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di Andrea Galla
Terzo classificato al XII Trofeo RiLL
[racconto presente nell'antologia Sognando Mondi Incantati, Nexus Editrice, 2006]
"Chi, fra voi,
merita la vita eterna?"
M. Houellebecq
Al di là della città, il mondo non esiste.
Solo un oceano di sabbia che ulcera la vita, e si trasforma in vapore e poi in nebbia, fitta.
Al di là della città, tutti siamo uguali, nella nostra veste di cadaveri.
Nessuno ha mai lasciato la città, nessuno è mai arrivato alla città. Perché non esiste che il vuoto, al di là del perimetro di pietra e titanio che circonda e custodisce le nostre anime.
La Cieca Reggente, che veglia su di noi da oltre duemila anni, ci protegge dalle tempeste di sabbia magnetica, e dal desiderio, umano, di lasciare queste mura.
Pura follia.
Al di là della città non esiste la Cieca Reggente, quindi non esiste la vita, come noi la conosciamo.
Io sono 17, e da duecento dei nostri anni sono guardiano e vedetta alle mura nord della città.
Non ho mai visto nessuno arrivare; uno solo ha lasciato la città, scomparendo in un inferno di fuoco, al primo passo.
Conosco il nome di ogni vento, conosco la polvere di ogni giorno, soprattutto nel mese di UA.N, quando si ammucchia a formare cespugli spinosi e velenosi, e parvenze di forme di vita. La mia conoscenza ha un limite, come ogni cosa, altrimenti potrei impazzire.
I limiti li detta la nostra Cieca Reggente, che invece non ne ha.
Così sia, questa è la sua Legge, la Legge della città.
Al di là della città non esiste il giorno, solo la notte. Questo ci ha insegnato la Cieca Reggente. Questo noi crediamo.
Siamo 12.797, il numero di JioUiaz. Come a dire: la vita.
Nessuno nasce, nessuno muore. La vita eterna ci accompagna nella città.
Al di là della città, c’è solo la morte. E silenzio.
Era il giorno 204, quando lo vidi.
Un nugolo di nebbia informe, come tanti negli ultimi cicli, ma con qualcosa di diverso. Un ritmico alternarsi, avanti e indietro, di braccia e gambe, ancora troppo sfocato dalla calura del deserto per essere riferibile ad una specie da me conosciuta.
E la mia conoscenza ha un limite.
Ero solo, sulle mura, e il mio visore a luci alternate non funzionava a dovere. A volte capita, è qualcosa che solo la Cieca Reggente riesce a prevedere, ma il cui segreto rimane celato fino alla fine, per tutti noi.
Il sole, forma vaga e insidiosa, era allo zenit, e tutte le ombre si fondevano con i propri creatori, diventando vita.
Al di là della città non esistono ombre, perché non esiste la vita. Questo abbiamo imparato.
Ma quel giorno vidi un’ombra, per la prima volta, al di là della città.
Mi aspettavo che tutti gli abitanti avessero scorto la figura che, nonostante il calore mortale, era avanzata fino al perimetro difensivo, dove le dune di sabbia sono scosse da continui spasimi di energia elettrica, capace di incenerire qualsiasi cosa. Mi aspettavo che persino la Cieca Reggente assistesse all’evento. Invece ero solo.
Se davvero era una forma di vita, e ciò non era possibile, sarebbe scomparsa appena messo piede nel perimetro difensivo.
Non avevo mai assistito a nulla di simile nella mia vita, e il circuito, a base di beta-bloccanti, innestati nei nostri cuori per renderli immortali, si attivò come un allarme, all’improvviso.
Intanto la figura, un uomo, ora lo potevo scorgere bene, continuava ad avvicinarsi, ignorando persino il perimetro difensivo, come se l’elettricità a 10.000.000.000 volt non riuscisse nemmeno a scalfirlo.
Corsi, con i muscoli atrofici delle mie gambe perennemente in attesa, che gridarono sconcerto e sorpresa.
Scesi le rampe di scale di ossidiana, talmente nere da illuminare la notte, ignorando i teleportali istantanei: dovevo dare l’allarme.
Qualcuno stava arrivando da fuori, e questo non era possibile. Semplicemente.
A meno che non fossi impazzito, ma è un evento che accade raramente, nella città.
La Cieca Reggente può ogni cosa, può guarire ogni malattia senza nemmeno muovere le nuvole. Può anche regalare la pazzia, a chi la desidera. Ma sono in pochi a volerlo davvero.
La Cieca Reggente sconsiglia la pazzia, e i suoi consigli sono Legge.
La città si apre all’esterno attraverso una porta di vetro e plasma, come una ferita perenne; poco più a destra c’è l’allarme, mai usato da nessuno, nemmeno per uno scherzo.
D’altronde uno scherzo di quel tipo costerebbe la vita e l’oltre vita all’artefice, ed è un prezzo che non vale la pena giocare.
La città sembrava vuota quando raggiunsi la porta.
Al di là della città, il solito deserto. E l’insolito.
Un uomo anziano, cappello in testa e veste a coprire il corpo smagrito dal vento, era a nemmeno cinquanta metri da me, in costante avvicinamento.
Il mio cuore sembrava fregarsene del circuito, e pompava ondate di vita.
Tremavo, perché al di là della città c’è solo la morte. Ed era venuta per me, lo sentivo.
Me lo diceva il silenzio metallico della città, il raspare di artigli dentro il mio petto, tra i polmoni e la pleura.
E me lo diceva la Cieca Reggente, che mi stava guardando, dalla sua torre al centro della città. Il suo sguardo pesava come un giudizio, non lasciava scampo.
Dubitare della verità della Cieca Reggente era qualcosa di intollerabile, e quell’uomo, dalla faccia scavata, era la minaccia ad ogni mia sicurezza. Alla mia fede. Alla Reggente.
Dovevo solo premere il pulsante dall’allarme, e tutto sarebbe finito. I droidi a forma di gabbiano, con colli lunghi e zanne micidiali, sarebbero usciti da teche invisibili ai lati della porta, e avrebbero annientato ogni pericolo, ogni dubbio, in lode alla nostra Reggente.
Attesi, incerto, finché l’uomo arrivò davanti alla porta di vetro, quasi fosse la mia immagine allo specchio. Quando mi vide si tolse un logoro zaino dalle spalle, e tirò fuori un rotolo chiaro, di un antico materiale. E me lo porse.
Il suo braccio attraversò la barriera come fosse aria, e non cinquanta centimetri di inviolabile lega, costruita e fusa in un unico blocco dai proconsoli della Cieca Reggente.
Impenetrabile a qualsiasi cosa, non alla morte.
I suoi occhi erano nascosti dall’ombra del cappello, e se c’era ombra c’era la vita, ma anche la morte è vita, di per sé.
Il pulsante d’allarme, un occhio cieco di pietra e titanio, sembrava assopito in un letargo atavico, ma si sarebbe attivato anche al solo pensarci, ne ero certo. Così è, il mondo all’interno della città, senza incertezze. Al di fuori della città, invece, c’è solo il caos.
Ma dentro ogni uomo c’è il deserto che arde e qualcosa, dentro me, mi spinse ad afferrare l’oggetto dalla mano dell’uomo, senza che io lo decidessi davvero.
L’uomo mi sorrise e, nonostante il viso fosse in ombra, potei vederlo.
Al primo soffio di vento l’uomo ritornò polvere, e di lui rimase solo il rotolo nelle mie mani.
La città riprese la solita vita, quasi non fosse accaduto niente. Forse non era accaduto niente.
Ma lo sguardo delle Reggente, fuoco e ustione sulla mia schiena, non era immaginazione; ma, per Sua Signoria, che cosa avevo fatto?
Passarono settantatre giorni prima che trovassi la forza e la voglia di dispiegare il rotolo.
Tre giorni dopo il mio incontro venni fermato da un Proconsole, che mi cancellò parte della memoria e della conoscenza, ma sembrò ignorare l’oggetto che avevo ricevuto.
E così dimenticai, per il volere della Cieca Reggente. La sua volontà è verità, e noi possiamo solo godere della sua ombra.
Giorno dopo giorno, l’orizzonte immobile di vento e sabbia cominciò a pulsare tra le mie tempie, e nella tasca della mia divisa bruciava il fuoco del ricordo.
Fu per caso che il settantatreesimo giorno aprii il rotolo.
Non sapevo cosa fosse, forse un ordine emanato dalla Reggente?
C’era una scritta, impressa a china sul materiale.
Al di là della città
attende
il deserto.
Che è morte,
che è vita
Lettere in fila, a formare parole per me illeggibili. La mia memoria era stata in parte cancellata, come la conoscenza, a formare un nuovo buco bianco di stupore.
Ma qualcosa della musica di quelle parole ricurve rodeva la mia persona. E il deserto, ogni giorno, appariva mutare nella mia mente, persa nel vano e futile tentativo del ricordo.
Tutta la città viveva dei ritmi oliati e perfezionati della Cieca Reggente, godendo dell’immortalità dei nostri corpi e della sicurezza delle nostre mura. Io iniziai a sentirmi estraneo, immune alla perfezione della città.
Mi accorsi di essere osservato da occhi invisibili, leggeri come aria salata. Impalpabili come la seta. A volte vedevo un’ombra che sfiorava la mia, altre era solo quella che un tempo gli uomini chiamavano immaginazione. E le giornate sfiorirono, petalo dopo petalo.
Mi trovai che la città dormiva in un giorno colorato dal solito cielo blu metallo, che basta guardarlo per sentirsi vivi; mi trovai di fronte all’ingresso delle mura senza sapere cosa ci facessi, senza capire come ero arrivato. Ma intuivo cosa avrei dovuto fare: un passo, al di là della città.
La mia vita si sarebbe conclusa, probabilmente incenerito dal calore del deserto, o dismolecolato dai guardiani a forma di gabbiano.
Quel giorno sentii il mio cuore vincere le resistenze del cardio-rallentatore, pulsare e ossigenare ogni fibra del mio corpo. Vertigini bianche. Allungai la gamba, attraversando la barriera molecolare, senza pensare, con il dolce cinguettare delle parole incomprensibili del messaggio.
Mi avrebbero fermato, qualcuno avrebbe notato il mio gesto folle e mi avrebbe catturato e messo in quarantena, nelle Prigioni della Sanità, al piano -363 del palazzo della Reggente.
Nessuno allungò un dito, o fece niente.
Solo l’alito acido della Reggente mi graffiò il viso, cercando di trattenermi. Ma ero già al di là della città e il caldo mi accolse, in una stretta sudata e umida. Dolce.
Non morii all’istante, e ne fui sorpreso.
Immediatamente, però, dai lati si aprirono due botole, e i rapaci guardiani sbucarono lucenti e letali, inghiottendo aria e sabbia.
Iniziai a camminare, e tra la sabbia dorata notai un sentiero, che dall’alto non avevo mai visto: sembrava perdersi all’orizzonte, da dove era comparso lo straniero.
Non corsi, perché scappare sarebbe stato inutile e le mie gambe non avrebbero retto. Attesi il mio verdetto, che non era pena o prigione, solo morte.
I due droidi sbatterono le ali, e uno sferragliare improvviso li investì in uno stupore liquido. Le ali si muovevano in un moto non sincronizzato, e i loro processori di carbonio e vetro mandavano impulsi illogici e assurdi. Non erano mai stati in funzione, e il programma detezione errori mandò in corto circuito le macchine, che gemettero in un lungo bip rossastro.
Io intanto avevo già percorso quaranta metri, e le mie orme metalliche disegnavano sogni e certezze sulla sabbia.
La Verità della Cieca Reggente era stata intaccata, come da un virus, 0100010001111000010010, numeri binari che avevano un senso, dimenticato anch’esso.
Ora, però, la sola cosa che importava erano i miei piedi, un passo dopo l’altro, in un cielo raschiato da nubi e polvere. Un cielo reale, bugiardo ma grato.
La Cieca reggente l’avrebbe chiamato Nube di Sventura, ma le sue parole mascheravano costrizione e ignoranza.
Cosa stavo dicendo, cosa stavo pensando? Come potevo non provare vergogna per le mie azioni, per il veloce battere del mio cuore, in aperto contrasto con la Legge?
Mi immobilizzai, e l’idea di tornare indietro diventò necessità. Forse, quell’uomo, o la sua immagine era un virus, una malattia, ed ero stato contagiato.
Il respiro si fece rapido e vuoto d’ossigeno, e la testa prese a girare. Un sirena gridò la mia fuga, nella città, e questo mi costrinse ad andare avanti.
Un passo. Cancellare ogni pensiero e cercare nelle pieghe della memoria il significato di quella frase, che stringevo come un miracolo nella mano sinistra. Poi un altro passo. E così via.
Le porte della città si aprirono vomitando carri alati e una gigantesca portantina di mercurio: la casa errante della Cieca Reggente. Non era mai uscita dalla città, e il suo furore era tale da scatenare un tremore costante della terra.
Si muovevano lenti, come al rallentatore, ma mi avrebbero raggiunto non appena mi fossi fermato, anche solo per riposare.
Poi la notte sarebbe crollata su di me come lava nera, immobilizzandomi.
Ma quando vidi tra la sabbia un esoscheletro rossastro muovere una lunga coda minacciosa, capii che la vita poteva esistere anche al di là della città.
Io stesso esistevo, al di là della città, e la Cieca Reggente perdeva ad ogni passo la sua Legge, la sua verità.
Non so cosa avrei trovato alla fine del deserto, se l’avessi raggiunta, ma era ciò che volevo, disperatamente. Mi strappai il condizionatore sferico apposto sotto la cute, appena sopra il cuore, e grosse gocce di sangue macchiarono la sabbia.
Dolore, finalmente.
Il deserto mi accolse, con colori che non conoscevo, e col passare delle ore il giallo passò al rosso e poi al blu.
Due droidi alati, guardia personale della Reggente, volarono alti sopra di me, scendendo in volute larghe e costanti. Mi osservavano, mandando immagini mentali al corpo di guardia e alla Regina. Restarono comunque alti nel cielo, bastavano gli zoom infrarossi e i rilevatori di movimento e di umore per descrivere la mia persona.
Forse pensavano di catturarmi vivo per studiare la mia malattia, ma la verità non si riesce a carpire sotto un microscopio atomico o tramite isotopi marcati. La verità è nascosta dentro di noi, come la libertà. Questo nessun droide l’avrebbe capito, forse nemmeno la Cieca Reggente.
L’importante era proseguire, strenuamente, stringendo e canticchiando le parole che mi erano state donate. La memoria che mi era stata cancellata stava tornando e, anche se non ne coglievo il senso, almeno riuscivo a leggere le lettere, intonarle, e questo mi dava speranza.
Inoltre una domanda, come un amo conficcato nel cervello, continuava a tormentarmi: dove diavolo ero?
E la città, i suoi abitanti…
Era come se una folata di vento avesse disperso la nebbia che mi oscurava la mente, la coscienza, per portare una tempesta altrettanto buia e interrogativa.
Lasciai perdere ogni pensiero e mi concentrai sul ritmo del mio respiro, che si era fatto irregolare e pesante. Non ero allenato, non ero più allenato.
Il ronzare dei miei inseguitori era una nenia costante e insidiosa, a cui era difficile abituarsi.
Mi voltai: impercettibilmente, ma con costanza, stavano guadagnando terreno. Un millimetro alla volta, con una tenacia e logica che appartenevano alla Cieca Reggente. Corrosiva come il dubbio che covava ad ogni passo, a cui dovevo resistere per non lasciarmi alle spalle ogni speranza di Verità.
Poi venne la notte, e il velo di menzogne della Cieca Reggente esplose in mille schegge innocue: non buio e morte, ma dolce variazione di stato d’animo, puntellato da mille occhi celesti. Occhi pieni di vita, e di suoni. E laggiù, a oriente e occidente, due lune mi guardavano dall’alto, bianche e venate di terra e continenti.
Sollievo, la notte, e calma.
Mi accorsi che tutto ciò era nuovo ma conosciuto. Probabilmente solo estirpato a suon di laser chirurgico e schermature psico-magnetiche dal mio cervello.
Non ero ancora in salvo, ma sentivo che avrei potuto farcela.
Mi sbagliavo, naturalmente, e solo quando arrivai nella piana della Morte me ne resi definitivamente conto.
La portantina mi aveva quasi raggiunto, ormai, ma al di là del deserto, ora, intravedevo macchie verdi di alberi.
La mia memoria stava tornando, e la notte precedente, passata a camminare al buio del quarto di luna, riuscii finalmente a decifrare quella frase: sembrava una poesia, di cui non riuscivo a comprendere appieno il senso, ma che spingeva a provare.
Riuscivo a dare un nome ad ogni cosa, e riuscivo a richiamare alcune immagini del mio passato, benché quelle fossero ancora l’eco di un miraggio.
Di fronte a me circa cento metri quadrati piatti come marmo, di una sabbia immobile, almeno in superficie. Ma qualcosa di vivo sembrava agitarsi appena al di sotto.
Arrivarono contemporaneamente, e si fermarono a 12,797 metri, come il numero perfetto.
Contai 12 carri guidati da droidi, 52 Usai, ancelle della Cieca Reggente, e 7 Proconsoli ad aiutare la nostra Regina a scendere dal mezzo mastodontico col quale mi aveva seguito.
Avrei potuto proseguire, ma quella calma piatta di fronte a me metteva disagio e angoscia. Dalla sabbia, smossa dai piedi meccanici dei droidi, sbucò una volpe del deserto. Passò a qualche metro da me, e continuò a correre verso l’orizzonte macchiato di verde.
Ci provò, almeno. Infatti la sabbia piatta, al suo passaggio, si era fatta morbida come fango, e a spirali circondò l’animale risucchiandolo verso il basso. Fu una fine lenta, orribile, monito chiaro della mia fine.
La Cieca Reggente riuscì a scendere e si avvicinò a me, lasciando tutti più indietro. Voleva parlare, blandirmi forse, e voleva farlo da sola.
“Umi-Eth, 17.”
“Umi-Eth ‘nde, o Reggente.”
Abbassai lo sguardo, non ne potevo fare a meno. Il potere che emanava era tale che anche solo sopportare il suo sguardo cieco mi era impossibile.
“Dove stai fuggendo?”
“Al di là della città.”
“Capisco.”
“Io no” dissi.
Nonostante la situazione mi sentivo completamente padrone di me stesso, come non lo ero mai stato. Mi appariva sempre più chiara la sua immagine, e appariva fragile, vecchia.
La sua voce stava perdendo di forza, e il potere che riusciva ad esercitare, ora lo capivo, era vivo solo nei confini della città. Anche la disperata lentezza dei suoi macchinari, nel grottesco inseguimento delle ultime ore, ne era la prova.
I suoi movimenti erano rimasti fluidi, ma tutti i macchinari, tutta la Vita che lei aveva creato sembrava colpita da un irrefrenabile morbo di Parkinson, senza speranza di guarigione.
“Cosa speri di trovare, al di là della città?” chiese con voce quasi isterica.
“La morte, la vita.”
Ci guardammo al di là dei nostri occhi. Lei sorrise, nonostante tutto. Io avanzai.
Bastarono tre passi per sentire il terreno farsi molle, e ad ogni metro sprofondare sempre più.
La Cieca Reggente gridò, un fischio acuto da far tremare ogni cosa; ma la sabbia già mi copriva fino al mento, fino alle labbra. Poi buio, tremore, agitazione, cuore che batte, e ancora buio.
Aria. Aria.
Al di là della città.
Aprii gli occhi, e il Bianco mi accolse, accecante. Questo vidi nel primo momento di coscienza, dopo il deserto, al di là della città.
Sentii, lontana, la mia mano stretta da un’altra, lievemente rugosa: la Cieca Reggente?
Non seppi dirlo, il buio mi prese con sé.
Non so quanto tempo passò, probabilmente un minuto o un anno, ma finalmente riuscii a resistere al Bianco, e come frattali le immagini tornarono a fuoco.
Un ospedale. Ero in un ospedale.
Il bianco, delle pareti, delle lenzuola, degli infissi, dei camici e del volto di mia madre. Il bianco a sorridere al mio risveglio.
Ero in una camera di pochi metri quadrati, disteso, al letto diciassette, e lunghi lombrichi di plastica entravano in ogni mio orifizio: cateteri di ogni tipo e per ogni funzione.
Normali precauzioni per un ragazzo in coma, da ventisette giorni esatti. Un incidente in moto e la morte, sfiorata appena.
Mia madre non aveva smesso di piangere da quando mi ero svegliato, mi stringeva stretto e piangeva, senza riuscire a fare nient’altro.
Io ero ancora stupito, e il calore del deserto mi raschiava la pelle. La città che mi aveva imprigionato era stata una costruzione mentale della mia coscienza addormentata?
Non capivo, tutto mi sembrava così assurdo, e la memoria che germogliava nei solchi del mio cervello si portava via il ricordo dei giorni uguali e immortali nella città.
Passarono molti giorni, persi ad imparare le cose più semplici del vivere, come muovere le dita, mangiare, respirare. Riuscii a riemergere, e la città era solo un sogno dai contorni indefiniti.
Fu tre giorni prima di lasciare l’ospedale che la vidi.
Stavo camminando su un grosso girello, nello sforzo di far muovere i miei muscoli atrofizzati, quando entrai nella stanza numero uno. Lì, distesa da chissà quanto, a dormire il suo sonno eterno, la Cieca Reggente.
Occhi chiusi, che sapevo ciechi, casacca bianca, e fini tubi che la ornavano come una dea. Ogni tanto fremeva, brevi spasmi muscolari mi dicevano che nella città la Legge continuava ad esistere, le regole e la conoscenza veniva regolata dalla sua mente.
Con uno scatto afferrò il mio braccio in una stretta solida, una morsa tale che dovetti usare tutta la mia debole forza per staccarmi, trovandomi poi a terra senza fiato.
Il suo potere era grande. Questo avevo imparato nella città.
Al di là della città, della sua città, il mondo viveva di leggi fisiche e temporali diverse. E circa cento persone, nel mio ospedale, continuavano a dormire in un coma che sempre più credevo indotto da quella donna. Erano prigionieri loro malgrado.
Scappai da quella stanza con un germoglio d’odio e di pena.
Il giorno dopo passai tra i letti dei pazienti in coma, cercando di ricordare facce, nomi e ombre, che avevano abitato con me la Città. Ne contai molti, troppi.
Solo nella notte, che nella Città non esiste, trovai il coraggio e la disperazione per farlo.
La tensione mi gonfiava i muscoli, e il cuore pulsava e si contorceva nel mio petto pallido, quasi fosse un corpo estraneo.
Non ricordo quasi nulla di quelle ore, passate come un’ombra tra corridoi illuminati da vacui neon, e biip incessanti di macchinari che monitoravano ogni paziente.
Nessun medico, nessuna infermiera. Solo un assassino.
Oggi, tornato a casa dopo essere stato dimesso, ho letto sul giornale quel che già sapevo: novantatre persone si sono risvegliate dal coma, quasi contemporaneamente, in un ospedale della mia città. Un miracolo, hanno detto.
Solo una paziente non ce l’ha fatta. Aveva centosei anni, ed era cieca dalla nascita.
Vegetava in un coma inspiegabile da quindici anni, come a dire: “in fondo non ci sto poi tanto male, qua, nella mia città.”
Andrea Galla, classe 1978, ha esordito nel 2004 sulla rivista Inchiostro con il racconto “Driving in the night”. Da allora ha pubblicato altri racconti in altrettante antologie; ha inoltre vinto o è arrivato in finale in svariati concorsi letterari.
Con “Al di là della città” è giunto terzo al XII Trofeo RiLL (e quindi pubblicato in “Sognando Mondi Incantati”, 2006), mentre è arrivato quarto al XVII Trofeo RiLL con "L'uomo con la ghironda" (poi uscito ne "IL FUNZIONARIO e altri racconti dal Trofeo RiLL e dintorni", ed. Wild Boar, 2011).
Il suo ultimo racconto, “La verità degli oggetti”, è stato finalista al concorso Esperienze in giallo, ed è stato pubblicato nella raccolta “Il peso del mistero” (Editrice Esperienze, 2016).
Per il futuro immagina strade misteriose che lo conducano a scrivere il suo primo romanzo.