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di Alessandro Negrini
Vincitore del II Trofeo RiLL
[racconto presente nell'antologia Mondi Incantati, Novecento GeC, 2003]
C’è un giardino nella mia storia.
Non è che un piccolo giardino, abbandonato da molti anni. Un triangolo di umido terreno invaso dalla vegetazione, protetto da un muro di mattoni scivolosi di muschio e da una recinzione di assi grigie e sconnesse su cui s’apre una porticina in legno coi cardini mangiati dalla ruggine.
Un tempo alte siepi di lauro e rosai crescevano lungo i suoi margini a proteggerne l’intimità, ma ora non restano che muti scheletri rinsecchiti ed ammantati d’edera.
Piccoli ragni dalle zampe filiformi tessono ragnatele fra i rovi che hanno soffocato il glicine rosa, lucertole pigre riposano al sole pomeridiano sulle pietre roventi, qualche merlo fruga nervosamente tra l’erba dura e tagliente.
Un cipresso scuro ed imponente, simile ad un barbuto gigante assorto nei propri pensieri, cresce silenzioso ed indisturbato tra i denti di leone ed il convolvolo.
E oltre la recinzione c’è un mondo strano e meraviglioso. O almeno così mi sembra di ricordare.
C’è una stradina polverosa, immersa nell’ombra delle fresche case d’un paese antico.
Ci sono le colline assolate, da cui spira una brezza carica d’essenze forti e profumate, che accarezza tutte le Terre Dolci.
C’è anche il cielo, terso, luminoso come un sorriso, sotto al quale riposa una costruzione fatiscente, con le porte e le finestre spalancate su una perenne oscurità, che sembra respingere i raggi del sole più brillante.
I pini hanno allungato i loro rami attraverso gli squarci nel tetto di tegole rotte e i gradini della breve scala che porta all’entrata sono tutti spaccati.
Nessuno, nemmeno le streghe, vi entra mai.
Solamente i gatti silenziosi, nell’ora del meriggio, si godono il fresco dei suoi usci vuoti, delle sue fredde maioliche sbreccate, ed ascoltano lo stormire delle fronde, con la mente persa, come in un dolcissimo ricordo.
Gatti piccoli, gatti grandi, gatti bianchi, neri, rossi, gatti d’ogni colore, con occhi brillanti ed un sorriso sotto i baffi, che fissano i passanti attraverso le finestre dai vetri rotti.
Sorridono, e intanto una brezza lieve scuote le chiome del cipresso che affonda le radici nel mio cuore, nel cuore di un uomo che un tempo qualcuno chiamava Arion e di cui solamente i gatti sembrano ricordarsi. Perché i gatti hanno più memoria degli uomini, per alcune cose.
Certe notti sgusciano nel mio giardino come morbide ombre silenziose, s’accucciano fra le radici contorte delle piante bagnate di luna e si raccontano storie bellissime e magiche.
E quando narrano di Arion lo fanno sempre con un’infinita tristezza, perché ai gatti dispiace sempre perdere un amico, e non si danno pace se muore.
Per quel che mi riguarda, ho smesso da lungo tempo di tormentarmi a causa di ciò che mi è stato fatto, ed ho accettato la morte senza considerarla un’atroce condanna, ma solamente un'occasione per riflettere.
Certo, non è semplice affrontare la sorte con serenità.
C’è chi rimpiange la vita strappatagli, e rievoca un passato che si fa, attimo dopo attimo, sempre più sbiadito.
C’è chi invoca una vendetta che plachi l’orgoglio offeso e tenta, in un estremo atto di volontà, di aver ragione della carne corrotta, delle ossa spezzate, pur di perseguitare i suoi assassini. Ma per tutti, invariabilmente, c’è un’eterna attesa.
Della mia morte conservo vivido ogni particolare, ma rammento soprattutto la terribile delusione che provai nel momento in cui mi resi conto di dover realmente rinunciare al mondo.
La stessa sensazione che si prova quando, da piccoli, il sole tramonta e si deve tornare a casa, e si deve lasciare il gioco appena incominciato con gli altri bambini, che continueranno senza di te.
Una cocente delusione, non ricordo altro.
Delusione perché non avrei mai potuto concludere i miei studi sui corpi celesti, a cui tenevo tanto.
Delusione perché non avrei mai finito di leggere quel libro che stringevo tra le mani.
Delusione perché i miei gerani sarebbero appassiti, se nessuno li avesse innaffiati.
Delusione perché tutte le mie conoscenze di stregone e guaritore sarebbero andate perse, come gettate al vento.
Delusione perché mi avevano impedito di vedere il giorno seguente, e quello dopo ancora, perché non mi aveva raggiunto una morte un po’ più dignitosa.
E, invece, fu il mio acerrimo nemico Bithrael ad uccidermi a tradimento.
Mutatosi in vipera, scivolò tra l’erba fresca del mio giardino, nell’ora del tramonto.
Mi morse di sorpresa mentre m’attardavo ad ammirare il cielo, così rosso e vicino che avrei potuto berlo, godendomi la brezza ingannatrice che m'aveva indotto a sedermi tra i fiori, invece di rientrare in casa.
Una fitta alla mano su cui mi tenevo appoggiato, qualche goccia scarlatta del mio sangue sulla tunica di velluto, poi... il cuore che esplodeva, un lento offuscarsi della mente in un turbine di fitte ghiacciate che mi solcavano il petto, strappandomi i muscoli.
Mi spensi con un sospiro.
A nulla valse la mia magia contro il denso veleno del mio assassino, che gustò a lungo la sua vittoria facendosi beffe del mio cadavere contorto, prima di far ritorno al suo castello di pietre bianche, circondato dalle verdi e cupe acque del lago di Mneyss.
Dicono che, in seguito, Bithrael festeggiò ancora per giorni il suo trionfo, ballando ridde sfrenate sotto la luna, urlando ai venti gelidi la sua gioia dalla torre più alta del suo maniero, bevendo vino caldo e speziato fino ad ubriacarsi.
Non uno, sapendo ciò che era avvenuto, s’azzardò a dare sepoltura alle mie spoglie, che vennero spolpate, giorno dopo giorno, dai corvi che vi si affaccendavano alacremente.
Non uno osò togliermi dalle mani il libro che ancora stringo al mio petto, con un dito inutilmente infilato tra le sue pagine.
Tuttavia, la mia coscienza non morì, anche se non so spiegarmi perché ciò avvenne.
Forse è il destino dell’anima di ogni stregone quello di rimanere a vegliare sulla propria tomba, non avendo dèi o demoni a cui affidarsi.
Forse è la condanna riservata a quanti non hanno alcuna religione e confidano solo nella propria mente.
Forse è il premio per quanti agognano al raggiungimento della saggezza: l’eternità per pensare, senza distrazioni materiali.
Trascorse altro tempo, ed il mio corpo fu divorato lentamente, le mie ossa tormentate e scomposte sbiancarono al sole, e il muschio crebbe su di esse, coprendole come un sudario.
La terra, infine, m’accolse in un umido abbraccio, e fu allora che avvenne il prodigio.
In una notte di luna piena venne da me un gatto dal pelo candido, nei cui occhi d’un blu profondo brillava una luce calda e benefica. Rimase a meditare sulla mia tomba per lunghe ore, poi, poco prima d’andare via, posò la sua zampa vellutata là dove una volta aveva battuto il mio cuore.
In quel punto nacque un cipresso che, col passare delle stagioni, si fece sempre più alto e robusto, levandosi verso il cielo come un dito accusatore.
E le sue fronde scure presero ad agitarsi al vento, aggiungendo il proprio stormire a quello dei mille alberi dei colli circostanti, in un mormorio sommesso ed insistente, come un incantesimo pronunciato a fior di labbra.
Dicono che questo monotono sussurro fosse udibile sino alle fredde sponde del lago di Mneyss, e che, ben presto, divenne un tormento per il vecchio e pazzo Bithrael, perseguitandolo ovunque andasse, giorno dopo giorno, notte dopo notte, impedendogli la lettura, togliendogli l’appetito, privandolo del sonno.
Non servì a nulla nascondersi tremante nelle umide cantine del suo maniero, nella speranza di chiudersi alle spalle il proprio supplizio, né cercare la propria salvezza fra le pagine giallastre di polverosi grimori borchiati d’argento.
Bithrael non ebbe pace finché, nell’ora del meriggio, quando il cielo è più brillante, non si decise a morire gettandosi dalla torre più alta del suo castello di pietre bianche.
Talvolta i viandanti vedono gatti sorridenti prendere il fresco sull’uscio d’una vecchia casa fatiscente ai margini di un antico villaggio perso fra i colli, mentre le fronde d’un nero cipresso che getta la sua ombra sulla strada assolata stormiscono gentilmente alla brezza.
Nessuno sa perché sorridano, ma non è forse vero che i gatti hanno più memoria degli uomini, per alcune cose?
Alessandro Negrini, nato a Milano nel 1975, vive in quel di Legnano con una moglie adorabile e una masnada di gatti che non lo sono affatto, pur compensando in fusa e fascino.
Laureato in Ingegneria Meccanica, è un libero professionista attivo nel campo dell’impiantistica industriale e della sicurezza occupazionale. Inoltre, è anche un noioso docente a contratto, ma il pensiero che persino Isaac Asimov sia stato un accademico gli è di gran conforto, a questo riguardo.
Bibliofilo veterano, ha seri problemi nel trovare nuovo spazio in casa per tutti i volumi dei suoi autori prediletti, mosso dal malcelato intento di emulare la collezione (reale) di Umberto Eco nonché quella (fittizia) del Prof. Martin Jacques Mystère.
Ha partecipato più volte al Trofeo RiLL, di cui ha vinto la seconda edizione (con "La Voce di Arion") e la quarta edizione (con “Il processo”). Con “Testimonianza”, poi, è arrivato quarto al III Trofeo RiLL, nel 1997.
(biografia aggiornata al settembre 2024)
Leggi l'intervista ad Alessandro Negrini realizzata in occasione del trentennale del Trofeo RiLL.