Il senso della Luna

La missione Apollo 11, cinquant'anni dopo lo sbarco sulla Luna
di Massimiliano Malerba
[pubblicato su RiLL.it nel luglio 2019]

Abbiamo chiesto a Massimiliano Malerba, pluri-premiato autore del Trofeo RiLL (ai suoi racconti abbiamo dedicato l'antologia "L'ostinato silenzio delle stelle"), di scrivere un articolo per il cinquantennale dello sbarco sulla Luna, vista la sua grande passione per l'astronautica e le missioni nello spazio.
Con l'occasione, rendiamo disponibile per il download anche il suo racconto "L'uomo lunare", affettuoso omaggio in chiave romana all'equipaggio della missione Apollo 11 (Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins). Buona (doppia) lettura!


Lo disse Clarke. Uno dei grandi protagonisti della fantascienza, nonchè immenso sognatore del ventesimo secolo. Uno che sognò le grandi stazioni orbitanti ancor prima che lo facesse Von Braun; che sognò navi orbitanti, città immerse tra le sabbie dei mari lunari e viaggi interstellari.
Lo disse: la cosa più incredibile che si potesse immaginare, nel XX secolo, non è che l’uomo andasse sulla Luna. La cosa più incredibile è che ci andasse e poi si fermasse. Che non ci tornasse più.

Quarantasette anni di silenzio sono calati come pietre sulle tracce dell’ultimo uomo che ha camminato sulla Luna. Gene Cernan, “Geno”. Un soprannome che a noi italiani fa sorridere un po’, perchè a pronunciarlo sembra il diminutivo di Luigi. Morto recentemente, Geno ha lasciato a tutti una pesante eredità.
Prima di salire sul modulo lunare e abbandonare la superficie, Cernan guardò la Terra e immaginò chi gli sarebbe potuto succedere. Non solo succedere a lui, ma a tutti gli straordinari uomini che fecero l’impresa. E Geno, che in fondo era un sentimentale sotto la scorza di un bovaro, impresse col dito le iniziali di sua figlia nell’arida e scura polvere della Luna.
“La fine dell’inizio” fu definita l’ultima missione Apollo, la 17. Un inizio che dura ormai da troppo tempo.

Dobbiamo ora tornare indietro e fare una moviola al revés fino agli anni audaci e fiammabondi dei primi Sessanta. Noi italiani, soprattutto quelli nati dopo le imprese lunari, non possiamo immaginarli neppure.
Fu Kennedy in quegli anni a volere la Luna. Disse: dobbiamo andarci.
Perchè dobbiamo andarci?
“Perchè è là.”
Kennedy fu ispirato dal grande Mallory, l’uomo che aveva sfidato l’Everest e ne era stato battuto, morendovi sopra. Così Mallory aveva giustificato un’impresa che a molti doveva apparire folle, a moltissimi semplicemente inutile. A cosa serve andare su una montagna dove l’aria non esiste quasi più, alla cui quota volano i 747?
La risposta tecnica è “a nulla”. Ma c’è una risposta non tecnica, e fu quella che Mallory diede: “Perché quella montagna esiste.”
Così la Luna. Esiste. Ci chiama.
Uno sferoide roccioso nato chissà come dall’incontro e dal titanico scontro di un pianetino con la Terra. Forse. Accudito e forgiato dalle coatte azioni delle forze di attrazione gravitazionale, dalle poderose mani delle spinte mareali. Allontanato dalla Terra a tal punto da risultare apparentemente irraggiungibile, etereo, appeso a inumane distanze.
Eppure, nel 1930, era nato in una cittadina dell’Ohio un ragazzo che era destinato a cambiare la storia. Noi lo chiameremmo Nello Fortebraccio (devo ammettere che questa italianizzazione del nome la inventò la Fallaci), ma lui si chiamava Neil Armstrong.
Un tipo introverso, da molti non amato, tanto timido e chiuso da sembrare un complessato.
L’uomo che per primo camminò sulla Luna iniziò a pilotare aerei per la NASA presto, già prima che finissero gli anni ’50. Era un pilota collaudatore, uno di quelli che vengono meravigliosamente dipinti da Tom Wolfe nel suo iperclassico “The right stuff” (in italiano: “La stoffa giusta”, NdR). Un libro che ha ispirato il film cult “Uomini veri” di Philip Kaufman e che ha costituito per molti adolescenti la porta di ingresso ai sogni dello spazio. Tra quei ragazzi c’è anche l’astronauta Luca Parmitano.
Ma torniamo a Neil.



Neil era astronauta prima di diventare astronauta: quelli che volavano sui jet di punta della NASA andavano in alto. Erano i tempi dell’X-15, una macchina impressionante e feroce, capace di scalare l’atmosfera spinta da motori a razzo e spingersi oltre il limite dello spazio, dove non c’è più aria: partiva agganciato all’ala di un bombardiere B52, arrivava nello spazio dove manovrava usando micro-razzi e poi atterrava in un deserto polveroso come un aereo. Uno dei suoi piloti era Neil.
Neil fece molti voli a inizio degli anni ’60, quando la Luna era ancora distante e la famosa sfida di Kennedy non era di fatto stata lanciata. Quando in seguito egli si arruolò tra le file degli astronauti della NASA, molti dei suoi compagni restarono. Continuarono a spingere in alto i loro aerei-razzo mentre alcuni – pochissimi – venivano compressi dentro capsule spaziali e lanciati in orbita come sardine in una lattina. Almeno, questo era il modo denigratorio in cui alcuni collaudatori amavano descrivere i novelli astronauti.
Neil fece un volo su Gemini 8 e Gemini 11, due capsule propedeutiche alle missioni Apollo verso la Luna. Erano capsule da due uomini di equipaggio.
Durante la missione Gemini 8, volo eseguito insieme a Dave Scott (che poi sarebbe diventato il comandante della superba missione Apollo 15), qualcosa andò storto. Succede sempre in ogni impresa statunitense, d’altra parte. La capsula attraccata al razzo Agena iniziò a ruotare vorticosamente, fuori controllo. Neil comandò lo sgancio, ma la navicella accelerò la rotazione: ai limiti fisici della perdita di conoscenza (che avrebbe voluto dire morte), il ragazzo dell’Ohio riuscì a stabilizzare la nave.
Si dice ufficiosamente che questo sangue freddo gli assicurò un posto verso la Luna.
La calma, la apparentemente rilassata compostezza di Neil Armstrong gli valse il comando dell’Apollo 11. È vero questo? Forse sì. Le turnazioni venivano decise dal padre-padrone degli equipaggi lunari, Deke Slayton. Nessuno vi dirà ufficialmente che Neil era stato scelto per fare il primo tentativo di atterraggio sulla Luna. Ma nella pratica delle cose è così che è andata. Chris Kraft, direttore del programma voli, gli disse: “Neil, sappi che se fallisci io ti rimetto su un razzo e ci riprovi. Voglio che tu atterri.”
Neil era uno che mostrava al mondo una maschera: un mezzo sorriso, una bocca sproporzionata che si si allargava in un ghigno bonario, occhi lucidi e bovini, ciuffo spiaccicato sulla fronte, riga dei capelli in perfetto ordine. Sembrava uscito da una pubblicità di corn flakes.
Non piaceva a Oriana Fallaci, una che tra gli astronauti Apollo aveva passato anni di lavoro da corrispondente e che li conosceva molto bene.
Lei lo chiamava Fortebraccio il robot. Perchè non tradiva emozione alcuna.
Famoso l’episodio di Armstrong che stava analizzando alcuni diagrammi tecnici. Un uccellino gli si posò sul piede. Lui senza battere ciglio lo scagliò via e continuò a lavorare.
Alla NASA servivano questi uomini per pilotare le potenti macchine Apollo: meraviglie di ingegneria che potevano all’occorrenza ritorcersi contro gli esseri umani come puledri impazziti. Tutto poteva andare male in una missione verso la Luna. E infatti ci andò. Ma non per Neil.
Quando si allenava per atterrare sulla Luna, Neil usava una macchina chiamata Lunar Landing Training Vehicle. Era un ragno fatto di tralicci di metallo e costruito intorno a un motore jet di derivazione aeronautica messo in verticale, che annullava i 5/6 dell’attrazione gravitazionale terrestre, così da simulare la discesa sulla Luna. Un aggeggio infernale sul quale i piloti rischiavano la vita con audacia.
Armstrong ebbe un incidente: perse il controllo del mezzo. Lui amava usare quel veicolo perchè era l’unico, diceva, che poteva ricreare davvero le condizioni di atterraggio lunare.
Neil si catapultò fuori pochi istanti prima che il trabiccolo si schiantasse in una fiammata di carburante esploso, atterrando col paracadute a pochi passi di distanza. Poi rientrò come se nulla fosse alla base e andò negli spogliatoi. Un collega che non sapeva che fosse capitato a lui corse a informarlo dicendo che c’era stato un incidente; chiese poi ad Armstrong se fosse lui quel pilota che si era quasi ucciso. Lui spogliandosi rispose, sorridendo: “Yeah”.
Questo era l’uomo e per questo la NASA lo avrebbe scelto per comandare la missione più folle che un uomo potesse immaginare, incluso Clarke: atterrare sulla Luna, guidati dall’AGC (Apollo Guidance Computer), un calcolatore con 2MHz di velocità e 2000 parole di memoria, immensamente meno potente di quello che qualsiasi ragazzino oggi usa quando gioca ad Angry Birds.

Armstrong era anche modesto, però, cosa rara per un pilota collaudatore. Riconobbe la collaborazione fondamentale con Aldrin: quando la gente insisteva a chiamarlo il “primo uomo a toccare la superficie della Luna” lui rispondeva di essere un pilota. I piloti atterrano, non scendono dalle scalette.
Armstrong e Aldrin avevano dunque toccato la superficie allo stesso momento.
Buzz Aldrin. Un uomo discusso. Esperto di rendez-vous, ovvero l’incontro di due navicelle nello spazio (che prevede complicatissimi calcoli e traiettorie controintuitive), veniva appunto chiamato dai colleghi “il Dottor Rendez-vous”, definizione forse non del tutto scevra da un tono canzonatorio, visto che ne parlava anche a colazione. Notissima la sua avversione all’essere il “secondo” di Neil. Cercò di convincere la NASA (senza successo) a dargli la precedenza nella discesa dal modulo lunare, adducendo a suffragio scuse a volte puerili, che andavano dalla direzione di apertura del portello fino a giustificazioni teologiche (è un fervente religioso). Di fatto un uomo scialbo per la nostra Oriana, che rifiutò le sue avances giudicandolo noioso.
Cosa provassero quei due e se si odiassero davvero, come si dice, forse non lo sapremo mai: di certo la verità è più banale delle nostre selvagge e a volte iperboliche immaginazioni.

Difficile comunque ipotizzare cosa si provi a nascondere l’intera umanità dietro un pollice di gomma azzurra, o sapere che si è in orbita intorno alla Luna e l’intera specie Sapiens si trova dall’altra parte di un immenso muro di marmo grigio immerso nella notte. E questo porta a parlare del terzo membro dell’equipaggio dell’Apollo 11, Michael Collins.
Collins, nato a Roma perchè figlio di un militare diplomatico. Nel quartiere dove nacque, a via Tevere 16, c’è una targa che lo ricorda. È stato forse il più equilibrato dei tre, il giusto mezzo tra essere umano e gelida macchina da pilotaggio di astronavi. Estremamente competente, non se ne ebbe a essere lasciato in orbita lunare. Qualcuno disse abbandonato. Per lui restare al comando del Columbia era un onore.
Afferma nel suo libro (“Carrying the fire”, che vi consiglio di leggere) di essere entrato in una sorta di trance, un’estatica solitudine dentro il modulo di comando.

Chiunque orienti un telescopio verso la Luna potrà facilmente identificare la zona di atterraggio degli uomini di Apollo 11 sulla Luna. È nel mare della Tranquillità, che è la grossa macchia di lava basaltica ormai raffreddata e coperta di polvere che costituisce questo enorme bacino. È quello centrale dei grossi tre mari che caratterizzano la semifaccia lunare destra a noi visibile; il piccolo modulo di discesa Eagle lo attraverò tutto proveniendo da destra, dal bordo lunare, fino a toccare terra quasi all’estremità inferiore sinistra del mare, a nord del cratere Moltke e a est dei crateri Sabine e Ritter. Oggi tre piccoli crateri sono battezzati coi nomi degli astronauti, ma per vederli occorrono strumenti potenti.
Inutilmente Collins, rimasto in orbita nella sua beata solitudo, tentò di scorgere con le lenti del telescopio di bordo i compagni sotto di lui, dispersi in un oceano di crateri e asperità lunari. Collins definì prosaicamente la superficie della Luna, scorta dall’orbita, con il termine “plaster of paris”: gesso.

Atterrarono, quelle due creature bianche rinchiuse dentro una cabina telefonica con le zampe, al termine di una discesa mirabolante e sublime; e l’umanità non fu più la stessa.
Perché non siamo tornati più sulla Luna? Forse la Luna ci fa paura? Forse non siamo più in grado, o non vogliamo, sfidare nuovamente le onde di quell’acqua silenziosa dello spazio profondo e tornare a guardare, con gli occhi sbarrati sull’inusitato vuoto del cosmo, quello che siamo davvero?
La risposta a questa domanda giace nel fondo dell’umanità.
Forse davvero lo spazio ci fa paura. Paura di riconoscere il vuoto inconcepibile che c’è.

A metà strada tra la Luna e la Terra, al rientro, si lasciava fare al terzo astronauta che era rimasto in orbita (forse a mo’ di ricompensa) una attività extra-veicolare, fuori dalla capsula, per raccogliere alcuni campioni esposti al vuoto esterno. Fanno timore, viste oggi, le foto di quegli uomini appesi alla superficie esterna dello scafo, immersi nel nero seppia dello spazio cislunare, dove non c’è né giorno né notte, perchè il giorno e la notte sono fatti squisitamente locali, fatti della Terra e per la Terra che non esistono fuori dal nostro piccolo abitacolo planetario, al di là del quale siamo miseri e indifesi, fragili e forse inutili come parameci estratti da una pozza. C’è solo il nero. E il nero incute orrore.
La Luna se ne è andata e ci ha lasciato indietro perchè non ha pietà per coloro che abbandonano i propri sogni.

Quando alla NASA pianificarono le missioni, al controllo di volo decisero di non usare la parola “GO”, tradizionalmente utilizzata dai controllori di volo della missione per dare il via libera a qualsiasi decisione. Pensarono che, nella tensione dei controlli da fare una volta atterrati, gli astronauti potessero essere confusi dalla parola “GO” e decidere di ripartire per errore. Fu pertanto deciso di usare la parola “STAY”. “Restare”.
Meglio di andare. Restare.
Ecco: penso che questa sia, oggi, la più bella parola per descrivere l’impresa dell’uomo sulla Luna, per celebrare le immagini tinte di mito che galleggiano nitidissime nella nostra memoria.
L’idea che gli esseri umani volino verso il cosmo e poi vadano oltre. Oltre se stessi e oltre qualsiasi impulso che come un giogo di catene ci trattiene sulla superficie del mondo.
Restare sulla Luna, restare su Marte. Restare dentro un sogno e non abbandonarlo mai. Restare anche qui, dove viviamo adesso. Un po’ lanciarsi verso l’ignoto e un po’, anche, restare.
Spero davvero che le nostre vite ci regalino la possibilità di vedere uomini e donne camminare di nuovo sulla Luna.
Il fatto di non esserci tornati, come dice Clarke, è la più grande e inconcepibile delle previsioni che si potevano immaginare. Siamo fatti per andare e per restare.
Questo è il senso della Luna.



Bibliografia essenziale
Michael Collins, “Carrying the fire”
Gene Cernan, “The last man on the Moon”
Gene Krantz, “Failure is not an option”
Tom Wolfe, “The right stuff”
Walter Cunningham, “The All-American boys”
Oriana Fallaci, “Se il Sole muore”
Oriana Fallaci, “La Luna di Oriana”
Oriana Fallaci, “Quel giorno sulla Luna”
James Hansen, “First Man”
Andrew Chaikin, “A man on the Moon”
David Woods, “How Apollo flew to the Moon”
James Lovell, “Apollo 13”
Thomas J. Kelly, “Moon Lander”



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