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di Alberto Cola
Secondo classificato al IX Trofeo RiLL
[racconto presente nell'antologia Mondi Incantati, Novecento GeC, 2003]
Ad Annetta, che ha scritto la prima riga
e agli altri, che esistono
Le bastarde arrivano sempre. Di notte.
Le sentiamo fin da qui, mentre ce ne stiamo in piedi a battere i denti, con le scarpe affondate nella sabbia di novembre e l’aria fredda che se ne viene su dal mare come il bacio di un morto.
E non è una bella cosa.
Siamo in cinque, il numero perfetto per questo genere di situazioni. Più Lauretta, che sta nella casa dei pescatori col maniaco. Spero solo di aver calcolato bene i tempi.
Michela stringe la mia mano come se ne andasse della nostra vita, e in effetti è così.
Ci tocca una volta al mese, quando non c’è la luna. E’ l’unica cosa che possiamo fare per difenderci, per tenerle lontane quando spuntano dal mare. La terraferma non è roba per tutti, ma vaglielo a spiegare. Con loro non si patteggia, né si contratta.
Per qualche motivo hanno paura di noi. Noi bambini. E’ pur sempre una possibilità per tenerle a bada, per impedire loro di arrivare fin qui e prendere la gente che vogliono.
La mano di Michela è diventata una morsa. Fa quasi male.
“David...” sussurra.
“Tranquilla...” le dico. “Sta’ tranquilla...”
Lauretta stringe i denti. Il pezzo di stoffa che ha in bocca sa di benzina e, strano, le viene voglia di fumare. L’uomo parla adagio, con un rassicurante tono da confessore, subdolo come solo può esserlo un prete davanti a una ragazzina. E’ buio ma il riflesso dei lampioni della strada crea un pallido bagliore nella stanza. C’è odore di pesce andato a male. E di sartiame.
Il respiro dell’uomo si ribella contro la calza che porta sul volto, la voce che scivola intorno al taglio della bocca. Lauretta segue con lo sguardo la figura nera che passeggia avanti e indietro facendo scricchiolare il pavimento di legno irrigidito dal freddo. Ne ascolta le parole, ma con la mente è già avanti. Lui crede di farle paura, ma se sapesse cosa veramente la spaventa, non ci penserebbe un attimo a filarsela da lì.
Gli altri hanno scelto lei perché è la più grande, l’unica che potesse interessarlo. E la più abile in caso di necessità. Sapevano che l’uomo avrebbe abboccato.
Lauretta sente la marea che monta contro gli scogli. Implacabile. Non manca molto, è ora di cominciare a lavorare sui legacci.
Tutto è iniziato con una coppietta scomparsa sulla spiaggia.
Da principio non ci facemmo troppo caso, non ancora. C’era solo una scia di sabbia bagnata fino al posto dove i due si erano appartati, e quelli della polizia scientifica ci mancò poco che diventassero scemi. Niente tracce, niente segni di colluttazione. Solo il mare che si ritirava nel buio e che non poteva aver fatto in tempo a cancellare tutto.
Poi toccò al bagnino rimasto in spiaggia, sempre di notte, per impedire che i ragazzi facessero i falò con le sdraio. Tommaso, si chiamava, e non era un bagnino qualsiasi. Faceva quel lavoro da trent’anni ed era esperto, buono con tutti e non si spaventava davanti a niente. Lo sentirono fin dagli ultimi condomìni dietro al parco, a urlare come un maiale scannato.
Il terzo fu un barbone che scomparve nel sottopasso che attraversa la statale e sbuca nel parcheggio della spiaggia. C’era un lago d’acqua in terra e gli scalini scivolavano per via di quelle alghe nere e puzzolenti che da queste parti nessuno aveva mai visto, se non vicino agli altri tre morti.
Le TV montarono la storia del serial killer, che fa sempre audience; noi provammo a raccontare a qualche adulto, ma chi poteva darci retta? Certe cose le possono intuire solo i bambini come noi, e non è che fossimo poi così stupidi da sperare troppo in una coincidenza. “Il caso” come dice sempre mia mamma “non è di questo mondo.”
Simone, il più piccolo, ha una sua teoria. Dice che la gente rapita aveva una cosa in comune, e cioè era benvoluta da tutti. Era gente buona, insomma, che non aveva mai fatto del male a nessuno; è come se le essenze cattive, dice lui, cerchino di equilibrarsi prendendo qualcosa di buono.
A me sembra una stronzata, ma preferisco tacere.
Simone adesso mi fissa e comincia a piagnucolare. E’ l’ultimo della fila e ha gli occhi sgranati, come per vedere meglio attraverso il buio. In questo momento - mentre osserviamo la casa abbandonata dei pescatori, sollevata appena un po’ più in là della riva sui pali di legno tanto da sembrare un ragno d’acqua - quella teoria non credo conforti troppo neanche lui.
L’uomo le siede di fronte, ora.
Continua a parlare, a raccontarle storie assurde dei suoi amori decomposti, di incomprensioni che sono come un rogo nella sua testa e di notti senza sonno che si allungano fino a diventare secoli. Lauretta tace e si chiede come sarà il suo viso dietro a quella maschera, quale trasformazione stia avvenendo. Ma potrebbe essercene un’altra, e un’altra ancora, di maschera, sotto a quella pelle che sa di sudore ed eccitazione. Quelli come lui non hanno mai una faccia sola, neanche quando si guardano allo specchio.
E parla, parla... È troppo preso da se stesso, ma Lauretta non commette l’errore di sottovalutarlo, di distrarsi, anche ora che le corde sono lente, perché lei in questi giochini è sempre stata brava. Per questo è lì.
Eppure si sorprende. Ha voglia di ascoltarlo, di capirlo, perché in fondo è simile alle bastarde, due facce della stessa medaglia. Il maniaco pensa che la cosa più eccitante sia portare lì delle bambine, fare quello che fa ai loro corpi e ai loro pensieri, che forse immagina disordinati come i suoi. Non sa che stanotte avrà l’esperienza più esaltante della sua vita.
Al confronto, il resto sono solo stronzate.
Poi toccò alle bambine.
Ma non era la stessa cosa. Qualcuno approfittava della situazione, tutto lì. Qualcun altro, intendo. Non le bastarde.
A volte ci vuol davvero poco, ma i grandi rifiutano di capire, di ascoltare. Lauretta dice che noi bambini abbiamo una specie di sesto senso tutto nostro, che afferriamo le cose d’istinto, e comincio a credere che sia vero.
Lei capì tutto solo guardandolo, il farmacista. Insisteva nel dire che una persona normale non sorride così a un bambino. E quelle parole dal bancone, con la barba sempre unta e le mani che odoravano di medicine quando sfiorava spalle nude e braccia appena arrossate dal sole mentre ti accompagnava alla porta, ammonendoti che non era sicuro andare in giro da soli, e che se ti serviva qualcosa lui era lì, a disposizione.
Lo seguimmo, tre giorni dopo, fino alla casa dei pescatori, mentre aiutava la povera Susanna a salire i pioli della scala che portava su, nel magazzino che d’inverno è chiuso. Chissà cosa le aveva detto per convincerla.
Fa notte presto, a novembre, e noi ce ne restammo là fuori, ad aspettare. Non potemmo fare niente per lei, e del resto il farmacista ci serviva, ormai era chiaro, almeno a sentire Simone e il suo piano.
Impiegò circa un’ora prima di uscire, col sacco nero in spalla e l’andatura saltellante, come se tornasse da una festa da ballo. Fragile e appagato.
Nessuno di noi pianse. Non era il caso.
“Sai chi sono. Ma la maschera è solo un richiamo, un simbolo. Ti spaventa?”
“È un gioco.”
“Sì, piccola, è un gioco...”
Lauretta osserva la lingua guizzare attraverso il taglio della stoffa, come se davanti a sé avesse uno di quei varani che ha studiato a scuola, quelli con la lingua scura e grassa.
“E’ un’esperienza nuova, per me. Vedere che non hai paura, voglio dire. Pensavi che non me ne fossi accorto? Sei speciale, l’ho capito fin dal primo momento. Ho voglia di dirti che ti amo, e ho bisogno che tu ci creda. Non dovrò farti del male, vero?”
Lauretta cerca dentro di sé, ma non riesce a trovare niente, niente che le renda il momento meno insopportabile, con quella maschera che ogni istante di più sembra appassire sotto il suo sguardo, perdere di significato e consistenza, impossibile da spiegare.
Le mani che sanno di medicine ora le accarezzano i capelli in tutta la loro lunghezza, come se tentassero di leggerle nella testa, simili a quelle di un veggente che sfiorano la palla di vetro.
“Ci sono solo nuvole nella mia testa, caro maniaco. Roba che veleggia. Niente che tu possa capire.”
“Guardati intorno, piccola mia. Questo posto è un sepolcro di sentimenti, di intenzioni nascoste, e noi riscopriremo tutto questa notte, perché quando ci troviamo insieme c’è unicità, magia.”
Sente un brivido mangiarle la schiena, finalmente.
“Lauretta, chiamami Lauretta...”
Della coppietta, del bagnino e del barbone, vennero ritrovati soltanto i piedi, al di là degli scogli.
“Sono come l’aglio per i vampiri”, spiegò Simone. “Indigeribili perché rappresentano la terra, il camminare. Una bestemmia, per le bastarde.”
Nessuno contestò.
Le mani dell’uomo hanno smesso di accarezzarla. Se ne restano a mezz’aria, descrivendo la sua figura a distanza, come se temessero di rovinarla per sempre, consumarla.
“Potrei slegarti, sì. E sarebbe tutto bellissimo. Se solo tu fossi gentile... Non come le altre...”
Prima o poi doveva accadere. Eccole.
È solo una nuvola di puntini rossi che galleggia sul mare, come goccioline di sangue rappreso. Seguono il moto delle onde: si alzano e si abbassano, studiano la situazione. Ci hanno visto, non mi illudo del contrario.
La stella a cinque punte è pronta, disegnata sulla sabbia in anticipo, tanto per evitare sorprese. Michela è alla mia destra, poi Simone, Mary - che non si è tolta per un attimo le cuffie del walkman e tiene gli occhi chiusi, perché non vuole vedere né sentire - e infine Consuelo, a chiudere il cerchio. Ci teniamo per mano, è importante. Simone ha ripreso a piagnucolare, gli altri tacciono.
Niente è più vicino al cuore delle cose come noi bambini, soprattutto delle cose cattive. E questa notte, quel cuore pulsante è su questa spiaggia.
“Smettila, Simone” lo minaccio, “o penseranno che non siamo cattivi abbastanza.”
Lauretta sente le loro unghie sui pali che reggono la baracca fuori dall’acqua.
Tzicc... tzocc...
Intaccano in profondità nel legno, sempre più veloci. Anche quel rumore ha qualcosa di osceno, che non appartiene a questo mondo. Può sentire il loro fiato. E’ come odorare un pesce abbandonato al sole per una settimana.
L’apertura che dà sul mare, da dove i pescatori calano le reti in acqua, non è serrata; David ha controllato ieri. Passeranno per forza da lì.
Tzicc... tzocc...
La concentrazione è tutto. Non possiamo distrarci, sarebbe la fine. E le bastarde lo sentono, prima di vederlo. Il cerchio. È solo cattiveria: o noi, o loro. Non si azzardano a toccare terra se c’è qualcosa di peggio ad attenderle, ormai l’abbiamo capito. E chi può esserlo più di un gruppo di bambini incazzati?
Questa notte ci penseremo noi a dar loro da mangiare. Qualcosa di molto simile: male allo stato puro. Se siamo fortunati, potranno sempre avvelenarcisi.
E finalmente lui sente qualcosa. Un rumore, o la puzza.
Lauretta lo osserva percorrere i pochi passi che lo separano dall’apertura. Può quasi intuire la perplessità nel suo incedere, solo che lei non ha tempo per pensare, ma solo per fuggire. Adesso ha paura, paura vera. Le sente là fuori e sa che non possono fare altro che venire lì, perché David e gli altri hanno creato la Barriera, sulla spiaggia.
Tira via i legacci. Quasi intreccia le mani e li riannoda, tanta è la foga.
Tzicc... tzocc...
Ha solo un istante, ora che lui è distratto. La scaletta che porta sul tetto è lì, a due salti da lei. Anche il vecchio lucernario col vetro rotto è aperto, pronto a darle l’unica via di fuga possibile.
“Ma che cazzo...”
Il maniaco l’ha vista scattare, ma non è a lei che deve pensare, adesso. Non più.
È come essere ubriachi. Ubriachi di paura. Ogni volta.
Sento la sabbia scaldarsi sotto alle nostre scarpe. Ribollire. Stanotte è più dura, hanno una fame nera. Sono costrette a prendere quel che abbiamo lasciato loro.
Poi l’urlo, come di un bambino che non riesce a venire alla luce. Che si strangola da solo col cordone ombelicale.
Venite, la cena è pronta, e chi se ne frega se non è di vostro gradimento, se la carne puzza perché è decomposta dentro. Godetevela pure, non lo saprà nessuno.
Lauretta resiste perché non può fare altro. E’ sul tetto e lo osserva mentre cerca di salire, di salvare la sua vita che non vale un tubo. Lo vede implorarla mentre lei scosta la sommità della scala dall’imbocco del lucernario.
Sotto, sul pavimento, le bastarde si muovono, attente a sfruttare le ombre, schivando le rade pozze di luce.
Schioccano la lingua, o quel che è. Almeno così le sembra.
Poi il maniaco comincia a urlare, mentre le sue mani spezzano i pioli marci mentre gli artigli lo tirano giù, le scarpe che scivolano perdendo la presa. Alghe nere, probabilmente.
Si sente un tonfo, come di un corpo che cade su qualcosa di molle che emette un sospiro di soddisfazione.
Lauretta, lentamente, richiude il lucernario.
Consuelo e Michela stringono Lauretta in un abbraccio disperato. Simone ha ripreso un po’ di colore e Mary, finalmente, si è tolta le cuffie del walkman. Siamo esausti. I solchi che limitano la stella sono più neri, come se la sabbia fosse bruciata. Mi affretto a cancellare tutto.
Nessuno di noi chiede a Lauretta se le ha viste. Sarebbe troppo. Quando vorrà, sarà lei a dircelo.
A piccoli passi ci allontaniamo dalla spiaggia. Mettere i piedi sul cemento del marciapiede ci dà sicurezza. Mi fermo ancora una volta a guardare verso il mare: anche gli occhi rossi sono scomparsi, come le urla, dopo un po’.
“E’ andata bene” dice Simone, con la voce che trema, ma solo un poco. “Me la sono quasi fatta sotto.”
“Già, fino alla prossima notte senza luna.” Il rumore della marea si fa calmo. Mi chiedo fra quanto tempo troveranno i piedi del farmacista, oltre gli scogli. “Presto dovremo pensare a trovare altro cibo.”
Alberto Cola è nato e vive a Tolentino (Macerata).
È autore di numerosi racconti pubblicati in antologie e riviste letterarie, in Italia e all’estero.
Ha all’attivo le antologie personali “Mekong” e “Senza evidente motivo” (Delos Digital) e – tra gli altri – i romanzi “Lazarus” (premio Urania 2009; Mondadori), “La notte apparente” (ed. Armando Curcio; Delos Digital), “Asad e il segreto dell’acqua” e “Il club dei quattro ronin” (entrambi editi da Piemme – Il Battello a Vapore). Ha inoltre firmato i primi due romanzi del ciclo de “La Bottega delle Ossa”, per Hypnos Edizioni.
Ha vinto la decima edizione del Trofeo RiLL, con “Crescerà, a poco a poco”, ottenendo importanti piazzamenti anche in altre edizioni (secondo posto nel 1999, con “Superficie”, e nel 2003, con “Prendimi per mano”; quarto posto nel 2000, con “Qualcuno ti sveglierà”). È stato inoltre fra i vincitori del concorso SFIDA (sempre bandito da RiLL) nel 2008 e 2009.
Il suo sito personale è www.albertocola.it
Leggi l'intervista ad Alberto Cola realizzata in occasione del trentennale del Trofeo RiLL.