Il Processo

di Alessandro Negrini
Vincitore del IV Trofeo RiLL
[racconto presente nell'antologia Ritorno a Mondi Incantati, Nexus Editrice, 2004]


Voi non potete arrogarvi il diritto di giudicarmi nel nome degli Dei, signori, poiché la vostra stessa pochezza ve lo impedisce.
Le imponenti toghe purpuree di cui vi siete ammantati, i vostri volti severi, come scolpiti nel granito, non m’intimoriscono, né mi inducono a credere che quanto verrà deciso fra le pareti di quest’aula avrà realmente qualcosa a che vedere con la Giustizia Celeste.
Non ho che da incrociare i vostri sguardi segnati dalla stanchezza e dalla paura per rendermi conto che, in attesa di leggere il verdetto, il solo timore che vi attanaglia l’animo è che io possa, anche solo per un istante, indurvi a comprendere la grandiosità di ciò che porto dentro, risvegliando in voi desideri che per una vita intera avete tenuto sopiti.
Eppure, se solamente uno fra voi arrivasse a comprendermi, signori, allora vedreste proprio quell’uno levarsi dai banchi di questo tribunale e gridare la mia innocenza al cospetto degli uomini e, quel che più conta, degli Dei tutti.
Per rispondere alla vostra domanda, io non rinnego nessuna delle azioni che mi hanno condotto qui, in ginocchio, al cospetto del Consiglio.
Semmai il vostro giudizio potesse interessarmi, bene, la mia unica preoccupazione sarebbe quella che voi possiate non riconoscere che io mi sia macchiato di ciò che ai vostri occhi rappresenta la negazione di quanto è giusto e sacro.
Sì, signori, ho praticato la necromanzia, l’ho praticata con passione, spinto da un segreto fuoco che eccita la ragione ed intorpidisce la coscienza al medesimo tempo, sino a lasciare solo il desiderio, insaziabile e dolcissimo, di scoprire ciò che ad altri è proibito. Pazzo, signori?
Oh no, sono lucido quanto voi, fors’anche più acuto nel ragionare e certo più cosciente della vera natura delle cose che mi circondano di quanto voi possiate mai arrivare ad essere.
Nessuno mi obbligò ad intraprendere lo studio delle discipline occulte: se volete, potete consentire col Venerabile Valden e dare la colpa alle mie insane inclinazioni. La mia famiglia, i cui componenti così prudentemente si sono rifiutati di presenziare a questo processo, vive a Borea da quattro generazioni e prospera grazie al commercio.
Durante gli anni della mia infanzia mio padre e le mie sorelle, sino al loro matrimonio, non mi fecero mancare alcunché: né affetto né sicurezza. Le mie amicizie vennero sempre selezionate con cura, così come gli istitutori ed i servitori. Conoscete un ambiente più sano in cui possa crescere un giovinetto?
Nondimeno, voi dovete temermi, signori, poiché io rappresento la prova che in ognuno cova quell’imprevedibile, maligno genio che da un giorno all’altro può spingerci oltre il confine che noi stessi abbiamo così rigidamente tracciato per tenere indietro le ombre.
Sì, io sono nato e cresciuto in una famiglia amorevolmente soffocante, rispettandone le amabili e sciocche convenzioni come solo un bambino può fare, arrivando ad assimilarle e ad apprezzarle.
Quand’ecco, all’improvviso, venni colto da un desiderio strano, un desiderio che voi giudichereste senza esitare come un’empia pulsione ma che io, con la semplicità di un fanciullo destinato a divenire un uomo onesto, pio e povero di spirito, non fui subito in grado di riconoscere e, quindi, di rifiutare con la debita energia.
Un capriccio? No, non lo giudicherei un capriccio, bensì un repentino mutamento di prospettive.
Rammento un pomeriggio d’estate, il cielo limpido, la luce abbacinante che cadeva su di me e l’aroma della frutta marcescente ai piedi del pesco oltre il muro. Fu in quell’esatto momento che mi resi conto che stavo morendo: ogni respiro, ogni gesto consumava un’impercettibile parte della mia fiamma vitale, spingendomi verso l’annientamento. Come sarebbe avvenuto? Quando?
No, quelli erano interrogativi insignificanti al confronto del crescente orrore derivante dalla certezza che, comunque, la tenebra mi avrebbe ghermito.
Anche le mie carni si sarebbero aperte, per riversare i propri succhi sulla terra, per divenire pasto dei vermi?
L’ansia mi aveva serrato la bocca dello stomaco, mentre l’aroma delle pesche mi nauseava, stordendomi.
E, poi, quella piccola, insidiosa idea si fece lentamente strada nella mia mente. Perché io debbo morire? O meglio, perché si deve morire?
Anche se conducessimo una vita particolarmente morigerata, come i saggi imperiali ci rammentano più e più volte nei loro polverosi testi di medicina, non avremmo la garanzia di un’esistenza eterna.
Comunque si agisca, per quanta cura si possa avere nell’accumulare un giorno dopo l’altro, viene sempre il momento in cui la vita termina.
Quand’è così, mi domandai, perché mi si obbliga a spendere la mia esistenza per apprendere la matematica e la musica, l’astronomia e la lingua classica, quando tutte queste conoscenze andranno in ogni caso perse ed i miei giorni saranno stati buttati al vento?
Perché non posso trascorrere il mio tempo a studiare soltanto ciò che veramente ha senso, cioè la vita stessa, e tentare di scrutare oltre i suoi confini per sondare gli abissi della sua negazione?
Non mi fissate a quel modo, signori, questi erano i pensieri innocenti di un ragazzo in un giorno d’estate, ignaro che le medesime idee che danzavano nella sua mente erano le stesse per cui tanti altri, prima di lui, erano stati affogati nei silenziosi specchi d’acqua fra le colline che circondano la ridente Borea.
Potevo forse immaginare che, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, le mie insolite, piacevoli fantasticherie sarebbero giunte a mutare l’intero mio carattere?
Ve l’ho detto, signori, la mia era una strana fame, la singolare fame di un ingegno giovane che ha trovato un nuovo corso lungo il quale liberarsi in una ridda di idee sfrenate. Una fame dilaniante, che m’impediva anche solo di prestare attenzione alle parole del mio istitutore, che non mi consentiva di dormire o di mangiare, spingendomi a trascorrere sempre più tempo nel cimitero dietro al Tempio Maggiore.
Per quante notti sono sgusciato fuori dalla mia stanza, col respiro trattenuto, nel terrore che la mia famiglia si svegliasse, per poi scavalcare la recinzione del Campo Santo sotto il sorriso gelido della luna, felice come se stessi andando ad un incontro galante? Non so, non avevo il tempo di contarle.
Fremente di piacere mi tuffavo nell’abbraccio protettivo delle tombe scavate di fresco, mi facevo cullare sin quasi all’alba dai sussurri leggeri provenienti dalle cripte, ai piedi dei cipressi.
Conoscete l’odore della terra umida, smossa da poco, quando ha appena piovuto?
Avete mai sentito il profumo del bosso e dei fiori recisi, mescolato a quello dell’incenso e della cera?
Forse in voi questa mia voluttà nel rievocare simili particolari potrà provocare disgusto, ma vi assicuro che si tratta di dolci ricordi per me, che iniziavo a scoprire i segreti della vita e della morte, imparando a discernere ciò che di vero avevo appreso dalla mera superstizione.
Alla luce di una tremolante lucerna, mi sono consumato la vista sulle pagine ingiallite dei manoscritti di Aakras di Thuria, sfogliando le pagine in carta di riso del Terzo Diario di Nema Zhul, guardando estasiato le illustrazioni della Natura Svelata di Nemea di Lecate.
Sapete quante innumerevoli sfumature si offrono invitanti a colui che fissa a lungo l’oscurità?
Vi è il nero denso e mielato del cielo illune oltre il profilo spezzato delle cappelle sul Sentiero dei Cavalieri, vi è il nero serico dei paramenti funebri lasciati ad impolverare, ed il nero umido che spira dai recessi più nascosti del suolo, portando con sé il suo miscuglio di aromi sconosciuti.
E vi sono i blu ed i grigi, e molti altri colori ancora che, insieme, si mescolano, si abbracciano per andare ad offrire ai propri beniamini un velo di indulgente protezione dagli sguardi impietosi di coloro che sono ciechi nell’animo.
Studiai nell’oscurità per poter dissipare le ombre dinnanzi ai miei occhi, per arrivare a capire; nelle fosse e nelle cappelle, fra le lapidi ed i cenotafi io inseguii la Morte come un’amante, per poter abbracciare la Vita.
Nella pomposa arringa dell’Inquisitore Valden sono stato dipinto come un degenerato dedito a morbose passioni: non posso che compiangere il suo spregio della verità. Non è forse vero, signori, che non uno fra voi aveva mai avuto a che dire sulla mia condotta sino al giorno del mio arresto?
Ogni mattina, nel rispetto della fede, mi recavo al tempio assieme alla mia famiglia e più d’una volta l’anziano Kubron, al termine della funzione, si complimentò con mio padre per il singolare trasporto con cui seguivo la preghiera.
Il suo giudizio sarebbe certo mutato sensibilmente, se si fosse reso conto che non erano le Lettere del Santo Dracmeo ad assorbire la mia attenzione, bensì i Versi Proibiti di Micone di Lubrea.
Allievo rispettoso, seguivo le lezioni del mio tutore con costanza, se non con interesse, arrivando a meritare le sue lodi per i miei sorprendenti progressi nello studio delle scienze matematiche.
Temo che anche il suo parere sia cambiato, oramai, da che ha scoperto che i miei risultati non erano frutto dei suoi sforzi bensì dei miei studi notturni, che comprendevano anche i frammenti scampati al rogo dei Formulari di Tranio d’Aparne.
In sintesi, pur sentendomi estraneo alla frenetica commedia a cui voi tutti partecipavate con fervore, nella speranza di tenere lontano il ricordo dell’oscurità, acconsentii mitemente ad indossare la maschera che tenevate in serbo per me. La mia delicatezza viene ora ripagata accusandomi di aver carpito la fiducia della comunità con la menzogna.
Ditemi, signori, ora che siamo lontani dalla folla, ora che potete permettervi il lusso del dubbio, se non della pietà, chi è, secondo voi, il responsabile della morte dello sfortunato Gaio, figlio di Lodovico?
Danzando ubriaco fra le colonne della Terrazza dei Fauni cadde sotto lo sguardo indulgente della luna, per andare a spruzzare di sangue le ginestre che crescono fra le rocce sottostanti. Sono colpevole per questo?
E, se i miei studi vi inorridivano tanto, perché non m’avete fermato non appena vi giunse notizia dei miei svaghi notturni, perché lasciarmi continuare lungo la mia strada, limitandovi a sussurrare a mezza voce pettegolezzi sul mio conto?
“Datemi retta, amici, il figlio del mercante di stoffe è un po’ tocco: lo si vede girare per il Campo Santo ad ore in cui la gente dabbene dorme o resta china sui libri contabili, ma non importa dopo tutto, perché il ragazzo è talmente educato, e la sua famiglia così per bene, che non è certo il caso di preoccuparsene.”
Se non fosse stato per quelle voci, nulla di quanto ora turba le vostre notti sarebbe accaduto e la dolce Cassandra sarebbe rimasta a piangere il suo amato. Forse si sarebbe consumata per il dolore o forse si sarebbe data pace di lì a poco, per poi sposarsi col rampollo d’una famiglia ancor più facoltosa della propria, ma certo non si sarebbe mai azzardata a cercarmi.
Invece, ci incontrammo all’ombra dei cipressi dietro al Tempio Maggiore, alla luce di un impietoso sole meridiano che rendeva cangiante il viola del suo abito di velluto e marcava i segni del dolore sul suo viso.
Vi giuro che tentai di impedirle di strapparmi la mia preziosa maschera dal volto: le dissi che stava sbagliando, che quanto le avevano raccontato sul mio conto era solo il frutto di uno scherzo crudele e che mai, in vita mia, mi ero dedicato ad attività men che lecite, ma lei insisteva, mi supplicava ed io mi facevo sempre meno sicuro ad ogni suo sguardo, ardente della cieca ed incrollabile fiducia che deriva dalla disperazione.
Infine, commisi l’errore di perdermi in quello sguardo e di domandarle “Perché?”
Perché avrei dovuto esaudire le sue preghiere? Perché non si rassegnava, come chiunque era destinato a fare, prima o poi?
Il suo innamorato non era forse un uomo come tanti altri?
Quali eccezionali qualità poteva vantare il giovane Gaio perché a nessuno fosse dato di sostituirlo nel suo cuore?
Perché restituirle il suo amato quando, fissando quel viso desiderabile reso pallido dalla pena, io stesso, pensavo, avrei potuto sostituirmi a lui, approfittando di un insperato dono della sorte?
In risposta, con l’ingenuo trasporto di una bambina, Cassandra prese ad enumerarmi quelli che, ai suoi occhi, erano i pregi del suo fidanzato.
“Perché è bello, col suo sorriso impertinente” mi diceva. “Perché nessuno è abile come lui nel domare un cavallo, perché i suoi capelli hanno il colore del miele e la sua voce è calda ed amabile.” Le sue parole, il suo entusiasmo ebbero il solo effetto di raggelarmi, di farmi avvertire la solitudine in quel modo amaro e definitivo che si prova quando ci si confronta col dolcissimo egoismo degli innamorati.
La descrizione della felicità che le avrei dovuto restituire, e di cui io non sarei mai divenuto parte, mi ferì al punto che mi girai a fissare la strada polverosa, per non dover più subire quel tormento.
Restammo a lungo in silenzio, seduti sul muricciolo all’ombra dei cipressi, immersi in una calma immobile, accompagnata dal suono delle cicale e dal sommesso singhiozzare della mia compagna.
Non so perché, ma accettai. Per cento motivi e per nessuno in particolare accettai di riportare alla vita il suo innamorato.
Devo dirvi della facilità con cui sottrassi il corpo di Gaio dalla cappella della Morte Regina? Devo raccontarvi di come, con una sensazione di esaltazione crescente, allestii rapidamente tutto il necessario per il lavoro che avrei svolto di lì a poco, approfittando della fortuita assenza di mio padre, lontano per certi suoi affari presso Nabron?
Congedai i servitori, dopo che ebbero provveduto a preparare la Camera Azzurra per Cassandra, a cui intimai di ritirarsi per la notte. Quindi... rimasi solo.
Disposi il corpo su d'uno dei tavoli di marmo delle cucine, dove provvidi ad accendere ogni focolare, ogni lume, ogni candela, così come viene indicato ne “L’Alba della Conoscenza”, al fine di riscaldare l’ambiente: poiché la vita è calore, come prova il fatto che il suo scemare viene accompagnato da un progressivo raffreddamento dei tessuti.
L’aria divenne rovente, tanto da costringermi a spogliarmi quasi del tutto per poter lavorare più agevolmente.
Immerso nella luce abbagliante delle fiamme ruggenti, denudai il cadavere e lo esaminai con attenzione, al fine di scoprire quali e di che entità fossero i danni riportati nella caduta: diverse fratture, alcune delle quali esposte, rovinavano l’armonia dello scheletro, ma il danno maggiore era quello riportato dal viso, che per primo aveva incontrato le rocce.
Con gesti lenti, passai a porre rimedio a quello scempio, ricomponendo le ossa, fasciando gli arti slogati, suturando le ferite e, benché il corpo fosse ormai irrigidito, mi venne in soccorso la pratica fatta con i molti campioni che la repressione della Rivolta del Grano, da voi ordinata, aveva messo a mia disposizione l’anno precedente.
Tracciate le sette Ruote di Hathog sul pavimento della cucina, presi infine un rasoio ed un catino, pronto ad ultimare la mia opera.
Consentitemi di sorridere dinnanzi alle vostre accuse di commercio coi demoni, giacché la necromanzia ha ben poco a che vedere con l’evocazione delle entità infernali.
Non vi rendete conto, infatti, che la vita è la forza dominante e che la morte costituisce unicamente un’interruzione nel suo fluire, dovuta alla rottura di un equilibrio, ripristinando il quale noi ripristiniamo la vita stessa. Trovando il giusto mezzo è possibile ravvivare le braci che covano sotto il velo apparente della morte, strappando all’oblio ciò che erroneamente crediamo perso e, invece, è solo assopito.
Senza esitare mi recisi le vene del polso sinistro e, mentre il mio sangue bagnava le labbra bluastre di Gaio, intonai il Canto di Mardhagg, così come lo riporta il Petraviva.
Le parole presero a scorrere sempre più frenetiche dalle mie labbra allorché un dolore pulsante iniziò a minare la mia concentrazione, sinché non venne l’istante in cui seppi che una seconda coscienza oltre alla mia stava lottando per riemergere dall’abisso.
Lasciai che il corpo bevesse avido la mia linfa, facendo forza sulla mia mente per non perdere il controllo, nonostante gli spasmi di lancinante sofferenza.
Il canto si mutò in un acuto grido di straziante angoscia, mentre la mia sola energia vitale stentava a sostenere due entità al contempo.
Facendo ricorso a tutte le mie forze, arrivai a respingere il gelo dai muscoli contratti, ad indurre il cuore a rinnovare i suoi battiti, a riempire d’aria i polmoni.
Non ho idea di quanto tempo impiegai, né vi posso dire quanto a lungo rimasi riverso ai piedi del tavolo di marmo, in preda alle convulsioni.
Mi rammento vagamente di Cassandra, e dei bagliori cupi che le fiamme ormai morenti traevano dal suo abito di velluto viola mentre avanzava verso di noi in preda all’eccitazione, pregustando l’abbraccio del suo amato.
Ricordo i suoi occhi, sgranati e brillanti come smeraldi allorché si posarono sul corpo martoriato, sul viso straziato del suo innamorato e si accesero di quella gelida ira distruttiva che solo i bambini e gli Dei possono provare. Ricordo che se ne andò, in silenzio e senza voltarsi.

No, signori, non vi posso rivelare cosa ne sia stato del giovane Gaio, poiché neppure io lo so, essendo egli scomparso prima che riprendessi i sensi.
Le ipotesi che si affacciano alla mia mente sono molte, ma dubito che le frenetiche ricerche condotte dai vostri armigeri, in seguito al mio arresto, produrranno risultati.
Quanto a me, non ho dubbi che la condanna di cui mi farete oggetto sarà esemplare, giacché mi sono macchiato del più atroce dei crimini agli occhi della comunità, arrivando a stravolgere il naturale ordine delle cose con un baccano tale da indurvi ad interrompere la vostra farsa, per prestare attenzione alle schegge d’oscurità che ognuno di noi porta nel cuore.
Condannatemi, signori, sono io a chiederlo, poiché dopo questa notte non potrei più adattarmi ad indossare la mia maschera, nemmeno per la breve durata d’un giorno. Mi basta sapere che, d’ora in poi, nessuno di voi sarà più capace di portare la propria senza avvertire un sottile disagio, senza domandarsi quali bizzarri pensieri covano nella mente di quanti lo circondano.


Il decimo giorno, del quarto mese, del secondo anno dell’Era dei Tre Imperatori, Tullio Valente, figlio di Glauco, venne condotto dinnanzi al Consiglio dei Venerabili di Borea, composto di uomini giusti e di specchiata moralità, per rispondere dell’accusa di stregoneria.
Riconosciuto colpevole di aver trafugato cadaveri per scopi abietti, venne impiccato nella pubblica piazza all’alba del giorno undicesimo.
E' curioso notare come le cronache dell’epoca riportino in maniera confusa i particolari inerenti l’inchiesta, soprattutto per quanto riguarda la difesa dell’imputato; per contro, gli eventi che portarono al processo impressionarono a tal punto la comunità da originare innumerevoli macabri racconti su quanto accadde in quei giorni.
Si narra che all’alba del mattino successivo all’esecuzione gli armigeri, giunti in piazza per allestire il rogo che avrebbe dovuto purificare le spoglie del condannato, trovarono solamente un patibolo vuoto ad attenderli sotto il cielo livido.
Di questo incidente si può trovare conferma nei Registri di Borea, che lo riportano peraltro in maniera piuttosto affrettata giacché l’attenzione del Consiglio dei Venerabili fu assorbita quella stessa mattina dalla notizia del feroce assassinio di Cassandra, figlia del patrizio Bramante e principale artefice, con la propria coraggiosa testimonianza, della condanna di Tullio Valente.
Sembra che la giovane fosse stata trovata morta nel suo letto poco dopo il sorgere del sole, col bel collo spezzato ed un’espressione d’angoscia, mista ad orrore, sul viso delicato.


Alessandro Negrini, nato a Milano nel 1975, vive in quel di Legnano con una moglie adorabile e una masnada di gatti che non lo sono affatto, pur compensando in fusa e fascino.
Laureato in Ingegneria Meccanica, è un libero professionista attivo nel campo dell’impiantistica industriale e della sicurezza occupazionale. Inoltre, è anche un noioso docente a contratto, ma il pensiero che persino Isaac Asimov sia stato un accademico gli è di gran conforto, a questo riguardo.
Bibliofilo veterano, ha seri problemi nel trovare nuovo spazio in casa per tutti i volumi dei suoi  autori prediletti, mosso dal malcelato intento di emulare la collezione (reale) di Umberto Eco nonché quella (fittizia) del Prof. Martin Jacques Mystère.
Ha partecipato più volte al Trofeo RiLL, di cui ha vinto la seconda edizione (con "La Voce di Arion") e la quarta edizione (con “Il processo”). Con “Testimonianza”, poi, è arrivato quarto al III Trofeo RiLL, nel 1997.
(biografia aggiornata al settembre 2024)

Leggi l'intervista ad Alessandro Negrini realizzata in occasione del trentennale del Trofeo RiLL.





argomento: 
Share