Uno scambio d'arme (letterario) fra gentiluomini

L’autore quarto classificato al XV Trofeo RiLL racconta dal suo punto di vista la serata di letture condivise Parole da Viaggio, andata in scena venerdì 23 aprile 2010 al Teatro Quarticciolo di Roma.
di Massimiliano Malerba
[pubblicato su RiLL.it nel maggio 2010]


Durante la serata di letture condivise Parole da Viaggio, al Teatro Quarticciolo di Roma, Massimiliano Malerba è stato sia adattatore e lettore (del racconto “Accadde fra le umide foreste di Madre Africa”, vincitore del XV Trofeo RiLL) che anche autore letto (il RiLLino Alberto Panicucci ha letto infatti il suo “Le stelle d’inverno”).
Massimiliano Malerba racconta qui le sue emozioni di quella serata...
(per quelle di Luca Barbieri, autore di “Accadde fra le umide foreste di Madre Africa”, rimandiamo invece a un'altra pagina del sito)


Quando Alberto Panicucci mi ha spedito la lista dei racconti RiLLici dalla quale selezionare il mio preferito, non ho avuto dubbi: le umide foreste di madre Africa mi avevano immediatamente affascinato.
Ero anche, devo dire, molto ammaliato dall’idea cavalleresca di difendere, proponendolo come fosse il mio, il racconto di un antagonista letterario: questa proposta mi è piaciuta subito, offrendomi lo spunto per diventare il lettore del racconto vincitore del XV Trofeo RILL, quasi fosse uno scambio d’arme tra gentiluomini (non v’è nulla da fare: il duello cortese rinascimentale è materia che mi attrae).

Bene. Il difficile doveva venire.
In primis, la forma teatrale. La lettura, si sa, è un fatto privato; l’evocazione emotiva che uno scritto ingenera nel lettore è una magia che si istaura di norma in via diretta, silenziosa, riservata, quasi pudica, tra il leggente e il libro. È un transfert, che il più delle volte non ammette estranei o terzi interlocutori. O per lo meno, lo fa con difficoltà. Arduo che un esperimento di lettura collettiva funzioni a dovere, perché quel rapporto diretto con il libro, la parola a dieci centimetri dal viso, l’odore di carta delle pagine, si perde.
Secondo, il taglio. Come ridurre un testo compiuto lungo dieci cartelle a poche righe, da leggersi nel giro di due minuti netti, senza violentarne l’essenza, senza conquistare l’ira dell’autore, conservandone le suggestioni letterarie?
Terzo, il ruolo. Diventare al contempo editor e lettore, presentare una storia nella storia, operare i tagli, trapiantare organi vitali di narrazione, discuterne con gli altri chirurghi (la regista, l’aiuto regista), affrontare i parenti (l’autore), far sopravvivere il paziente; ciò mi si chiedeva.

Mi incoraggio, quindi, e seleziono meglio che posso le frasi del racconto, cercando di mantenere una struttura che si auto sostenga: come dire, una trama. Niente di più sbagliato. All’arrivo in teatro, per discutere la selezione con l’aiuto regista, scopro che devo ricominciare da capo. Occorre fornire spunti, rielaborare, presentare lampi evocatori, non narrare. Di più: bisogna restare attinenti al tema, il viaggio. Via le grandi battaglie, i corpi che cozzano in fragorose mischie: meglio le liquide sponde del fiume africano, sinuose e lussureggianti di verzura, molto meglio le inquietudini notturne dei protagonisti che la luce della Luna tiene desti sul naviglio legnoso. Va bene. Leggo: due minuti e cinque. Niente male, ma posso fare di più (a casa, “facendo i cordoli” come Schumacher, scopro che posso scendere agevolmente sotto l’uno e cinquantacinque…).

Arriva il giorno.
Improvvisato lettore mi precipito al Teatro Quarticciolo con abbondante ritardo, trovo posto sul divano sotto i riflettori (e mi chiedo come fanno al Maurizio Costanzo Show a non sudare come lontre). Arriva il turno del “mio” racconto. Leggo, con grande emozione, la parte di testo che ho selezionato. E tutto, inspiegabilmente, funziona: la lettura collettiva genera una sensazione strana, bella, sincera, di essere parte di un tessuto connettivo, nel quale di quando in quando uno dei gangli sinaptici s’illumina, investendo gli altri, silenti ascoltatori con un’onda espansiva di emozioni; sempre diverse, sempre potenti, concentrate in pochissimi secondi, come impulsi sonar. Sembra di essere sospesi in un luogo senza tempo, in un buio illuminato da torce letterarie, dove voci che si accendono in ordine sparso leggono frammenti di vite altrui alla luce di piccoli lumini a batteria.
Viene anche il turno del mio racconto, Le stelle d’inverno: Alberto legge. È alle mie spalle, ma la sua voce si diffonde in tutto lo spazio, nella sala. E sentirsi leggere è una sensazione straniante, e al contempo dolce.

Dopo lo spettacolo, Francesco Ruffino mi fa notare che sono uno dei pochi autori ancora viventi, tra quelli selezionati per l’evento. In effetti, a leggere la lista, c’è da aver paura: nomi come Calvino, Seneca, Omero, Baudelaire, Pasolini, Hesse. C’è anche il buon vecchio Dante. E poi, Malerba. Luigi? No. Massimiliano. E chi è?, diranno gli astanti. Mi torna in mente la surreale scena dell’esame di maturità nell’indimenticabile Ecce Bombo di Nanni Moretti (“Porto un poeta moderno, Alvaro Rissa”; “E chi è??”; “Salve, sono Alvaro Rissa, il poeta”).

Nella pausa, un ricco buffet allieta gli affanni dei lettori e dei letti; sorrido, addentando un biscotto: perché si sa che il convivio, altrimenti detto “mangiata”, nella sua forma più alta fin dai tempi antichi ha stimolato le facoltà umanistiche.

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