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di Francesca Garello
Terzo classificato al XIV Trofeo RiLL
[racconto presente nell’antologia Fuga da Mondi Incantati, Nexus Editrice, 2008]
“In principio il paziente lamentava cefalea, ostruzione delle alte vie respiratorie, una diffusa sudorazione fredda. In verità, a suo dire i sintomi erano molti di più: palpitazioni, tremore, nausea, vertigini, cefalea. Una lieve alterazione della temperatura e un modesto ingrossamento dei linfonodi indusse a diagnosticare una blanda forma parainfluenzale e gli fu prescritta una cura sintomatica a base di antistaminici e paracetamolo.”
Il giovane medico girò la pagina degli appunti che aveva davanti a sé e rialzò gli occhi sul pubblico.
Era nervoso. Quella era la prima volta che parlava a un convegno di quella portata, non era una tranquilla riunione seminariale all’università, con le solite facce e i professori che ti conoscono bene.
Era un Congresso Internazionale, organizzato in un paese all’avanguardia nella ricerca e questa volta, nella sala dove lui parlava, erano seduti un paio di candidati al premio Nobel.
Guardò nuovamente gli appunti e gli sembrò che tutta quella faccenda fosse un’assurdità. Perché, perché si era intestardito a partecipare?
Si fece forza, conscio della situazione e della sua importanza.
“In seguito alla terapia i sintomi regredirono completamente, e il paziente tornò alla normale vita quotidiana e lavorativa.”
I due quasi premi Nobel guardavano educatamente le slides che passavano sullo schermo, blandamente interessati a questo caso che in apparenza non presentava alcuna novità o stranezza.
Il relatore proseguì.
“Tre giorni dopo il paziente giunse al locale Pronto Soccorso lamentando difficoltà di respirazione e tachicardia. Inoltre, il soggetto evidenziava un generale senso di perdita del controllo sulle proprie funzioni fisiche e mentali, nonché una condizione ansiosa acuta. Considerando la giovane età del paziente e la discreta forma fisica generale, i disturbi furono interpretati come un attacco di panico. Fu prescritta una terapia a base di ansiolitici e miorilassanti e gli fu consigliato di intraprendere un percorso psicoterapeutico.”
Bene, l’esposizione era chiara e finora non si era impappinato, nonostante la difficoltà di usare una lingua straniera. Tutto sommato gli sembrava di andare tracciando il quadro in maniera razionale. Si sentiva rinfrancato e fece per riprendere l’esposizione con più sicurezza.
Lo sguardo dei due quasi premi Nobel però lo preoccupò un tantino. Uno dei due, un coreano piccolo di statura e con spessi occhiali da miope, fissava le slides con sguardo aggrottato. L’altra, un’americana bionda con i capelli molto cotonati, sembrava scrutare il giovane relatore con lo sguardo di chi fissa un vetrino non preparato a dovere.
Inspirò. Ora capiva esattamente cosa fosse un attacco di panico e rivolse un pensiero di solidarietà al paziente che gli aveva fornito il materiale per quella ricerca. Espirò. Doveva andare avanti.
“Alla fine della settimana il paziente lamentò nuovi sintomi. Era comparsa una sindrome ossessiva che lo spingeva a pensieri ripetuti, invadenti e non desiderati. Il giovane riferì di sentire il bisogno di mettersi in contatto con tutti coloro che conosceva e persino con persone che non frequentava più da molto tempo, come per esempio vecchi compagni di scuola o ex colleghi di lavoro. Presentava inoltre un rialzo della temperatura corporea.”
Si interruppe per qualche secondo, imponendosi di non guardare i due quasi premi Nobel. Bevve un sorso d’acqua.
“Poiché nonostante questi disturbi il paziente riusciva a mantenere una certa normalità nella sua vita quotidiana, non furono presi ulteriori provvedimenti, a parte degli antipiretici per abbassare la febbre. Anche se le sue prestazioni erano estremamente diminuite in quantità e qualità, infatti, egli continuava ad andare al lavoro e rispettava i normali ritmi della giornata e i suoi appuntamenti fissi: pranzo, cena, sonno, eccetera.”
Il coreano si tolse gli occhiali e li ripulì accuratamente. Se li rimise poi sul naso e riportò lo sguardo verso le slides, come sperando che nel frattempo fosse cambiato qualcosa. Ma naturalmente l’elenco dei sintomi era sempre lo stesso, quindi il professore scosse apertamente la testa. Il gesto non sfuggì al relatore, e la conseguenza immediata fu che la sua voce, già esile, si abbassò a un sussurro captato a mala pena dal microfono che aveva davanti. Tuttavia continuò.
“Ogni giorno l’ossessione si fece sempre più dominante fino a che si trasformò, secondo un prevedibile decorso, in una sindrome compulsiva. Il paziente cominciò a riempire fogli e fogli di carta con frasi apparentemente inspiegabili: con grafia accurata e regolare tracciava decine e decine di volte i suoi dati anagrafici, nome, cognome, data di nascita, residenza, stato civile, persino il codice fiscale, fino a riempire il foglio. Poi lo metteva in una pila e passava a riempire il successivo nello stesso modo. E così via per tutto il giorno, senza alcuna interruzione neppure per dormire o nutrirsi. La febbre superò i trentanove gradi Celsius. A quel punto la madre, preoccupata, chiamò il medico di famiglia, che diagnosticò uno stato paranoico e consigliò l’assunzione di farmaci neurolettici. In quella circostanza fu somministrato dell’aripiprazone.”
La scienziata americana estrasse il palmare dalla borsa e cominciò a controllare le e-mail, palesemente seccata dallo spreco del suo prezioso tempo che quella comunicazione costituiva.
Fortunatamente il gesto fu interpretato dal giovane ricercatore come un notevole interessamento della scienziata alla sua esposizione, tanto da spingerla a prendere appunti. Rassicurato, riprese la sua comunicazione.
“Nonostante la terapia farmacologica le condizioni del paziente peggiorarono. Smise di comunicare con i familiari e le uniche parole che rivolgeva loro erano frasi sconnesse che ruotavano intorno al concetto di essere molto occupato. Restava chiuso ostinatamente nella sua stanza, indebolito dalla febbre alta, uscendone solo velocemente per compiere gesti inconsulti: fu sorpreso a frugare nella borsetta della madre e nella stanza del fratello, rubò effetti personali dal cappotto di un parente in visita, strappò di mano alla colf la posta che la donna aveva appena ritirato dalla casella postale del condominio. Non sembrò interessato a denaro o oggetti preziosi: si limitò a sottrarre agende e foglietti di carta con appunti privi di importanza, numeri di telefono, recapiti di conoscenti. Il giorno successivo scomparve.”
Lo scienziato coreano fu suo malgrado catturato da quella storia, più simile a un racconto giallo che a una conferenza scientifica. Si sistemò più comodamente nella poltrona, si tolse le scarpe e si allentò la cravatta.
“I familiari diedero l’allarme alle forze dell’ordine, che lo ritrovarono poche ore dopo all’ufficio postale di quartiere. Rintracciarlo fu facile. Era stato visto in più punti del vicinato, e sempre intento ad azioni incoerenti: il primo avvistamento fu riportato da una copisteria, dove il giovane era salito su una macchina fotocopiatrice, vi si era disteso in modo da posizionare la faccia sul piano di riproduzione e aveva avviato la copiatura in serie; si era poi diretto verso la ferramenta, dove aveva acquistato un’esagerata quantità di chiavi; infine era giunto all’ufficio postale, dove stava spedendo centinaia di plichi in buste bianche e prive di intestazione. All’interno tali plichi contenevano ciascuno una fotocopia del suo viso, un foglio con i dati anagrafici, una chiave. Lo stato di confusione fu attribuito anche alla febbre altissima, che ormai superava i quaranta gradi.”
La professoressa alzò gli occhi dal palmare e commentò qualcosa con il suo vicino di posto.
“La madre chiamò allora la guardia medica, che predispose il trattamento sanitario obbligatorio e il conseguente ricovero in una struttura psichiatrica.”
A questo punto la scienziata americana non poté trattenere un commento.
“Giovanotto, questo è un congresso di virologia. Gli psichiatri sono alla porta accanto. Forse ha sbagliato sala.”
Il resto del pubblico annuì e un intenso brusio cominciò a diffondersi tra i presenti.
Il ricercatore si passò un fazzoletto sulla fronte sudata. Sarebbe stato lapidato, accademicamente parlando. Eppure doveva finire la comunicazione, era troppo importante.
“Sì, certo, professoressa. Ecco, ora ci arrivo...”, prese un bel respiro e ripartì.
“All’ospedale fu sottoposto agli esami di routine all’atto del ricovero. Il medico in servizio in quel momento ero io...”
L’americana inarcò un sopracciglio e scosse la testa, il coreano si sporse un pochino in avanti.
“Esaminai i risultati degli esami del sangue e rilevai una notevole alterazione nei valori dei leucociti. Tuttavia il paziente non mostrava sintomi palesi di una qualche malattia a decorso acuto, e pensai quindi di approfondire le analisi. Tutte le analisi sierologiche indicarono valori compatibili con un’infezione virale. La ricerca di antigeni virali caratteristici, tuttavia, non diede risultati apprezzabili.
“Nonostante la contraddittorietà delle analisi, mi convinsi di essere di fronte a un’infezione virale piuttosto che a un caso psichiatrico, sostenuto anche dalla presenza costante di un’elevata temperatura del paziente, inspiegabile con un disturbo mentale. Decisi quindi di trattare il paziente con interferone beta che, benché non specifico per la sua infezione ancora sconosciuta, poteva rafforzare la risposta immunitaria innata verso patogeni di origine virale.”
Il brusio nella sala diminuì. Entrambi i quasi premi Nobel annuirono meccanicamente, approvando l’approccio iniziale al caso.
“Con mio disappunto però non ci fu alcuna risposta, né positiva che negativa, e le condizioni del paziente non mutarono.”
I due scienziati sembrarono un po’ delusi. Il giovane medico riprese subito l’esposizione, per non perdere l’attenzione che aveva così faticosamente catturata.
“Decisi quindi di somministrare al paziente un antivirale specifico per l’inibizione della replicazione dell’acido nucleico virale, più precisamente della ribavirina.
“Questo sembrò dargli sollievo per la prima volta. Il paziente uscì dal suo stato paranoico e riuscii a avere con lui una breve conversazione. Gli chiesi quindi se si fosse di recente recato in qualche paese straniero, oppure se avesse avuto contatti molto personali con cittadini di paesi a rischio sanitario. Le risposte furono negative: il giovane conduceva una vita molto regolare che divideva tra il lavoro, la famiglia e la squadra di calcetto. Gli chiesi quindi se per lavoro fosse stato esposto a eventuali rischi di contaminazione, se magari lavorasse in una sede disagiata, in ambienti con scarso livello igienico. Mi rispose che faceva il tecnico informatico e in pratica non usciva mai dal suo ufficio ben illuminato, ben condizionato e pulito.
“La situazione sembrava inspiegabile ed io cominciavo a abbandonare ogni speranza di trovare una causa organica ai suoi disturbi. Il paziente, inoltre, stava perdendo nuovamente la sua lucidità, segno che l’effetto dell’antivirale non era duraturo.
“Gli chiesi infine se si fosse ferito, magari anche non profondamente, e fosse venuto a contatto con materiali infetti. Egli non rispose subito poiché cominciava a ricadere nella sua ossessione, tuttavia in un barlume di lucidità mi mostrò il dito indice della mano destra e disse: Mi sono punto..., ma non riuscì a proseguire e ricominciò a declinare i suoi dati anagrafici.
“Effettivamente sul dito aveva il segno di due piccole punture molto ravvicinate. In principio pensai che fossero state prodotte da un insetto o dal morso di un piccolo animale, tuttavia a guardarle meglio apparivano più simili alla lesione di uno strumento metallico, poiché erano nette e prive di alcuna tumefazione. Scartai quindi l’ipotesi che il paziente fosse stato punto in un ambiente aperto, magari il campo da calcetto, e ipotizzai che fosse conseguenza di un’attività al chiuso. Contattai quindi il datore di lavoro del paziente e gli chiesi dove stesse lavorando l’ultimo giorno in cui si era recato in ufficio. Egli rispose che si trovava nell’area di intervento tecnico, dove già da parecchi giorni stava lavorando su un computer che aveva mostrato segni di malfunzionamento.”
Qui il giovane ricercatore fece una pausa, e si accorse così che nella sala era sceso un interessato silenzio.
“Mi recai ad esaminare il computer su cui il paziente lavorava. Si trattava di un personal computer da tavolo con processore Intel Pentium IV e sistema operativo Windows XP, apparentemente di tipo piuttosto normale e utilizzato sia per uso professionale che casalingo. Il case era aperto e mostrava le componenti interne. Benché non esperto della materia, notai che uno dei microchip della motherboard era fuori posto, solo appoggiato nella sua sede, ma non connesso attraverso i pin al resto della struttura. Con le pinze rimossi il microchip e lo portai in laboratorio per esaminarlo meglio.”
L’immunologa americana mise via il palmare e si legò i capelli cotonati con un elastico.
“Tracce di sangue del paziente furono rinvenute sui pin del microchip, che per forma e consistenza erano compatibili con il tipo di lesione sul dito. Eseguii quindi un’accurata analisi della superficie dell’oggetto per rilevare la presenza di elementi patogeni, senza tuttavia trovarne. A quel punto cominciai a ipotizzare che l’agente infettivo non si trovasse sul microchip, ma dentro.”
Ecco, l’aveva detto. Nonostante l’assurdità della situazione si sentì meglio. Magari non gli avrebbero creduto subito, ma almeno stava spargendo la notizia.
Il virologo coreano si rimise le scarpe e si alzò, spostandosi in prima fila accanto alla collega americana.
“Con l’aiuto del tecnico informatico del policlinico universitario dove presto servizio esaminammo il chip. Si trattava di un modello sperimentale di circuito integrato su base biologica, un biochip. Ne riattivammo le funzioni inserendolo in un computer dell’ospedale, e analizzammo il malfunzionamento della macchina.
“Risultò affetta dal virus W2008.Winux, un virus multipiattaforma piuttosto raro creato per potersi diffondere sia in ambienti Windows che su quelli unix-like. Il programma possiede una routine di infezione con il compito di copiare il codice del virus all’interno di ogni file selezionato dalla routine di ricerca, in modo che venga eseguito ogni volta che il file infetto viene aperto.”
Il giovane ricercatore osò alzare gli occhi sull’uditorio e scorse il coreano che annuiva lentamente, mentre la professoressa americana scribacchiava sul retro del programma del convegno. Riprese con più slancio.
“Il virus è stato concepito per analizzare l’ambiente in cui viene a trovarsi e adattarsi ad esso, muta a seconda della piattaforma con cui viene in contatto. Si sviluppa in tre fasi successive: dapprima si installa nel sistema operativo dell’ospite, poi inizia a replicare sé stesso ed infine si diffonde attraverso la posta elettronica, spedendosi agli indirizzi che trova a disposizione nell’ambiente in cui si è installato o a quelli di cui si impadronisce attraverso l’ospite. In alcune varianti installa anche una backdoor, un programma accessorio che consente di accedere al sistema infetto attraverso una chiave di accesso segreta. L’azione di questo virus è particolarmente perniciosa perché danneggia anche l’hardware: sovraccarica il processore con l’esecuzione di loop di operazioni identiche, sottraendo energia all’alimentazione del sistema di raffreddamento della CPU e causando così un aumento della temperatura interna che alla lunga può provocare il danneggiamento dell’hard-disk.”
L’immunologa si voltò per commentare con il virologo, che però la zittì frettolosamente. Il giovane ricercatore aveva accelerato il ritmo dell’esposizione, la sua voce ormai sicura snocciolava dati e elencava terapie e le slides si susseguivano serrate.
“Analizzando il virus si nota una struttura nella sintassi del codice binario di programmazione che lo avvicina molto alle sequenze genetiche dei retrovirus umani. Questo mi ha indotto a ipotizzare che il virus si sia servito di un enzima, il DNA-polimerasi o trascrittasi inversa, per indurre la propria replicazione nell’organismo umano. L’enzima è infatti tipico dei retrovirus, che la utilizzano per poter replicare il proprio genoma integrandolo in quello della cellula da loro infettata.”
Il coreano e l’americana si guardarono incerti. Era chiaro dove stava andando a parare. Un contagio interspecie. La mutazione di un virus informatico che poteva aggredire anche l’uomo. Il primo caso della storia.
“Ipotizzando quindi che responsabile dell’infezione fosse la trascrittasi decisi di somministrare dall’AZT. E infatti in principio qualche miglioramento si verificò. Per esempio, dopo la somministrazione di tre cicli, il paziente smise di replicare i suoi dati anagrafici e riuscì a prendere sonno per qualche ora. Tuttavia devo aggiungere che l’effetto non si rivelò stabile. I sintomi riaffiorarono e la compulsività ricominciò, come anche la febbre.”
I due scienziati si fecero preoccupati.
“Nel frattempo, pur non potendo individuare con chiarezza il virus ma nella certezza della sua presenza, si misero in atto tutte le precauzioni necessarie al trattamento del caso. Il paziente fu messo in isolamento per un periodo non definibile di quarantena.”
L’uditorio ricominciò a bisbigliare. La quarantena suggeriva scenari inquietanti di contagio di massa e relativi problemi di contenimento della pandemia.
“Il provvedimento fu preso nella consapevolezza che il suo unico scopo era impedire la propagazione del virus, ma purtroppo non faceva nulla per le condizioni del paziente, che infatti continuavano a peggiorare.”
La preoccupazione negli occhi del giovane ricercatore era riflessa in quelli dei due scienziati in prima fila e di tutto il pubblico.
“Tentammo quindi con la terapia genetica, ma le analogie tra l’impianto binario del virus e le sequenze dei genomi non erano così chiare, e dovemmo quindi abbandonarla per le difficoltà di programmazione... cioè, scusate, di realizzazione. Tentammo ancora diversi approcci, ma sempre con scarsi successi. Le condizioni del paziente intanto peggioravano sensibilmente, poiché la febbre stava causando un deterioramento di alcune aree cerebrali e cerebellari.”
Le slides erano finite. Il giovane si fermò a riprendere fiato. Terminò.
“Infine il decorso arrivò alla sua inevitabile conclusione”, disse con espressione di rammarico.
“Il paziente è morto?”, chiese ansiosamente il virologo coreano.
“Ah, no, se è per questo è sopravvissuto, anzi oggi gode ottima salute”, disse sorridendo il relatore.
Poi concluse, con un tono come di scusa.
“Però abbiamo dovuto formattarlo.”
Francesca Garello è archeologa, archivista, scrittrice di racconti e curatrice di molte antologie e progetti nel campo del Fantastico. Dopo essere comparsa come autrice in numerose antologie del Trofeo RiLL (che ha vinto due volte di seguito: nel 2004 con “Rifiuti Speciali” e nel 2005 con “Pari Opportunità”), dal 2016 partecipa spesso all’annuale Mondi Incantati in veste di traduttrice.
Con la casa editrice Homo Scrivens ha pubblicato “L’uomo che volle farsi strega”, antologia che raccoglie diciotto suoi racconti fantastici.
Leggi l'intervista a Francesca Garello realizzata in occasione del trentennale del Trofeo RiLL.