Oscure Regioni: i miti dietro i racconti

La rassegna dei miti popolari italiani che hanno ispirato i racconti delle due antologie Oscure Regioni
di Luigi Musolino
[pubblicato su RiLL.it nell'agosto 2016]

Oscure Regioni (volume 1 e volume 2) è stato un lungo e appassionante viaggio nel folclore del nostro paese, un itinerario nel passato attraverso borghi abbandonati, vecchi cascinali e caverne misteriose, alla riscoperta di figure quasi dimenticate ma che in qualche sinistro modo riescono a riaffacciarsi nel presente, seppur eclissate dalle sovrastrutture dell’età moderna.
La mia intenzione, quando ho deciso di intraprendere questo itinerario, era di scrivere delle storie dell’orrore (spero efficaci) utilizzando come fulcro per i racconti le leggende che i nostri nonni narravano intorno al fuoco, nelle stalle, mentre all’esterno imperversavano il freddo e il buio.

Il lavoro di documentazione è stato avvincente e impegnativo, e con questo articolo voglio darvene un piccolo assaggio, passando in rassegna i venti miti popolari che hanno ispirato i racconti delle due antologie.

La rassegna raccoglie i miti popolari ordinandoli per regione, da nord a sud, arrivando infine alle isole. Ciascun “blocchetto” individua prima il racconto, poi la regione e il mito popolare di riferimento.
In calce all’articolo, infine, è riportata una bibliografia minima su queste tematiche.
(Nota Bene: l'articolo di Luigi Musolino pubblicato in questa pagina non è contenuto nelle due antologie cartacee Oscure Regioni; è invece presente nell’e-book di Oscure Regioni - volume 2)

Les Abominations des Altitudes – Valle d’Aosta – Il dahù
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 2”)
Il dahù è un animale leggendario, conosciuto lungo tutto l’arco alpino. Diffuso in diversi stati europei, assume nomi diversi a seconda delle aree geografiche: dahu, dahut, daru, darou, dairi.
Nel nostro paese la figura del dahù è particolarmente diffusa in Valle d’Aosta. Anche in Francia si parla di questo animale leggendario, e variazioni sul tema sono diffuse sino ai Pirenei. Le origini di questa creatura montana sono antichissime: si trovano rappresentazioni del dahù in pitture rupestri in remote località scandinave e addirittura in Tibet.
Creatura delle montagne, l’anatomia del dahù è tra le più originali mai partorite dalla fantasia popolare: simile a un camoscio, dotato di corna in quasi tutte le descrizioni, possiede zampe asimmetriche che gli permettono di mantenere l’equilibrio lungo i pendii scoscesi. Esistono due tipi di dahù:i levigiri, con le gambe sinistre più corte, e i destrogiri, con le zampe destre più corte. Questa particolare conformazione è sia un vantaggio che un handicap per l’animale, costretto a girare intorno allo stesso monte in un’unica direzione.
Inoltre pare che per catturare un dahù sia sufficiente chiamarlo a gran voce: curioso di natura, si girerà verso valle, perdendo l’equilibrio e abbattendosi sulle rocce sottostanti.
Anche la riproduzione (che avviene tramite uova) per il dahù è molto complicata, perché a causa delle sue caratteristiche l’incontro tra un dahù maschio e un dahù femmina è complicato, e secondo alcuni criptozoologi è stata proprio questa la causa della loro estinzione. Sì, perché qualcuno sostiene che il dahù sia realmente esistito, e nel corso degli anni si sono susseguite voci di avvistamenti e incontri con questo bizzarro camoscio (e in Rete gira addirittura qualche filmato della misteriosa creatura).
Negli ultimi anni si è assistito a un forte recupero di questo mito popolare: il dahù è simbolo delle tradizioni folcloristiche e di valori che vanno dissipandosi, e la sua rivalutazione rientra in un’ottica di valorizzazione culturale del passato di montagne e borghi. Nel 2007 il dahù è addirittura diventato la mascotte delle Universiadi invernali di Torino. È spesso rappresentato in toni cartooneschi, e i bambini vanno matti per le sue storie e il suo goffo incedere.
Nel mio racconto il dahù, l’Asimmetrico, diventa la parte in ombra della montagna, il suo lato oscuro, pronto ad abbattere chi osa sfidarla o mancarle di rispetto.

Il libro di Malanina – Piemonte – Le masche
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 1”)
Tra le figure più antiche e famose del folclore nazionale, le masche (conosciute anche col nome di “brutte”) scorrazzano in lungo e in largo per le campagne piemontesi dalla notte dei tempi, con una particolare predilezione per le zone del Roero, delle Langhe, del Biellese e del Canavese.
Streghe, fattucchiere, poco importa se di aspetto orripilante o nascoste sotto le sembianze di splendide giovinette, pare che la loro origine possa essere fatta risalire ai tempi remoti dei Celti Liguri stanziati in Piemonte (parliamo di un migliaio di anni prima di Cristo), presso i quali erano sciamane, druide, donne emancipate con primitive conoscenze di medicina, poi demonizzate e trasformate in pericolo per la comunità dalle dottrine cristiane.
Sono accomunate da poteri sovrannaturali che devono tramandare al momento della morte. Tra questi “doni” ricordiamo la bilocazione, la capacità di mutare in animali, di volare e controllare gli elementi.
Si narra che ogni masca abbia a sua disposizione Il Libro del Comando, vero e proprio formulario di incantesimi e iatture redatto in dialetto e Latino, strumento indispensabile per scagliare incantesimi, preparare pozioni con erbe medicamentose raccolte nottetempo e predire il futuro.
Fino a non troppi decenni fa, nelle cascine e nelle campagne della Bassa, le masche venivano incolpate di qualsiasi accadimento negativo, dalla quisquiglia alla tragedia di paese. Se una gallina si ammalava era stata senza dubbio una masca. Se un bambino moriva in culla era certo che fosse stata una masca a succhiargli via il respiro. E scivolando più indietro nel tempo, documentandosi, non è difficile scovare atti processuali di masche e masconi (la poco diffusa controparte maschile) perseguitati e mandati al rogo dalla Santa Inquisizione. Capri espiatori, povere vecchie emarginate dalla comunità, donne perverse in odore di zolfo? Poco importa, a tutt’oggi le masche sono ben presenti e radicate nell’immaginario piemontese, tanto che è uso comune esclamare “Aj sun le masche!” (“Ci sono le masche!”, quando succede qualcosa di strano o imprevisto. Numerosi carnevali e feste di paese sono dedicate a questa figura.
Nato e vissuto in Piemonte, sin da bambino le masche fanno parte del mio immaginario. Nel paese in cui sono cresciuto, Idrasca, mezz’ora di automobile da Torino, con questo termine non solo si indicano le streghe della tradizione, ma anche colossali volti mostruosi che apparirebbero in determinate notti tra le cime dei pioppi, presagi di sventura e di un altrove nascosto appena oltre il reale, figure che mi hanno sempre ricordato uno dei migliori racconti weird di tutti i tempi, The Willows di Algernon Blackwood.

Soltanto una povera vecchia – Liguria – Le bagiùe
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 2”)
Le bagiùe o bazure sono le streghe della tradizione ligure, famose soprattutto per le vicende legate al borgo di Triora, in provincia di Imperia, che alcuni definiscono la Salem italiana.
Intorno alla fine del XVI secolo numerose donne locali (capro espiatorio di una tremenda carestia che infuriava nel borgo di Triora) vennero accusate di praticare la stregoneria, provocando pestilenze, moria di bestiame e tutta una serie di calamità documentate negli atti processuali dell’epoca. Arrivò l’Inquisitore Capo di Genova, che instaurò un vero e proprio clima di terrore e individuò oltre trenta presunte bagiue: tra le “imputate” vi erano anche delle nobildonne di Triora, tra cui Isotta Stella, la prima a morire per le torture subite nella cosiddetta Casa delle Bagiure, un edificio privato convertito in carcere per le presunte fattucchiere in attesa del verdetto.
Il processo durò due anni, alla fine del quale diverse ragazze e un giovane vennero riconosciuti colpevoli di atti terribili (compreso il cannibalismo di infanti) e condannati a morte sul rogo. Le persecuzioni e le torture si estero anche a paesi limitrofi, come Sanremo.

Uno dei luoghi cardine di Triora che cito anche nel racconto ligure è la Cabotina, un quartiere povero abitato da donne sole e prostitute, che furono le prime ad essere colpite dalle accuse dei compaesani: ciò ci dice molto del clima dell’epoca, dominato dalla fame e dal sospetto, in cui una semplice diceria poteva scatenare terribili ripercussioni.

I nastri di Larrie – Lombardia – Larrie
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 1”)
L’esistenza dei mostri lacustri è da decenni uno dei campi d’indagine favoriti dalla criptozoologia. A parlare di bestioni di lago il pensiero corre immediatamente a Nessie, il famoso mostro di Loch Ness in Scozia, protagonista di centinaia di avvistamenti nonché ottimo specchietto per attirare turisti e curiosi nella zona. Ma in tutto il mondo, dall’America alla Turchia, passando per l’Argentina e arrivando persino in Siberia, sono centinaia i presunti laghi abitati dall’ultimo esemplare di una specie estinta o da mostri-deità temuti dalle popolazioni indigene. Una delle teorie promulgate dalla criptozoologia è che queste creature, spesso immortalate in filmati sgranati e tremolanti, altro non siano che plesiosauri o storioni/ anguille preistorici sopravvissuti all’estinzione in un habitat particolarmente adatto alla loro sopravvivenza.
L’Italia non fa differenza. Nell’industrializzata Lombardia, basta allontanarsi dai grandi centri urbani e spingersi verso le sponde del lago di Como per imbattersi nella leggenda di Larrie, il mostro del lago. I primi avvistamenti risalgono all’immediato dopoguerra; riportati da giornali locali e non solo (ne parlarono Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Tempo), suscitarono prima scalpore nell’opinione pubblica, e poi timore e paura quando s’iniziò addirittura a vociferare di attacchi della bestia ai danni di pescatori e bagnanti.
Solitamente descritto come un animale dal corpo bislungo (da anguilla), dimensioni dai 60 ai 120 metri, con una terrificante testa di coccodrillo, alcuni criptozoologi iniziarono a ipotizzare si trattasse di un esemplare sopravvissuto di Lariosauro (da cui il nomignolo Larrie), rettile acquatico del Triassico realmente esistito circa 250 milioni di anni fa…
Gli avvistamenti si sono susseguiti con sempre minor frequenza, l’ultimo nel 2003, ma pare proprio che tutta la vicenda nasca da un giornaletto dell’epoca, che per primo riportò la notizia del mostro, il Corriere Comasco, foglio di cronaca locale che spesso pubblicava burle o notizie in grado di solleticare la fantasia dei lettori…

Smeraldo – Veneto – Homo Saurus
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 2”)
Il Veneto è ricco di miti e folclore radicati nel passato, ma per il racconto dedicato a questa regione ho deciso di rifarmi a un mito relativamente “moderno”, perché se è vero che molte leggende popolari hanno origine in un tempo remoto, è altrettanto vero che nuovi miti nascono, prendono forma e si diffondono ai giorni nostri. Di questa categoria fanno parte le leggende urbane; alcune muoiono nel giro di poche settimane, altre raggiungono un’eco che non accenna e diminuire col trascorrere del tempo, crescono e mutano come un virus, tanto che, possiamo ipotizzare, verranno ancora raccontate quando noi non ci saremo più...
1986, siamo in provincia di Rovigo, territorio attraversato da canali, molle d’acquitrini, paludi, canali d’irrigazione. Polesine. Nella zona cominciano a girare voci inquietanti, segnalazioni di privati cittadini che affermano di aver scorto nelle zone palustri in prossimità del delta del Po un essere bipede, non umano, di statura elevata, con pelle a squame, terrificanti occhi rossi e tratti rettiloidi. Nei mesi successivi vengono rinvenute grosse orme unghiute nella fanghiglia, e gli avvistamenti si moltiplicano, anche a distanza di parecchi chilometri. Un pescatore terrorizzato ha un incontro ravvicinato con la creatura; carcasse di pesci e animali spolpati vengono rinvenuti sulle rive dei fiumi; la psicosi cresce, tanto che sui luoghi degli avvistamenti cominciano ad arrivare giornalisti e ufologi, e la notizia di un uomo rettile che scorrazza in lungo e in largo per le zone palustri del Veneto raggiunge una certa risonanza, comparendo sulle pagine dei principale quotidiani.
Uno studioso del centro ufologico USAC (Centro Accademico di Studi Ufologici) Sebastiano Di Gennaro, giunge sul posto ipotizzando che la creatura altro non sia che una creatura proveniente da un altro pianeta, e conduce una minuziosa indagine che si protrarrà per oltre vent’anni. È lui a soprannominare la creatura Homo Saurus, l’uomo rettile del Delta del Po, che fino alla fine degli anni ‘90 continuerà a essere avvistato, inseguito e temuto.
Di tanto in tanto ancora oggi qualcuno afferma di aver avvistato la creatura aliena che per anni ha terrorizzato il Veneto. Burla o incredibile realtà? Suggestione o qualche bicchiere di troppo? Comunque stiano le cose, senza dubbio l’Homo Saurus ha tuttora una forte influenza sull’immaginario fantastico, tanto che alcuni anni fa è stato associato al padre della narrativa horror moderna, H. P. Lovecraft; una presunta (e probabilmente fasulla) lettera dello scrittore di Providence riguardante un suo misterioso viaggio in Polesine ha solleticato la curiosità di molti appassionati, tanto che alla questione è stato dedicato un bel documentario (H.P. Lovecraft - Ipotesi di un viaggio in Italia, di Federico Greco e Roberto Leggio) e un inquietante mockumentary (Il mistero di Lovecraft - Road to L., sempre degli stessi registi), in cui si ipotizza che per la creazione del suo mondo di anfibi mostruosi e deità dimenticate Lovecraft si sia ispirato proprio alla creatura cui ho deciso di dedicare il racconto veneto di Oscure Regioni.

Un selvaggio – Trentino – L’uomo selvatico
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 2”)
Altra figura, quello dell’Uomo Selvatico, che compare in numerose narrazioni e non solo in Italia; se ne trova traccia in affreschi e scritture sin dal Medioevo, ma le sue origini sono indubbiamente più antiche. Nel nostro Paese possiamo sentir narrare le sue gesta lungo tutto l’arco alpino e appenninico.
Sporco, muscoloso, fiuto straordinario, con barba e capelli lerci che gli arrivano sino alle ginocchia, l’Uomo Selvaggio è antropomorfo ma assume connotati animaleschi, bestiali, e vive isolato dalle comunità umane in zone montagnose e boschive (per scelta o perché cacciato dagli esseri umani).
Simbolo dell’anticonformismo, del rifiuto delle regole della società, l’Uomo Selvatico incarna la spietatezza e la forza incontrollabile della natura, ma è al contempo portatore di conoscenza: era credenza comune che insegnasse agli uomini l’arte di lavorare il ferro, cacciare, produrre il formaggio e numerosi stratagemmi per vivere in condizioni proibitive.
La sua figura può essere assimilata a quella di Pan, divinità mezzo uomo e mezzo caprone che incarna gli istinti basilari e primevi della natura umana. Il Selvatico rappresenta perciò anche il lato oscuro, la forza bruta, la sessualità.
Come per molti altri personaggi e miti del folclore, la Cristianità ne ha rielaborato le caratteristiche, concentrandosi sui suoi aspetti negativi più che sulle qualità di saggezza e positiva istintività originarie.
In un mondo dove la massificazione è sempre più diffusa la figura dell’Uomo Selvaggio è la perfetta rappresentazione dell’outsider, di un modo di vivere differente rispetto alle norme sociali comunemente accettate.

Nato con la camicia – Friuli – I Benandanti
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 2”)
I Benandanti, i “buoni camminatori”, una delle figure più interessanti del folclore friulano. E ancora una volta la realtà si confonde col mito, perché i benandanti erano effettivamente i componenti di un culto pagano contadino diffuso dal XVI al XVII secolo in Centro-Europa e che si estese fino in Italia
Santoni, guaritori, maghi, avevano un’accezione per lo più positiva: era opinione diffusa che i benandanti nascessero ancora avvolti nel sacco amniotico, e che una volta diventati adulti avessero la capacità di piombare in una sorta di trance e trasmigrare fuori dal corpo per combattere terrificanti battaglie contro le forze malvage che minacciavano la buona riuscita dei raccolti. Questi scontri si configuravano come vere e proprie guerre extradimensionali che vedevano contrapposte le schiere dei benandanti contro l’esercito di streghe e stregoni, i “cattivi camminatori”.
Portavano al collo un amuleto, un sacchettino dov’era conservato un pezzo del loro sacco amniotico. Erano in grado di scacciare il malocchio, governare gli elementi, preparare pozioni magiche e predire il futuro. Un altro potere dei benandanti era la capacità di vedere la processione dei morti (la “caccia selvaggia”), un corteo notturno delle anime dei defunti e di esseri sovrannaturali che è stato protagonista di moltissimi miti europei. I buoni camminatori potevano interrogare gli spiriti dei trapassati e avere indicazioni sul futuro.
Tra la metà e l’inizio del XVI secolo, quando le persecuzioni della Santa Inquisizione erano all’apice, anche i benandanti furono inclusi nei movimenti eretici e perseguitati, nonostante avessero sempre dichiarato che combattevano contro le forze del Male nel nome di Cristo. La Chiesa non poteva però accettare un movimento che si rifaceva palesemente a culti rurali e pagani, e con le persecuzioni religiose i gruppi dei benandanti sparirono poco a poco, rimanendo però ben radicati nell’immaginario popolare di alcune zone.

Crustumium, la Profondata – Emilia Romagna
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 1”)
Il mito della città sommersa, del continente o dell’isola inabissatosi nelle profondità marine in tempi antichissimi ha sempre esercitato un’influenza particolare sull’immaginario e la narrativa del fantastico. Senza il mito di Mu difficilmente avremmo la R’lyeh di lovecraftiana memoria, ed è giusto ricordare i numerosi riferimenti al continente sommerso di Lemuria negli scritti di Robert Erwin Howard e in particolare nel ciclo di Kull di Valusia, solo per citare gli esempi più famosi. L’idea di intere megalopoli sommerse e dimenticate, regni di splendori e meraviglie sepolti sotto gli oceani, tocca corde profonde della nostra immaginazione, risvegliando un senso quasi nostalgico nei confronti di civiltà e tecnologie irrimediabilmente perduti.
Pochi lo sanno, ma anche l’Italia ha la sua personale città sommersa, quella che viene ironicamente chiamata l’Atlantide Romagnola. Secondo alcuni scritti del XVII secolo redatti da Raffaele Adimari, ricercatore e storico dell’epoca, al largo delle coste di Cattolica vi sarebbe un’antica città sommersa, inabissatasi in tempi remoti a causa di un non meglio precisato cataclisma geologico. In documenti successivi viene chiamata Crustumium, città sorta nei pressi del fiume da cui prese il nome, oggi conosciuto come fiume Conca. Di Crustumium si ha già traccia in documenti del V secolo, e qui mito e realtà si fondono perché, se è vero che la zona è conosciuta come terra di insediamenti romani, è altrettanto vero che l’esistenza di questa ipotetica città nel corso dei secoli ha assunto i toni di una leggenda urbana o di una burla.
Pescatori del luogo giurano che nei giorni in cui il mare è particolarmente calmo e limpido sia possibile scorgere i resti di colossali bastioni e colonne, e qualcuno di loro sostiene di aver ripescato resti e suppellettili dell’antica città. Alcuni anni fa un gruppo di sommozzatori sostenne di essersi imbattuta in palazzi, statue, torri e mura nascosti da una fitta cortina di alghe. Ci sono state anche delle ricerche ma, sebbene da antichi documenti sembri che la città sia effettivamente esistita, nulla è mai stato portato in superficie o perlomeno mostrato a organi ufficiali.
E forse, se pensiamo alla divinità tentacolata che dorme e sogna nel ventre della città-cadavere di R’lyeh, è decisamente meglio così...

Vagiti – Toscana – La Marroca
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 2”)
Tra tutte le creature della nostra mitologia popolare in cui mi sono imbattuto e documentato per Oscure Regioni, la Marroca è senza dubbio la più ripugnante. Anche qui i nostri avi si sono ingegnati nel delineare un efficace spauracchio per tenere i bambini lontani dai fossati, dai pozzi e dai tombini d’accesso alle fognature: la Marroca è uno sbavante lumacone di grandi dimensioni, il dorso ricoperto di peli duri, la bocca come una ventosa che produce un pauroso verso gorgogliante, e predilige i luoghi fetidi e bui, come i fossati, gli scarichi e le fogne. Il suo corpo flessuoso le consente di infilarsi ovunque, e ovviamente è ghiotta della tenera carne dei più piccoli.
È facile sentire storie su questo essere nelle campagne toscane, in particolare in provincia di Siena e Arezzo, ma esistono curiose varianti in Umbria e Lazio, dove la Marroca è una vecchia megera simile alle masche piemontesi, oppure una sorta di piovra che striscia sul fondo dei canali d’irrigazione ed è capace di trascinare con sé addirittura piccoli capi di bestiame.
Per scrivere Vagiti mi sono preso la libertà di applicare una variazione a questa leggenda, partendo da una semplice domanda, per conferire un ulteriore tocco macabro a un mito popolare già spaventoso di per sé: e se la Marroca fosse sì ghiotta dei bambini disubbidienti, ma ancor più ghiotta dei bambini che devono ancora nascere?

Intersezioni – Umbria – Gli gnefri
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 2”)
Ogni regione ha i suoi folletti. Ogni regione ha più tipi di folletti.
Munacielli in Campania, Sarvanot in Piemonte, Scazzamurrieddhru in Puglia, Mazapegul in Romagna, tanto per citarne alcuni.
Nonostante le piccole dimensioni è una delle figure più potenti del subconscio e dell’immaginario umano: non esiste cultura che non abbia il suo Piccolo Popolo, il suo regno di gnomi curiosi e dispettosi. Leprechaun, goblin, puck, brownie e via dicendo infestano da secoli i boschi e le grotte, i sogni e le case degli uomini. Pare che la figura del folletto altro non sia che una trasformazione della figura dei Lari, gli spiriti protettori della casa della mitologia romana.
Sono creature solitamente bonarie, che si limitano a piccoli dispetti o a spaventare il bestiame, riservando anche un trattamento di favore agli esseri umani di buon cuore; ma in alcuni contesti e tradizioni possono assumere caratteristiche davvero inquietanti, pensiamo alla credenza del changeling, secondo la quale un bambino in culla poteva venire rapito nottetempo dal Piccolo Popolo e sostituito con uno gnomo brutto e deforme (credenza con cui si cercavano di spiegare anche alcuni fenomeni o patologie, come handicap psichici o l’autismo).
Arthur Machen, uno dei più grandi autori di narrativa fantastica di tutti i tempi, gallese, dedicò studi e racconti all’argomento, ipotizzando che l’esistenza di gnomi e folletti non fosse del tutto immaginaria, forse una popolazione discendente da una stirpe preistorica mongolica che aveva abitato l’Europa prima dell’avvento dei Celti.
In questo vastissimo apparato di folclore ho deciso di soffermarmi sui folletti della tradizione umbra, gli gnefri, il cui favoloso regno si estenderebbe ai piedi della cascata delle Marmore. Nel racconto Intersezioni ho immaginato che la terra degli gnefri fosse lo spicchio di un’altra dimensione piantato nel nostro modo, cui è possibile dare una sbirciatina trovandosi in una zona di confine tra la vita e la morte…

Sibillini occhi d’avorio – Marche – La Sibilla appenninica
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 1”)
I monti Sibillini, massiccio montuoso dell’Appennino umbro-marchigiano, nascondono uno dei segreti più antichi e affascinanti della nostra penisola, quello della Sibilla appenninica; già dal primo secolo dopo Cristo si trovano accenni a un antico culto pagano su quelle alture. Nei pressi della sommità del monte Sibilla vi è l’accesso a una grotta, che in tempi antichi si credeva fosse la soglia per un mondo meraviglioso abitato da un oracolo. Un romanzo cavalleresco del XV secolo, Il Guerrin Meschino di Andrea Barberino, diede celebrità europea alla leggenda, tanto che furono innumerevoli le spedizioni di storici, avventurieri ed esploratori di tutta Europa alla ricerca del favoloso palazzo sotterraneo della maga. Molti non fecero più ritorno, alimentando il mito.
Esistono numerosi resoconti sospesi tra una forma di giornalismo ante litteram e la fiaba che narrano di presunti contatti con la maga dell’Appennino.
Ne Il Guerrin Meschino la Sibilla assume connotati demoniaci, diventando una divinità malevola che cerca di indurre il protagonista del romanzo al peccato.
Secondo la tradizione folcloristica locale, d’altro canto, la Sibilla è una fata buona, una veggente circondata da fanciulle dai piedi caprini di incommensurabile bellezza.
L’ingresso alla grotta sul monte Sibilla è crollato in seguito a eventi tellurici passati, e i numerosi tentavi di forzare l’apertura utilizzando degli esplosivi nel corso del XX secolo non ha fatto che peggiorare le cose. Il mito e il fascino della fata appenninica e della sua compagine di ancelle tuttavia persiste tutt’oggi: molti abitanti del luogo giurano che nelle notti di plenilunio è possibile scorgere le fate che danzano sulle creste del monte, o udire il canto della maga che riecheggia tra le gole dell’Appennino…

Febbre – Lazio – La Pantasema
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 2”)
I miti legati al ciclo delle stagioni, alla terra e alla fertilità in odor di Paganesimo hanno sempre rivestito un ruolo molto importante nella narrativa e nel cinema del fantastico, che hanno attinto a piene mani da questo retaggio, consegnandoci veri e propri capolavori del folk-horror. Pensiamo a The Wicker Man, pellicola del 1973 con uno straordinario Cristopher Lee nei panni di Lord Summerisle a capo di una comunità su una strana isola inglese dove si praticano primordiali riti a base di sesso e mascheroni per propiziarsi antiche divinità; oppure al romanzo La festa del raccolto di Thomas Tryon, in cui una famiglia appena trasferitasi in una comunità rurale capirà a sue spese che alcuni cerimoniali folcloristici non sono così innocui; e se vogliamo spostarci verso lidi più recenti impossibile non citare il racconto I figli del grano di Stephen King o lo stupendo thriller lisergico (con derive folk) Kill List, di Ben Wheatley.
L’idea della comunità che ha mantenuto antiche usanze, e la possibilità che queste siano in netto contrasto con la società moderna o coinvolgano addirittura sacrifici umani e spargimenti di sangue, stimola la nostra immaginazione morbosa e tocca corde profonde.
C’è una figura diffusa in tutto il centro Italia e in particolar modo in Lazio e Abruzzo che pare uscita direttamente da una vecchia pellicola folk horror inglese. Si tratta della Pantasema, antichissima divinità femminile legata ai riti agricoli e al ciclo delle stagioni.
A Veroli, in provincia di Frosinone, la domenica prima dell’inizio delle scuole un gigantesco fantoccio di fattezze femminili costruito con paglia e cartapesta viene fatto sfilare per le vie del paese, seguito da un’orda di ragazzi festanti; raggiunta la piazza centrale il simulacro viene dato alle fiamme, tra canti e balli che si protraggono sino al mattino. La Pantasema, in questo piccolo paese laziale, rappresenta l’estate che finisce, e la festa a lei dedicata è un modo per salutarla e darle appuntamento all’anno successivo.

Il piccolo Re – Abruzzo – Lu Regulu
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 1”)
Il piccolo Re. Lu Regulu, U Regulu, U Regu, il serpente mostruoso di abnormi dimensioni che infesta le campagne abruzzesi (ma versioni altrettanto spaventose di questa creatura si possono ritrovare in Toscana, Umbria, Marche, Molise). Vive nei canali, striscia nei campi, e si dice che il malcapitato viandante che lo incontri o lo ferisca (volutamente o meno), debba ben guardarsi dal pronunciare il suo nome ad alta voce, altrimenti la bestia lo perseguiterà sino a condurlo alla follia.
Le ipotesi sulla sua origine sono le più disparate: alcune leggende sostengono che il piccolo Re nasca da un uovo covato da un rospo, altre che sia una vipera che abbia superato i cent’anni di età. Parecchi studiosi di folclore affermano sia nient’altro che la versione mediterranea del famigerato Basilisco, il re dei serpenti già descritto nei bestiari medievali e da Plinio il Vecchio nel Naturalis Historia, capace di pietrificare i nemici soltanto con lo sguardo.
È chiaro che possiamo assimilarlo al Nemico per eccellenza, il Drago, la Bestia, Satana.
Nei culti precristiani simbolo del Male e della Morte, con l’avvento della Cristianità il basilisco si trasforma nell’incarnazione dell’Avversario Supremo, come tutte le bestie rettiloidi e striscianti.
Quando c’era la mietitura, genitori e nonni, per tenere buoni i bambini, raccontavano di un “mostro” dai sibili acutissimi, il regolo, capace di attirare i serpenti della zona e d’inghiottire tutti quelli che si avvicinavano, soprattutto i bambini capricciosi.

Il carnevale dell’Uomo Cervo – Molise – Gl’Cierv
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 2” e nell'antologia Il Carnevale dell'Uomo Cervo e altri racconti dal Trofeo RiLL e dintorni)
C’è un paesino in Molise, Castelnuovo al Volturno (in provincia di Isernia), dove ogni anno viene festeggiato un singolarissimo carnevale che ha per protagonista una spaventosa entità metà uomo e metà cervo, Gl’Cierv (che nel dialetto locale significa “il cervo”).
La manifestazione si ripete da tempo immemorabile, coinvolgendo tutti gli abitanti del paese subito dopo il tramonto.
Le prime a fare la comparsa sulla piazza di Castelnuovo sono le janare, le streghe, terribili a vedersi e sporche di fuliggine, presagio delle oscure apparizioni che andranno mostrandosi nel corso della serata. Danzano invasate, aprendo la strada agli zampognari che riempiono l’aria col suono lugubre dei loro strumenti, suono che potrebbe ricordare uno spaventoso bramito.
E infine è la volta di Gl’Cierv, l’uomo cervo. Palchi di corna possenti, una pelliccia scura avvolta intorno al corpo e pesanti campanacci legati intorno alla vita, scorrazza per il paese gridando la sua furia e distruggendo tutto ciò che incontra, inseguendo i bambini e la folla, accompagnato dalla sua dama cornuta, la cerva, non meno infida e dispettosa.
Diversi personaggi in maschera cercano di porre fine alla follia dell’uomo cervo: Martino, figura dal cappello a cono vestito di bianco, una sorta di folletto benevolo e forzuto, che però viene ben presto sconfitto, e il cacciatore, che dopo mille peripezie riesce infine ad abbattere il temibile Gl’Cierv e la sua compagna.
Ma il mito non può morire. Gl’Cierv rappresenta la forza dirompente della natura, il ciclico spegnersi e rinascere delle stagioni con tutto ciò che di negativo e di positivo ne consegue. È l’incarnazione della bestialità della terra, di un territorio aspro che l’uomo cerca di domare da sempre.
Il cacciatore si avvicina alle sue spoglie e gli soffia nell’orecchio la vita. Gl’Cierv rinasce, la sua ira pare essersi chetata, e mentre lascia il paese in compagnia della cerva allontanandosi nei boschi il paese comincia a festeggiare intorno a giganteschi falò, e allo scoccare del nuovo anno tutto si ripeterà, in un ciclo senza fine...
(per maggiori informazioni sul carnevale dell'Uomo Cervo rimandiamo anche al sito dell'Associazione Il Cervo, che ne cura ogni edizione)

’O Mammone - Campania – il Gatto Mammone
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 1” e nell'antologia “Riflessi di Mondi Incantati”)
Diffusa da nord a sud e in diverse nazioni europee, la figura del gatto mammone pare anche essere una delle creature più antiche del folclore; secondo alcuni studiosi le sue radici affonderebbero addirittura al tempo degli Egizi, dove il gatto era considerato simbolo di fertilità e del divino.
Il termine Mammona, nel Medioevo, era un nome come tanti altri per indicare una delle molteplici incarnazioni del demonio. Con l’avvento del Cristianesimo, la figura sarebbe stata demonizzata e sbeffeggiata, ridotta a un mascherone carnevalesco che oggi ritroviamo in diverse parate (in provincia di Nuoro, in Sardegna, in Puglia).
Il suo aspetto è quello di un gatto terrificante, di dimensioni gigantesche, che si divertirebbe a spaventare le mandrie e i viandanti. In alcune narrazioni assume invece un aspetto benevolo e piacione, da spirito protettivo.
Dino Buzzati, autore che di fantastico e folclore se ne intendeva, tira in ballo il mostruoso felino ne La famosa invasione degli orsi in Sicilia, e dedicò una delle sue splendide tavole a un presunto avvistamento del Mammone in provincia di Belluno, riportato addirittura dai giornali di cronaca locale.
Nel mazzo di carte napoletane la misteriosa figura che campeggia sul tre di bastoni viene chiamata dai campani “O gatto mammone”, da qui l’idea di associare un mazzo di carte maledetto al mostruoso felino.

Nanni Orcu – Puglia
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 1”)
Nanni Orcu è una figura tipica del folclore pugliese e in particolare salentino. Se per alcuni versi la sua figura può essere associata alle dozzine di spauracchi infantili regionali come Sa Reina e la Marrabecca, con la funzione di allontanare i bambini dai luoghi pericolosi (Nanni Orcu abiterebbe nelle grotte, altro invito non troppo celato ai fanciulli dal tenersi lontani dalle cavità sotterranee), d’altro canto il terribile Nanni Orcu è assimilabile a un semplice Babau del Meridione, un vero e proprio Uomo Nero tirato in ballo ogni volta che un bambino fa i capricci o non vuole dormire. Ed è una figura particolarmente inquietante, alta come due uomini, puzzolente, la pelle come corteccia, mossa da un solo istinto: fame di carne umana, e in particolar modo quella dei bambini, più tenera e gustosa. Può infilarsi in casa nottetempo, o lo si può incontrare nelle campagne alla ricerca di cibo.
Nel mio racconto Nanni Orcu (letteralmente: Nonno Orco) diventa il simbolo di un passato traumatico che ritorna, per divorare il presunto equilibrio raggiunto con l’età adulta.

A caccia – Basilicata – il Dupi Minaro
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 2”)
Insieme al vampiro, alla mummia e al mostro di Frankenstein, una delle figure classiche della narrativa e del cinema fantastici è il licantropo, l’essere umano che si trasforma in lupo nelle notti di luna piena. Ma prima di spopolare nel libri e nei cinema il lupo mannaro ha scorrazzato in lungo e in largo nei racconti del folclore e nella fantasia popolare.
Il mito dell’uomo lupo è antichissimo, e alcuni studiosi sostengono si possa far risalire all’età del bronzo, quando le fasi lunari rivestivano un’importanza fondamentale nelle comunità umane.
Il lupo è un animale che è stato tradito dall’essere umano: invocato come spirito guida dai nostri antenati per le battute di caccia, in seguito addomesticato e infine trasformato in una bestia da sterminare, un animale malvagio contro cui si sono scatenate vere e proprie battaglie.
Il dupi minaro è una delle tante versioni italiche del licantropo: siamo in Basilicata, dove si narrava che chi nasceva la notte di Natale sarebbe stato condannato a diventare un lupo mannaro…

Cani d’acqua – Calabria – Scilla
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 1”)
Per il racconto calabrese di Oscure Regioni mi sono permesso di scomodare una creatura della mitologia greca, affascinato dal modo in cui anche nell’antichità molte leggende classiche non erano altro che un modo per circondare di arcano o dare una spiegazione a pericoli reali, in questo caso le terribili correnti che squassano lo Stretto di Messina, rendendo pericolosa la navigazione.
Scilla era una ninfa che fuggì terrorizzata a nascondersi in una grotta alla vista di Glauco (dio figlio di Poseidone) che emergeva dalle onde. Glauco s’innamorò della ninfa e, non corrisposto, chiese a Circe un filtro d’amore. La maga, innamorata a sua volta del dio, preparò una pozione malefica che versò nel tratto di mare dove la ninfa andava a fare il bagno. Quando Scilla s’immerse, entrando in contatto col siero si trasformò in un orribile mostro marino, una creatura colossale con sei teste di cane e tentacoli che erano serpenti. Sconvolta dall’orrore, la povera ninfa si rintanò in una grotta, da cui emergeva di tanto in tanto per sconvolgere con violenti marosi il tratto di mare dello Stretto e attaccare le navi, insieme a un’altra creatura della mitologia classica, il famoso mostro-maelstrom Cariddi.

La Signora delle Cisterne – Sicilia – Marrabbecca
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 1”)
Molte leggende del folclore, molte creature mostruose della storia popolare, nascono come spauracchi per bambini. Ma alcune sono così spaventose da infestare anche i sogni degli adulti.
Uno degli esempi più disturbanti è senza dubbio La Marrabbecca, la Signora de li Tanchi, tremenda vecchia senza volto che abita le cisterne per la raccolta delle acque piovane diffuse in tutta la Sicilia.
È facile immaginare come questi enormi contenitori si possano trasformare in trappole mortali per i bimbi curiosi. Basta un gioco azzardato, una sfida di coraggio, e finire a mollo nei colossali vasconi senza più riuscire a uscirne è questioni di attimi. E qui entra in gioco l’ingegnosità delle madri siciliane, che con ogni probabilità hanno dato vita a questa leggenda urbana per tenere i figli lontani dalle cisterne.
“Se ti avvicini alla cisterna arriva la Marrabecca e ti tira sott’acqua!”
È curioso constatare come le descrizioni di questa figura (vestita di bianco, diafana, i lunghi capelli intrisi d’acqua penzolanti davanti al viso) richiamino i demoni e i fantasmi di alcuni film giapponesi di successo, come The Ring o Dark Waters, film in cui l’elemento acquatico è molto presente (i pozzi, le cisterne). Nella tradizione nipponica abbiamo infatti i Kappa, mostruose creature delle acque stagnanti che affogano i malcapitati viaggiatori, e figure analoghe le ritroviamo in Scozia (il kelpie) e in Scandinavia (il nakki).
Questi parallelismi ci fanno capire come alcune figure del nostro immaginario siano diffuse ovunque, spettro di paure archetipiche che ci portiamo dentro dai tempi in cui eravamo poco più che primati. In casi come questo la paura e la leggenda sono straordinari e originali strumenti di difesa contro le insidie e i pericoli del mondo materiale.

Sa Reina – Sardegna
(racconto pubblicato in “Oscure Regioni - volume 1”)
La Sardegna è una delle regioni italiane più ricca di leggende, folklore e miti dimenticati, che in molto casi assumono sfumature degne dei migliori film horror. L’asprezza del territorio, l’isolamento dal “Continente”, una ruralità e un affetto per il passato ancora radicati nei suoi abitanti costituiscono l’ambiente ideale per la proliferazione e la conservazione di un affascinante apparato di miti popolari.
Si va da incubi e demoni che aggrediscono i dormienti provocando sensazioni di angoscia e soffocamento (gli ammuttadori), passando per terrificanti carri trainati da buoi inferociti o cavalli senza testa che sfrecciano nei paesi con clangore di catene per annunciare la morte imminente di qualcuno (Su Carru e’ sa Motti), sino ad arrivare a figure più benevoli ma egualmente strabilianti, come i giganti con un occhio solo (i gentiles) che popolano orridi e grotte e che in età remote hanno preparato la Terra e i pascoli per l’uomo ed eretto le strutture megalitiche dell’isola.
La creatura protagonista del mio racconto Sa Reina è la controparte sarda della Marrabecca, creatura-strega che, anziché abitare le cisterne, vive nei pozzi e nelle cavità sotterranee che tarlano la Sardegna. A seconda della provincia d’appartenenza è conosciuta con diversi nomi: Maria Farranka, Maria Abbranca, Mama e su Putzu, Maria Pettenedda. Come la Marrabecca trascina nelle acque i bambini incauti, spesso utilizzando un uncino o le sue braccia lunghe e scheletriche.

Bibliografia minima
Bosca Donato, Masca ghigna fàussa, Priuli e Verlucca, 2005
Corbella Roberto, Creature del mistero, Macchione, 2004
Di Nola Alfonso, Il diavolo. Le manifestazioni del demoniaco nella storia fino ai nostri giorni, Scipioni Editori, 1980
Di Nola Alfonso, Lo specchio e l’olio. Le superstizioni degli italiani, Editori Laterza, 2000
Filagrossi Christian, Il libro delle creature fantastiche, Armenia, 2002
Gatto Trocchi Cecilia, Le più belle leggende popolari italiane, Newton Compton, 2007.

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