classificazioni (i romanzi tratti da Magic, che è un gioco di carte collezionabile, oppure dalla serie Lupo Solitario, che è un libro game) e leggende metropolitane (la DragonLance non nasce da una campagna di gioco, come Margaret Weis in persona ha smentito lo scorso novembre a Lucca Games), resta il fatto che dai giochi di ruolo non è nata questa congerie di opere letterarie mirabili.

Personalmente, credo che alla fine di una partita di gioco di ruolo si è, in qualche modo, raccontata sempre una storia, e dato vita ai diversi personaggi interpretati dai giocatori (nella stessa misura in cui, nella mente di Dumas, era vivo Porthos… tanto poi da soffrire per la sua morte ne Il visconte di Bragelonne!). Ma prendere questa storia e proporla in forma di racconto o magari di romanzo (nel caso le partite siano più d’una, formino cioè una “campagna”) non è un’attività necessariamente produttiva, se la trama è banale, o magari non ci si chiama Tolkien o Hemingway.

La mia opinione è che i giochi di ruolo, più che una fonte di ispirazione per della buona letteratura rappresentino una sorta di scuola di scrittura (virtuale) creativa (per di più molto economica, rispetto ai prezzi di mercato dei corsi del settore).
E molto altro ancora...

In primo luogo, infatti, i giochi di ruolo sono una forma di intrattenimento che favorisce l’espressione della creatività (devi immaginare il tuo personaggio, dargli vita, decidere le sue azioni nei diversi contesti…), il che non è solo positivo di per sé, ma evidentemente rappresenta un fattore di stimolo per chi ha fantasia e qualche idea (soggetto) in testa.
Da questo discende anche, penso, che molti giochi di ruolo, non ispirati specificamente a opere letterarie, abbiano comunque ambientazioni molto elaborate e belle, paragonabili in qualche modo ai mondi creati da tanti scrittori nei propri romanzi.

In secondo luogo, essendo (spesso e volentieri) ispirati ad opere letterarie, i giochi di ruolo spingono facilmente alla lettura delle stesse.
Potrei citare qualche studio sociologico su questo punto (a quanto pare, i giocatori di ruolo leggono, ceteris paribus, più della media), o anche le ormai numerose esperienze nell’ambito di scuole e biblioteche che sembrano confermare questo dato (avvicinare i giovani alla lettura è un obiettivo basilare per chi si occupa di Scienza dell’Educazione). Preferisco però, non essendo nè volendo fare il maitre à penser, rifarmi alla mia esperienza personale: se a 15 anni o giù di lì non mi fossi comprato Il Richiamo di Cthulhu (il primo gioco di ruolo non fantasy in italiano!) non penso proprio che avrei iniziato a leggere Lovecraft, o perlomeno lo avrei incontrato molto più tardi. E lo stesso vale per Stormbringer e l’albino Elric di Melnibonè, come anche, molto più banalmente, per l’Amleto di Shakespeare (che, letto al Liceo e poi giocato più e più volte, decisi di rileggere all’Università, con certo maggiore "consapevolezza").
E anche questo, penso, non è poco (come dicevano le vecchie maestre di una volta: “per imparare a scrivere bene bisogna prima di tutto leggere”… e credo proprio avessero ragione).

Ma c’è di più.
La mia esperienza col Trofeo RiLL mi dice che spesso i partecipanti hanno buone idee e personaggi interessanti, ma non riescono a renderli credibili, o a svilupparle adeguatamente. O, ancora, le soluzioni proposte per arrivare al finale sono imperfette, cioè poco logiche o contraddittorie (insomma, “non filano”).

I giochi di ruolo rappresentano, almeno potenzialmente, una sorta di palestra per evitare questi scivoloni.
Da una parte, infatti, il Master (l’arbitro) deve, prima della partita, buttar giù un abbozzo generale della trama. Pensate, per fare un esempio, a una storia gialla: occorrerà definire con cura la storia, il movente dell’omicidio, gli indizi, gli indiziati (e magari anche le loro deposizioni o alibi!)… tutto quel che serve, insomma, perché la storia “regga” (il che è un bell’ “esercizio”, credetemi!).
D’altronde, non tutto è prevedibile: spesso e volentieri capita di dovere improvvisare, davanti a un’intuizione di qualche giocatore che non si era assolutamente prevista in fase di preparazione della partita… e lo spunto va sviluppato, perché i giocatori sono anch’essi creatori della storia!
(i detective non possono non seguire la pista, per stare all’esempio)

Ancora, gli stessi giocatori sono chiamati a dar vita al loro personaggio, perlomeno su due livelli: in chiave di “buona creazione” (creare un personaggio senza capo né coda, poco adatto all’ambientazione o semplicemente assurdo, porta inevitabilmente a restare ai margini del gioco, quindi a non divertirsi) e a livello di “buona interazione” (l’idea o il comportamento geniale che si segue ha effetti diretti sulla partita: gli altri giocatori possono far notare l’incongruenza della strategia proposta, e quindi bocciarla, oppure mettere in atto contromisure ad hoc, ad esempio se un giocatore fa l’investigatore e l’altro è l’assassino, o ancora farla propria e "sostenerne" gli sviluppi narrativi).

E tutto questo riporta a quel che dicevo: per scriver bene non bastano talento o creatività, occorre anche sapere “gestire” (controllare, dominare) la trama e i personaggi…
I giochi di ruolo obbligano la creatività di ogni partecipante a confrontarsi con la creatività degli altri, portano cioè a vedere le diverse situazioni da punti di vista nuovi, immaginando quindi nuove strade o comportamenti o soluzioni. E tutto questo non solo interagendo con gli altri ma anche nel rispetto delle regole del gioco che, più o meno semplici, ci sono sempre.

In altri termini: l’immaginazione è bella perché senza confini, capace di meravigliosi voli pindarici (lo dice uno che fa un concorso per racconti “di genere fantastico, nel senso più ampio del termine”, e che è proprio allergico alle classificazioni), ma deve sempre essere ben incanalata per essere godibile… e il gioco di ruolo è proprio uno strumento per imparare a indirizzarla (gestirla).

Naturalmente, non penso che i giochi di ruolo siano un portale obbligatorio da attraversare per tutti gli aspiranti scrittori, dico solo che sono (possono essere) un mezzo (fra i tanti) per arrivare a scrivere bene, soprattutto perché spingono a gestire la propria creatività, condizione necessaria (ma non sufficiente!) per diventare un bravo scrittore: il talento, mi sa, è un dono. Inoltre, è evidente che è ben diverso raccontare in gruppo intorno a un tavolo una storia (anche la più bella) e poi provare a scriverne una autonomamente, davanti al foglio bianco (cambia il "linguaggio"... ed è tutto un altro mettersi in gioco!).

Certamente, qualcuno potrà obiettare ancora, resta il fatto che dal mondo del gioco di ruolo non sono ad oggi derivate opere letterarie davvero degne di nota.
Al di là della matrice marcatamente commerciale di molti libri che sono nati con questa ispirazione, io non vedo - come detto - il gioco di ruolo come una fonte di ispirazione letteraria (almeno, non necessariamente), ma osservo che il gioco di ruolo è nato da soli trent’anni, mentre le opere letterarie hanno una storia più che millenaria, e da sempre scrittori di professione hanno prodotto (anche) romanzi brutti, sulla base della “sola” loro ispirazione.

Come fare del gioco di ruolo una “fonte letteraria” è comunque, oggi, un punto di riflessione (aperta) e uno spunto per esperimenti per tanti appassionati, che iniziano anche a discutere in Rete di come riuscire a dare una forma compiutamente letteraria alle loro creazioni collettive (forma che, chissà, magari non coinciderà nemmeno con quelle attualmente note…).


Insomma, come sempre la realtà è molto più ingarbugliata e contaminata di quanto un veloce sguardo dal ponte possa far ritenere.
I giochi di ruolo prendono qualcosa dal wargame (all’origine), dalla letteratura e dal teatro (sempre più, negli anni recenti), e rappresentano una forma di creazione collettiva che stimola l’immaginazione e l’espressività.
Molti giocatori di ruolo hanno provato in questi anni a cimentarsi con la scrittura (e col suo diverso, difficile linguaggio espressivo), e l’hanno fatto non necessariamente con storie legate alle proprie esperienze di gioco, ma sicuramente stimolati dal piacere provato nell’inventare storie giocando.

Proprio a partire da una campagna del gioco di ruolo Amber, ispirato alle opere di Zelazny, ad esempio, il romano Fabrizio Casa ha scritto Le metamorfosi di Ghinta, romanzo fantasy edito da Fanucci nel 2001 (e di cui RiLL curò la presentazione a Romics).
Inoltre, dal piccolo punto di osservazione chiamato Trofeo RiLL, posso notare che la metà circa dei vincitori del nostro concorso (autori, quindi, permettetemi una tantum l’immodestia, di bei racconti) sono anche appassionati di giochi di ruolo.

Per tutti questi motivi penso si possa affermare che un legame letteratura/ gioco di ruolo esiste, e nelle due direzioni.

D’altra parte, lo stesso Gioco (in generale) è un tema ricorrente in letteratura: da amante degli scacchi, penso subito alla Novella degli Scacchi di Stefan Zweig, o a La variante di Luneburg di Paolo Maurensig (e, in ambito RiLLico, a Simulazioni, di Giovanni Bruni, vincitore della prima edizione del nostro concorso). O, ancora, al mitico Quidditch di potteriana memoria...
Con piacere, poi, cito il recentissimo Teoria del grande gioco, di Eugenio Ragone, un autore che nel mondo della fantascienza italiana è storia, e che è anche un appassionato di giochi (non di ruolo, però; per inciso, Eugenio è fra i collaboratori della rivista di cultura ludica Tangram, che pubblica anche il vincitore del Trofeo RiLL... e questo chiude in qualche modo il "cerchio" del mio discorso).

In conclusione, tanti sono i motivi che portano a scrivere (giochi di ruolo inclusi), ma stretta davvero è la strada che porta a scrivere bene (e forse qui i giochi di ruolo possono aiutare, come strumento).
Di certo (e per fortuna), la creatività è senza confini e continuamente inventa nuove forme per esprimersi e rinnovarsi.
I giochi di ruolo sono un suo figlio minore (per età), che spero continuerà nel tempo a dare soddisfazione ai suoi appassionati (quorum ego) e che mi auguro possa riuscire a contaminarsi sempre più con la "sorella maggiore" Letteratura, in un processo di arricchimento reciproco (se non altro dei rispettivi appassionati).

 

 

 

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