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Da oggi on line la rassegna dei giudizi della giuria del XV Trofeo RiLL sui dieci racconti finalisti (premiati e non), con anche le note biografiche di ciascun autore.
Inoltre, a due settimane dalla cerimonia di premiazione del XV Trofeo RiLL, vi proponiamo una chiacchierata con gli autori presenti a Lucca Comics & Games 2009, sulla falsariga delle domande e risposte date sul palco.
Partiamo da Luca Barbieri, il vincitore del XV Trofeo RiLL, che nella foto qua sotto è immortalato mentre riceve la targa premio da Massimo Mongai.
Fra i molti aspetti del tuo racconto che hanno colpito la giuria c’è l’ambientazione, a metà fra il fantasy (visto che descrivi decisamente un mondo a bassa tecnologia) e la fantascienza (dato che alcuni elementi ricordano background post-atomici). Vuoi parlarcene?
È una domanda apparentemente semplice, che esige però una risposta complessa. Quando ho immaginato il mondo nel quale fare interagire i miei personaggi, non mi sono affatto posto il problema fantasy o fantascienza, perché non volevo scrivere né un tipo di storia né l’altra; quel che volevo, semplicemente, era una storia fantastica, e dunque, all’inizio piuttosto inconsapevolmente, “mi sono permesso” (per usare le belle e ironiche parole di Massimo Mongai) di mettere su carta un racconto “fottutamente di genere” ma anche “maledettamente originale”. Quando me ne sono reso conto era ormai troppo tardi per tornare indietro! Scherzi a parte, il rischio vero era quello di creare un minestrone illeggibile e sgradevole; per fortuna è andata in tutt’altro modo.
L’ambientazione che emerge dalle poche pagine del racconto, poi, è solo la punta dell’iceberg: nella mia povera, dolorante testolina c’è molto di più… In effetti si può dire che io abbia, con un certo spirito pratico, sviluppato solo le parti dell’ambientazione funzionali alla storia che volevo raccontare. Questo però non vuol dire che io non abbia chiaro in mente il mondo nel quale far muovere i personaggi (anche in vista di un futuro romanzo che mi è stato sollecitato da qualche fan), ma solo che in realtà questa idea è ancora un po’ nebulosa…
C’è da dire che l’ambientazione funziona davvero, perché l’avevo già utilizzata, anche se con diversi personaggi, per il racconto vincitore di SFIDA 2008!
In estrema sintesi, la mia idea è quella di un mondo profondamente trasformato e deformato da una serie di eventi traumatici che vengono sinteticamente ricordati dai discendenti dei superstiti come la Grande Luce, o espressioni simili. Su cosa sia stata questa grande luce sono stato volutamente vago, perché in tutta franchezza lo ignoro. Banalmente, il lettore potrebbe pensare che sia stata la madre di tutte le guerre termonucleari, che ha annientato la maggior parte della vita sul pianeta. Può essere... La mia opinione, però, è che sia stata tutt’altra cosa: un cataclisma di origine naturale e non artificiale, e che non sia avvenuto in epoca moderna. Nel racconto, infatti, non c’è traccia di residui di vecchia tecnologia superstite, i personaggi usano armi bianche, archi, fionde o lance e ignorano cosa sia la polvere da sparo, e hanno aggregazioni sociali più vicine al periodo classico, greco e romano, nemmeno a quello feudale.
A ben vedere siamo, più che nel campo del fantasy vero e proprio coi suoi archetipi, in quello dell’ucronia, della storia passata riscritta e trasformata. Il What If, la storia di terre parallele dove è successo qualcosa di diverso, mi ha da sempre affascinato terribilmente e torna in altri miei lavori.
Il tuo racconto è molte cose: un’avventura, una storia di formazione, una storia visionaria, un apologo sull’orrore della guerra… c’è davvero molto, “dentro”. Ma tu come la vedi?
Il mio obiettivo era scrivere una storia abbastanza buona da arrivare in finale. Poi è andata molto meglio. Prima di iniziare ho vagliato una serie di possibilità, avevo altri due/ tre racconti da mettere su carta che ritenevo soddisfacenti, poi però ho preferito giocarmi la carta dei Mercanti di Voce, personaggi secondari nella storia con cui avevo vinto SFIDA 2008.
Quel che ci vedo… è questo: una buona storia. Come ogni scrittore o aspirante tale devo essere il peggiore critico di me stesso, e dunque essere molto severo ed esigente. Accadde tra le umide foreste di Madre Africa (titolo a parte, che non è piaciuto quasi a nessuno) è una storia con la quale ho avuto immediatamente un’ottima confidenza, come trovare l’assetto giusto per una monoposto di Formula 1. Queste cose le sai subito, se una storia funziona oppure no lo intuisci al volo; il resto è tutto lavoro da artigiano, di pialla e cesello.
La prima stesura era quasi il doppio di quella poi inviata, e ho dovuto tagliare con il trinciapolli (altro che cesello!) per restare dentro il limite massimo concesso dal concorso; un’operazione dolorosa, che ha lasciato come vittime sul campo numerosi dettagli e informazioni che rendevano il testo più ricco e completo.
La scommessa da vincere per questa storia era quella di creare una razza di perfetti ed efficienti assassini, i Mercanti di Voce, appunto, che vivono torturando il prossimo con metodo e indifferenza, e di costruire un intero sistema sociale intorno a questo, dalla religione, alla legge tribale, agli animali totem che danno il nome ai protagonisti, alle prove di maturità da superare per diventare uomo. In molte di queste cose mi sono ispirato alla società guerriera degli Apache.
Una volta creata questa abnorme e terrificante Fratellanza di assassini, abituata fin dalla tenera età a infliggere dolore al prossimo, volevo che uno di loro si scontrasse con una realtà altrettanto orribile, se non di più, e cioè quella del devastante massacro di una battaglia campale.
La scommessa, dicevo, era appunto questa: cosa può far inorridire un ragazzo addestrato fin da piccolo nell’arte di torturare a morte? E la risposta è stata: l’insensato spreco di migliaia di vite che da sempre l’uomo fa nelle proprie guerre. È un mio chiodo fisso: trovo incredibile e sconcertante il fatto che in pochi attimi si abbia la possibilità di spegnere con leggerezza e per sempre i sogni, le speranze, i desideri, le ambizioni di migliaia di persone. Di queste vite, alla fine, tolta la retorica e l’esaltazione di valori come il coraggio o la fratellanza, non rimangono che grumi di sangue e carne morta. È questo l’aspetto della guerra che più mi terrorizza, e ho cercato di trasmettere questa emozione anche al giovane protagonista, accentuando il più possibile il paradosso che lui è comunque uno spietato assassino, che considera il prossimo come carne da tormentare per ricavarne guadagno. Gli hanno insegnato metodo ed efficienza, di non cedere alle emozioni come rabbia o piacere di uccidere, di tenersi distaccato come un professionista al lavoro, ma il carnaio nel quale piomba è per lui un autentico inferno. Lo spaventa il lato più animalesco e primitivo dell’uomo, che viene simboleggiato dai gorilla da guerra cavalcati dai pigmei, l’ultima e più rozza arma che pone fine alla battaglia. che si conclude, ricordiamolo, senza né vinti né vincitori, ma solo con tantissimi cadaveri insepolti.
Fatto questo lungo discorso, prima di chiudere, vorrei dedicare questo premio a mia nonna Liliana, che ci ha da poco lasciati. Sono sicuro che sarebbe stata davvero orgogliosa del mio primo posto. Ciao, nonna!
Dalle atmosfere di guerra e orrore di Luca Barbieri passiamo a quelle poetiche e romantiche di “Ponti”, il racconto terzo classificato. Un racconto che si sviluppa su due piani temporali, la Roma antica e quella moderna, fra loro collegati da una magica storia d’amore.
Ne parliamo con l’autrice, Angela Di Bartolo…
Il tuo racconto è per tre quarti la lettera di uno schiavo romano a un altro schiavo. Ed è incredibile l'esercizio di mimesi stilistica che hai fatto. Sembra una vera lettera di quell’epoca. Come ci sei riuscita?
Direi che non è stato difficile, anzi, è stato divertente. Una volta scelto il mio protagonista (uno schiavo romano istruito) e la forma del racconto (una lettera), non ho fatto altro che riesumare i miei vecchi libri di Letteratura Latina del liceo e… ristudiarli!
Ho cominciato col riprendere in mano le lettere di Cicerone e Augusto, e con mia grande sorpresa, una pagina dietro l’altra, ho finito per rileggermi tutto il resto, comprese le elegie di Catullo e degli altri poeti, in Latino e in metrica! Un’autentica, piacevolissima riscoperta!
Per creare l’atmosfera che cercavo, ho fatto una vera full immersion.
Poiché conosco pochissimo Roma, mi è venuto spontaneo cercare foto e ricostruzioni, studiare la topografia della Roma antica e confrontarla con quella moderna. Ho consultato libri e riviste, ho guardato documentari, mi sono tuffata nella rete per pescare notizie su usanze, superstizioni e leggende, dal calendario romano al nome dei vini. E così, divertendomi, mi sono ritrovata tra le mani tante tessere di un puzzle, che ho cercato di inserire al posto giusto per dare vita e verità all’ambientazione e ai personaggi. Ho dato al racconto uno sfondo storico solido, sul quale poi poter innestare con credibilità l’elemento fantastico. Se ci sono riuscita o meno, sarà il lettore a deciderlo!
Beh, Angela, la giuria e noi RiLLini pensiamo proprio di sì.
Piuttosto, come nasce il tuo racconto, decisamente diverso da quelli che di solito riceviamo per il concorso (il che, diciamolo per inciso, è un merito)?
La primissima idea mi è stata suggerita dal nome stesso di RiLL. Un nome di per sé evocativo: Riflessi di Luce Lunare… Riflettersi, qualcosa che si riflette… Ecco, mi sono detta, potrei scrivere di qualcosa, o di qualcuno che si riflette… dove? Perché non in un fiume? Perché non nel Tevere?
Per un’appassionata di archeologia, il Tevere è un must… Quanta acqua è passata sotto quei ponti!
Arrivati a parlare di Roma, con Angela Di Bartolo e il suo “Ponti”, restiamo nella capitale per un paio di domande a Francesco Troccoli, l’autore (romano) del racconto vincitore assoluto di SFIDA 2009, “Il caso estremo Ana Caldeira”.
Per chi non lo ricordasse, SFIDA è il concorso parallelo al Trofeo RiLL, riservato a tutti gli ex finalisti, e che mette in palio la pubblicazione sulla nostra antologia annuale. Quest’anno la sfida consisteva nello scrivere un racconto che avesse al suo interno almeno tre fra questi cinque elementi: un personaggio (un bibliotecario), un luogo (la zona morta), una cosa (una nota musicale), una parola (CE193SG) e una frase (tratta da un racconto di A. C. Clarke).
Fra i sei testi da noi selezionati (e che potete leggere in Cronache da Mondi Incantati), la direzione di Lucca Comics & Games ha voluto assegnare un premio speciale al lavoro di Francesco, che è quindi il vincitore assoluto di SFIDA 2009.
Ma veniamo alle domande…
La tua è una storia molto letteraria, e insieme molto familiare, umana. Un omaggio al sogno di essere scrittori e al valore della scrittura. Ma anche ai valori più basilari della vita quotidiana, visto che alla fin fine il protagonista è un figlio che vuole salvare la madre. Perchè questo mix?
Sono contento che passi un messaggio di “umanità”, perché è ciò che perseguo regolarmente nelle mie storie.
In un periodo in cui la narrativa di genere è così ridondante di atmosfere nere, toni cupi e infelicità senza scampo, io continuo a credere nella positività di fondo dell’essere umano. Che è per sua natura predisposto ad aiutare i suoi simili, a realizzare con essi dei rapporti umani, appunto. E così, per venire al racconto, un ragazzo arriva a rinunciare alla sua identità di scrittore pur di salvare la vita di un altro essere umano. La scelta della madre come co-protagonista è tutto sommato secondaria, almeno lo era nelle mie intenzioni. La madre è innanzitutto e giocoforza la prima donna con cui un bambino si mette in rapporto, e credo che in realtà in questo senso la storia pretenda di andare al di là dei cliché della vita quotidiana. Forse una relazione fra una donna e un uomo adulti sarebbe stata in grado di veicolare meglio l’idea, ma a me servivano i sogni di un bambino.
In merito al valore della scrittura, credo di aver cercato di esprimere il fatto che scrivere è un atto creativo con cui emergono, e si trasmettono, immagini profondamente inconsce. Un po’ come sognare, appunto, ma con la differenza che non si tratta di immagini generate durante il sonno.
Per un pluri-partecipante al Trofeo RiLL come te, che puntualmente ci manda storie di fantascienza, questa puntata nel fantastico puro (non un genere particolare, ma un’atmosfera e molti riferimenti qua e là) salta agli occhi. Da cosa deriva questa tua scelta?
Non vorrei riaprire la discussione, cara a molti, sui confini del genere e sulla sua suddivisione in sottogeneri, anche perché non amo le classificazioni. L’insieme di generi e sottogeneri accomunati dall’obbligo della sospensione dell'incredulità è vastissimo: si va dal teletrasporto a bordo dell’Enterprise di Gene Roddenberry al Gregorio Samsa trasformato in un insetto immondo di Franz Kafka. A me piace l’idea di tentare di scrivere qualunque cosa sia compresa fra questi due estremi.
Nel periodo in cui ho scritto “Il caso estremo Ana Caldera” ero rimasto folgorato dai romanzi di Carlos Luis Zafòn (“L’ombra del vento” e “Il gioco dell’angelo”) e dopo aver scritto questo racconto mi sono reso conto che avevo in effetti tentato di imitare in qualche modo le sue ammalianti atmosfere ispano-gotiche, l’incertezza continua che perseguita il protagonista e sulla quale infine prevale, ancora una volta, la certezza dell’umano. Penso che continuerò a cimentarmi con questo tipo di ambientazione, che trovo affascinante e piena di stimoli.
Lo svolgimento del racconto, inoltre, è stato fortemente condizionato (com’è ovvio) dai vincoli imposti dal bando del concorso SFIDA, con i quali ci tenevo a scontrarmi frontalmente, dando ad essi un’importanza primaria nella trama, senza ridurli a mere citazioni obbligatorie. Trattandosi quindi di una specie di “esperimento vincolato”, sono ben felice di sapere che la mia storia colpisca!
(testi raccolti e collegati da Alberto Panicucci; foto di Alex Marchetti e Riccardo D’Antimi)